Violazioni israeliane dei diritti dei lavoratori palestinesi

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Le violazioni israeliane dei diritti dei lavoratori palestinesi: COVID-19 e abusi sistemici  

Ihab Maharmeh 

15 luglio 2021 – Al-Shabaka

 

Sintesi

Dallo scoppio della pandemia da COVID-19 in Israele e nelle colonie illegali in Cisgiordania i diritti dei lavoratori palestinesi1 sono stati oggetto di crescenti violazioni. Il 17 marzo 2020 Naftali Bennett, ex ministro della Difesa, aveva annunciato una serie di disposizioni speciali per regolare il lavoro e l’alloggio dei lavoratori palestinesi della Cisgiordania per tentare di limitare l’incremento dei contagi nella popolazione israeliana. Le disposizioni permettevano a chi aveva il permesso di lavoro e a quelli con meno di 50 anni di entrare e uscire dai territori israeliani, ma imponevano ai lavoratori di concordare impiego e alloggio con i datori di lavoro israeliani e proibivano di rientrare in Cisgiordania per tutta la durata dei contratti.

 

Oltre a tale rigida normativa, Mohammad Shtayyeh, il primo ministro palestinese, aveva ordinato a questi lavoratori di ritornare immediatamente e mettersi in quarantena nelle proprie case per 14 giorni, esortando i servizi di sicurezza palestinesi e i comitati popolari per le emergenze in tutta la Cisgiordania a rafforzare le misure per impedire loro di spostarsi. L’annuncio era arrivato mentre in Cisgiordania si registravano le prime vittime: una donna a Biddu, a nord-ovest di Gerusalemme, che aveva contratto il virus dal figlio e un operaio della zona industriale di Atarot a Gerusalemme.

Anche se migliaia di lavoratori hanno obbedito all’ordine di Shtayyeh, agli inizi di maggio 2020 circa 40.000 l’hanno ignorato e sono ritornati ai loro posti di lavoro rischiando la vita poiché i contagi e i morti da COVID-19 in Israele crescevano in modo significativamente più veloce che in Cisgiordania e a Gaza. Il loro ritorno ha coinciso con un accordo fra palestinesi e israeliani con il quale l’Autorità Palestinese (AP) ha recepito le disposizioni di Bennett. Nonostante ciò, il regime israeliano ha fatto poco per proteggere i lavoratori dall’infezione, anzi ha aumentato le violazioni sistemiche dei loro diritti umani e in quanto lavoratori.

Questo articolo evidenzia le violazioni in Israele del regime israeliano dei diritti dei lavoratori palestinesi e degli accordi prima e durante la pandemia e sostiene che tali violazioni si sono intensificate. Si conclude con alcune raccomandazioni per proteggere i lavoratori palestinesi.

Israele soffoca il mercato del lavoro palestinese

I palestinesi con un documento di identità della Cisgiordania hanno iniziato ad affluire in Israele e nelle colonie in seguito alla guerra del 1967 dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gaza, della penisola del Sinai e delle alture del Golan. Due fattori concorsero a incrementare questo afflusso: il bisogno di manodopera del regime israeliano per la nascente impresa di colonizzazione e l’urgente necessità di impiego per i palestinesi in seguito alla distruzione della loro economia dopo la guerra del 1948. Dato che il regime israeliano poteva offrire salari più alti e maggiori opportunità di impiego, i palestinesi accorsero. Comunque Israele, assorbendo tale manodopera, cercava soprattutto di controllare i fattori principali della produzione palestinese allo scopo di indebolire, dissanguare e controllare l’economia palestinese, imponendo con la forza il proprio controllo.

Da allora i palestinesi sono diventati la principale componente della forza lavoro in Israele, specialmente nei settori edilizio e dei servizi. Si è passati dai 20.000 nel 1970 ai 116.000 nel 1992, con un incremento medio annuale del 6.3%. Dopo la firma degli Accordi di Oslo nel 1993 e del Protocollo di Parigi nel 1994, che integrava formalmente l’economia palestinese in quella israeliana e chiudeva i confini palestinesi all’economia globale, Israele ha imposto restrizioni ai movimenti dei lavoratori palestinesi dalla Cisgiordania e da Gaza e limitato il numero dei permessi di lavoro a loro concessi. Tuttavia tale afflusso in Israele e nelle colonie è aumentato da 95.000 unità nel 1995 a 133.000 nel 2019,2 la cifra più alta mai registrata.

Dal 1967, la popolazione palestinese in Cisgiordania e Gaza si è più che quintuplicata, passando da circa 965.000 a 5.1 milioni di individui nel 2020; un po’ più della metà sono in età lavorativa (più di 15 anni). Tuttavia l’economia palestinese non è stata in grado di generare nuove opportunità lavorative per assorbire questo gruppo demografico. Di conseguenza la distribuzione relativa dei lavoratori palestinesi nei settori pubblico e privato è calata, mentre è salita la loro distribuzione relativa in Israele e nelle colonie.

Un caso emblematico è quello verificatosi dopo la Seconda Intifada, con un notevole incremento del numero dei lavoratori palestinesi nei territori israeliani, come mostrato dalla seguente tabella, dove la prima colonna si riferisce al 2005 e la seconda al 2019:

Distribuzione relativa dei lavoratori palestinesi in Israele e nelle colonie                   9,3%     13,2%
Distribuzione relativa dei lavoratori palestinesi nel settore pubblico palestinese      22,5%    20,7%
Distribuzione relativa dei lavoratori palestinesi nel settore privato palestinese         68,2 %   66,1%
Lavoratori autonomi palestinesi e imprenditori palestinesi                                        26,1%    18,1%

 

Tavola compilata dall’autore basandosi sui dati dell’Ufficio Centrale di Statistica palestinese del 2005 e del 2019

 

Sebbene dalla fine degli anni ’60 la possibilità di lavorare in Israele e nelle colonie abbia permesso ai palestinesi di trovare opportunità di guadagnare di più (sebbene, in media, meno della metà del salario minimo in Israele) e migliorare le proprie condizioni economiche essi soffrono di terribili condizioni lavorative, della mancanza di adeguate misure di sicurezza e dell’assicurazione contro gli infortuni e spesso denunciano violazioni del diritto israeliano del lavoro e degli standard lavorativi e degli accordi internazionali ratificati da Israele, particolarmente in relazione a salari, orario di lavoro e politiche sui congedi. Queste condizioni si sono particolarmente esacerbate dall’inizio della pandemia.

Inoltre, il dominio israeliano sui principali fattori di produzione dell’economia palestinese ne ha ostacolato la possibilità di creare opportunità lavorative. Israele continua a controllare e limitare l’accesso alle terre e alle risorse naturali palestinesi, costringendo circa un quarto della popolazione palestinese della Cisgiordania a rinunciare a impiegarsi in parecchi settori vitali, specialmente in quello agricolo, una delle maggiori risorse di impiego e sostentamento prima degli accordi di Oslo. Anzi, dall’accordo del 1993 l’espansione delle colonie e il furto delle terre e delle risorse naturali palestinesi hanno paralizzato l’economia, costringendo i palestinesi ad abbandonare le proprie terre e a cercare impiego in Israele e nelle colonie. Israele ha così creato un notevole gap strutturale nei costi di produzione fra le rispettive economie, favorendo la propria. Ciò ha portato a un aumento della proporzione dell’import israeliano in Cisgiordania e a Gaza, contribuendo a uno stabile incremento nel deficit commerciale palestinese.

Inoltre dal 1967 i checkpoint militari israeliani hanno limitato i movimenti e lo scambio di beni e prodotti fra città e villaggi palestinesi. In questo paesaggio frammentato, che fa sostanzialmente gli interessi economici di Israele, solo i palestinesi con permessi di lavoro rilasciati dal regime israeliano possono spostarsi fra le colonie, Gerusalemme e Israele. In questo modo i permessi servono ad affermare l’attuale strategia del regime di gestire e controllare i movimenti dei palestinesi e di confinarli a lavorare in spazi che violano gli standard e le leggi internazionali sul lavoro, esponendoli continuamente a gravi rischi.

COVID-19 e l’inasprimento delle violazioni israeliane

Dopo che per decenni il regime israeliano ha deliberatamente bloccato gli sforzi dei palestinesi per creare un’economia che possa impiegare la propria popolazione in età lavorativa, ai palestinesi sono state lasciate poche alternative di impiego in Cisgiordania e a Gaza. Ciò ha posto un serio problema per gli operai dopo lo scoppio della pandemia che agli inizi del 2020 si è diffusa in Israele con velocità allarmante. Con tassi di contagio crescenti e pessime condizioni lavorative, i lavoratori palestinesi sono stati i principali diffusori del virus in Cisgiordania.

Prima della pandemia, le violazioni israeliane dei diritti dei lavoratori palestinesi erano ben documentate e includevano le pressioni esercitate affinché cooperassero con i servizi di intelligence israeliani in cambio dei permessi di lavoro. Da allora questi abusi non hanno fatto che aumentare.

Nell’aprile 2020, mentre la pandemia si allargava a Israele, Cisgiordania e Gaza, ai lavoratori palestinesi veniva richiesto di scaricare “Al-Munasiq” (il coordinatore), un’app israeliana sviluppata nel febbraio 2019 dal Ministero della Difesa israeliano su richiesta dell’Amministrazione Civile [organismo militare israeliano che governa i territori occupati, ndtr.] per gestire meglio le domande per i permessi. Ma la Coalizione palestinese dei diritti digitali  avverte che scaricare l’app offre a Israele l’opportunità di ulteriori ricatti, sfruttamento e umiliazioni.

Durante la pandemia il controllo demografico è stato essenziale per tutti i governi e l’app ha concorso perfettamente alla strategia di gestione della popolazione del regime israeliano, con la sua raccolta di informazioni e dati personali estratti dai cellulari dei lavoratori palestinesi, come localizzazione, chiamate in entrata e uscita, foto e video, messaggi, email e dati da app di altre persone. Costringere a scaricare Al-Munasiq per andare e lavorare nelle zone palestinesi colonizzate è un altro meccanismo che fa parte della storia di sfruttamento, umiliazioni e vessazioni ai danni di palestinesi.

Dall’inizio della pandemia i lavoratori palestinesi hanno anche sofferto ulteriori abusi da parte dei soldati israeliani mentre si recavano al lavoro, specialmente nel loro diritto di accedere liberamente ai luoghi di lavoro. Il 17 agosto 2020 i media israeliani e internazionali hanno diffuso prove dei crimini commessi dal maggio 2020, inclusa una registrazione di soldati israeliani che, sotto la minaccia delle armi, picchiavano, insultavano e derubavano alcuni lavoratori palestinesi che per andare al lavoro stavano attraversando checkpoint militari nel sud della Cisgiordania.

Si sono anche visti dei soldati israeliani dell’occupazione che ai checkpoint lanciavano gas lacrimogeni contro chi senza permessi tentava di attraversare i rari varchi nel Muro dell’Apartheid, come anche inseguire e pedinare operai  diretti al lavoro. Queste violazioni sono culminate nell’assassinio di due pendolari palestinesi da parte di soldati israeliani. L’uccisione di Fouad Sebti di Tulkarem il 24 gennaio 2021 e di Sherif Rajeh Irzeigat di Hebron il 14 febbraio 2021 dimostrano la ferocia di queste violazioni in questi tempi di COVID-19.

In realtà il COVID-19 ha evidenziato le pericolose condizioni affrontate dagli operai palestinesi che hanno bisogno di mantenere la loro fonte di sussistenza lavorando in Israele e nelle colonie in un’economia di morte.

Per esempio, durante la loro permanenza in Israele i lavoratori palestinesi rischiano la propria vita a causa della scarsità di misure pubbliche di sicurezza nei loro alloggi. I lavoratori hanno riferito di dormire ammassati nei cantieri, sul pavimento nelle fabbriche, in magazzini, giardini e serre, in aree senza lenzuola o coperte pulite prive di bagni e del necessario pe mantenere l’igiene personale. Nel maggio 2020 sono circolate sui social numerose immagini che denunciavano alloggi poco igienici e condizioni di vita malsane dei lavoratori dei cantieri e dei depositi. Inoltre negli alloggi di questi operai non erano riforniti di cibo o bevande a causa del coprifuoco in Israele e nelle colonie.

Successivamente è stata denunciata la mancanza di misure preventive al lavoro e l’inadempienza dei datori di lavoro israeliani nel garantire loro esami medici necessari o cure adeguate in caso di  COVID-19. Per tutta risposta le autorità israeliane hanno espulso o abbandonato questi lavoratori ai checkpoint. Un video circolato sui social ne mostrava uno, Malek Ghanem, mentre veniva lasciato sul ciglio della strada al checkpoint di Beit Sira, vicino a Ramallah, perché sospettato di essere positivo al COVID-19. Altri incidenti simili si sono verificati in seguito in Cisgiordania.

Implicazioni delle violazioni israeliane per l’economia palestinese

I lavoratori palestinesi in Israele contribuiscono annualmente all’economia palestinese con circa 3,25 miliardi di dollari, una media di 271 milioni di dollari al mese, cioè 71 dollari al giorno cadauno. Invece il salario minimo mensile in Cisgiordania e Gaza si attesta rispettivamente sui 400 e 206 dollari.3 Quindi in Israele e nelle colonie il salario medio giornaliero è circa il doppio dei loro colleghi nel pubblico e nel privato in Cisgiordania e più di quattro volte tanto rispetto a quello dei loro colleghi a Gaza.

Il reddito di questi lavoratori è cruciale per migliorare la performance dell’economia palestinese; quindi ogni cambiamento, specialmente la perdita di lavoro in Israele e nelle colonie, colpirà direttamente centinaia di migliaia di famiglie.4 Questo è diventato particolarmente evidente quando il loro numero in Israele e nelle colonie è sceso di circa 34.000 lavoratori alla fine del 2020. Il declino è stato più pronunciato nell’edilizia, con il 15% dei 70.000 operai palestinesi che hanno perso il lavoro, seguito dal settore agricolo, con un calo del 9%. Inoltre, alla fine del 2020 c’erano circa 8.000 disoccupati in Israele e nelle colonie a causa del licenziamento di chi aveva più di 50 anni, una diretta conseguenza delle norme speciali approvate dall’AP per regolare la forza lavoro palestinese durante la pandemia.

Di conseguenza dall’aprile 2020 molti lavoratori palestinesi hanno subito tagli dei salari, in violazioni delle leggi sul lavoro israeliane che proibiscono discriminazioni basate sulla nazionalità. Nella prima metà del 2020 i datori di lavoro israeliani hanno ridotto il salario medio giornaliero dei palestinesi in Israele e nelle colonie da 82 a 76 dollari. Anche se poi l’hanno portato a 80 dollari nella seconda metà dell’anno, resta ancora sotto il livello pre-pandemia. Inoltre quando questi operai hanno obbedito all’ordine dell’AP di non andare a lavorare nei territori israeliani, i datori di lavoro si sono rifiutati di compensarli per la loro assenza forzata, con perdite finanziarie che si stimano a 250 milioni di dollari nel 2020.

Il declino del numero dei lavoratori palestinesi in Israele e nelle colonie e la riduzione dei loro salari e sussidi in tempi di COVID-19 hanno impattato drammaticamente sull’economia palestinese – rappresentando 2,5 miliardi di dollari (o un terzo) delle sue perdite nel 2020. Nel marzo 2021 l’AP ha annunciato che nell’anno precedente l’economia palestinese è scesa del 11.5%, le entrate pubbliche del  20%, il disavanzo fiscale è salito al 9.5% del PIL e il debito interno ha raggiunto il 15%.

Sebbene Israele abbia vaccinato oltre100.000 lavoratori palestinesi dal marzo 2021, l’incertezza che circonda la ripresa economica e la campagna di vaccinazione dell’AP in Cisgiordania e a Gaza fa pensare che l’economia continuerà a soffrire. Di conseguenza si presume che la sua forzata dipendenza da quella israeliana si aggraverà, specialmente per il lavoro e l’impiego, data l’impossibilità dell’economia palestinese di assorbire lavoratori colpiti dall’epidemia, oltre ai nuovi lavoratori che cercano un lavoro. Si prevede che anche a Gaza il tasso di disoccupazione salirà dal 26% alla fine del 2020 a circa il 31% per la fine del 2021.

 

Raccomandazioni politiche

Le seguenti sono raccomandazioni politiche per porre fine alle violazioni israeliane dei diritti dei lavoratori palestinesi in Israele e nelle colonie:

  • L’AP dovrebbe fare pressione sulla comunità internazionale per intensificare gli sforzi per proteggere i diritti dei lavoratori palestinesi.
  • L’AP dovrebbe includere le violazioni dei diritti dei lavoratori palestinesi nelle sue azioni giudiziarie contro il regime israeliano presso il Tribunale Penale Internazionale affinché politici, datori di lavoro e compagnie israeliane siano rese responsabili.
  • Il movimento BDS dovrebbe mettere ancora di più al centro delle sue richieste di boicottaggio delle aziende israeliane la violazione dei diritti dei lavoratori palestinesi.
  • La Federazione Generale Palestinese dei Sindacati dovrebbe sostenere gli sforzi dei lavoratori palestinesi in Israele e nelle colonie per instituire un sindacato indipendente che protegga i loro diritti sindacali e li integri nella lotta politica per la liberazione dal colonialismo israeliano.
  • Il sindacato dovrebbe sviluppare un discorso politico e sindacale che tratti allo stesso modo tutti i lavoratori palestinesi in Israele e nelle colonie, che siano della Cisgiordania, Gaza o Israele.
  • Le organizzazioni dei diritti digitali dei palestinesi e degli arabi dovrebbero mobilitare le organizzazioni dei diritti umani per bloccare l’uso dell’app “Al-Munasiq”, che raccoglie dati personali.
  • Le organizzazioni dei diritti umani regionali e internazionali che si concentrano sui problemi del lavoro dovrebbero far pressione su politici, datori di lavoro e aziende che violano i diritti dei lavoratori palestinesi affinché desistano da queste violazioni.
  • In questo documento con “lavoratori palestinesi” mi riferisco solo ai possessori di un documento di identità cisgiordano e che lavorano nelle colonie israeliane o in Israele. Non include le esperienze più ampie dei lavoratori di Gerusalemme e i palestinesi con cittadinanza israeliana che lavorano in territori israeliani.
  • Il numero dei palestinesi che lavorano in Israele e nelle colonie sarebbe significativamente più alto se in queste stime fossero inclusi quelli che lavorano senza permesso o con permessi commerciali o per necessità speciali.
  • Il salario minimo è basato sulla decisione n (11) del Gabinetto del 2012 che fissa in 1.450 shekel (377 euro) il salario minimo mensile per tutti i settori sotto la giurisdizione dell’AP.
  • Per una prospettiva alternativa sul ruolo delle colonie israeliane nell’economia palestinese vedi “How Israeli Settlements Stifle Palestine’s Economy,” [Come le colonie israeliane soffocano l’economia palestinese] di Nur Arafeh, Samia al-Botmeh e Leila Farsakh (2015).

 

  1. In questo documento con “lavoratori palestinesi” mi riferisco solo ai possessori di un documento di identità cisgiordano e che lavorano nelle colonie israeliane o in Israele. Non include le esperienze più ampie dei lavoratori di Gerusalemme e i palestinesi con cittadinanza israeliana che lavorano in territori israeliani.
  2. Il numero dei palestinesi che lavorano in Israele e nelle colonie sarebbe significativamente più alto se in queste stime fossero inclusi quelli che lavorano senza permessio o con permessi commerciali o per necessità speciali.
  3. Il salario minimo è basato sulla decisione n (11) del Gabinetto del 2012 che fissa in 1.450 shekel (377 euro) il salario minimo mensile per tutti i settori sotto la giurisdizione dell’AP.
  4. Per una prospettiva alternativa sul ruolo delle colonie israeliane nell’economia palestinese vedi “How Israeli Settlements Stifle Palestine’s Economy,” [Come le colonie israeliane soffocano l’economia palestinese] di Nur Arafeh, Samia al-Botmeh e Leila Farsakh (2015).

 

Ihab Maharmeh è un ricercatore presso il Centro Arabo per la Ricerca e gli Studi Politici di Doha e il segretario di redazione del loro quindicinale Siyasat Arabiya. Ha lavorato presso la Birzeit University dove ha conseguito una laurea in Pubblica Amministrazione e un master in Studi Internazionali presso l’Ibrahim Abu-Lughod Center for International Studies. Ha anche un master in Politiche Pubbliche e Cooperazione Internazionale del Doha Institute for Graduate Studies. Ha pubblicato parecchi studi in riviste peer reviewed su colonialismo, trasferimenti forzati, lavoratori palestinesi in Israele e nelle sue colonie e sulla resistenza palestinese.

 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 

 

 

 

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