Questo è nostro – e anche questo: la politica coloniale di Israele in Cisgiordania

Marzo 2021 B’Tselem

sommario del rapporto congiunto con Kerem Navot[associazione della società civile israeliana che dal 2012 analizza la politica territoriale di Israele in Cisgiordania, ndtr]

 

Lo Stato di Israele sta imponendo un regime di supremazia ebraica nell’intera zona fra il fiume Giordano ed il Mar Mediterraneo. Il fatto che la Cisgiordania non sia stata formalmente annessa non impedisce ad Israele di trattarla come se fosse un proprio territorio, soprattutto se pensiamo alle ingenti risorse investite nello sviluppo delle colonie e nella costruzione delle infrastrutture necessarie ai residenti. Questa politica ha permesso la creazione di più di 280 colonie e avamposti abitati da oltre 440.000 cittadini israeliani (esclusa Gerusalemme Est). Grazie a questa politica sono stati rubati, sia con mezzi ufficiali sia non ufficiali, oltre due milioni di dunam (200.000 ettari) di terre palestinesi; la Cisgiordania è attraversata in lungo e in largo da strade che collegano le colonie fra di loro e con il territorio sovrano di Israele, ad ovest della Linea Verde [il confine tra Israele e i territori occupati, ndtr.] e l’intera area è disseminata di zone industriali israeliane. Nel corso dei decenni tutto questo ha trasformato la geografia della Cisgiordania tanto da renderla irriconoscibile.

 Questo rapporto, che tratta dei meccanismi finanziari, legali e di pianificazione utilizzati dalle autorità israeliane da oltre cinquant’anni al fine di permettere la creazione, l’espansione e il mantenimento delle colonie, si concentra su due aspetti chiave. In primo luogo, gli sforzi intrapresi da diverse autorità statali per incoraggiare gli ebrei a trasferirsi nelle colonie e a sviluppare imprese economiche dentro e intorno ad esse. Lo Stato offre moltissimi benefici ed incentivi ai coloni e alle colonie tramite canali ufficiali ma anche non ufficiali – ampiamente esaminati nella relazione. I più significativi sono i sussidi per l’alloggio, che consentono di comprare case nelle colonie a quelle famiglie che non hanno capitali o fonti di reddito sufficienti. Questi sussidi spiegano in parte la rapida crescita della popolazione nelle grandi colonie ultra-ortodosse in Cisgiordania – Modi’in Illit and Beitar Illit. Oltre a ciò, agli abitanti di circa trenta colonie, alcune delle quali ricche, vengono offerte significative agevolazioni fiscali fino a 200.000 shekel, corrispondenti a circa € 50.600.

Alle zone industriali in Cisgiordania vengono offerti ulteriori benefici e incentivi, che comprendono imposte scontate sui terreni agricoli e sussidi per l’occupazione. Questi stimolano in modo significativo la crescita del numero di fabbriche in zona. Israele incoraggia inoltre gli ebrei a stabilire nuovi avamposti, che funzionano come aziende agricole e consentono l’acquisizione di pascoli e terreni agricoli palestinesi su vasta scala. Nel corso dell’ultimo decennio si sono create quaranta aziende agricole di questo tipo, che hanno di fatto incorporato decine di migliaia di dunam (un dunam equivale a 1000 mq).

 In secondo luogo, il rapporto analizza l’impatto territoriale dei due blocchi di colonie che attraversano la Cisgiordania. Un blocco, costruito a sud di Betlemme, si estende dagli agglomerati urbani di Beitar Illit and Efra ad ovest e gli insediamenti appartenenti al consiglio regionale di Gush Etzion, che circondano Betlemme ed i villaggi intorno, fino alla colonia di  Nokdim e dintorni ai margini del deserto della Giudea, ad est. L’altro blocco è situato nel centro della Cisgiordania e consiste delle colonie di Ariel, Rehelim, Eli, Ma’ale Levona, Shilo, nonchè degli avamposti costruiti intorno ad esse. Anche questo blocco attraversa la Cisgiordania, fino a raggiungere le colline che si affacciano sulla valle del Giordano.

Israele non risparmia alcuno sforzo per aumentare la popolazione di questi due blocchi e per estenderne l’impronta geografica. Ciò viene perseguito progettando nuove zone abitative, costruendo infrastrutture e preparando progetti e terreni per edifici e aree residenziali futuri. Nell’ultimo decennio queste iniziative hanno già portato ad una crescita demografica accelerata in entrambi i blocchi. Si prevede che la popolazione di Efrat raddoppierà o addirittura triplicherà nei prossimi decenni, che quella di Beitar Illit crescerà di 20.000 coloni e quella di Ariel di circa 8.000.

 L’impatto di questi due blocchi va ben oltre la superficie effettivamente coperta (che si estende su circa 20.000 dunam) ed il numero degli abitanti (un totale di circa 121.000 coloni). È la loro stessa esistenza a pregiudicare qualsiasi possibilità di sviluppo sostenibile per i palestinesi nella zona, oltre a colpire direttamente i mezzi di sostentamento e il futuro di decine di migliaia di palestinesi in numerose comunità

    Il blocco a sud di Betlemme si estende dalla Linea Verde ad ovest fino ai margini del deserto della Giudea ad est, quasi al confine municipale meridionale di Gerusalemme – incluse le parti della Cisgiordania annesse poche settimane dopo l’occupazione – e si estende a sud fino al campo profughi di al-‘Arrub. Le colonie ed avamposti di questo blocco interrompono lo spazio palestinese in quanto tagliano fuori la zona di Betlemme da quella di Gerusalemme a nord e da Hebron e dintorni a sud. Inoltre frammentano la stessa area di Betlemme, in quanto trasformano i villaggi in aree isolate, impediscono il futuro sviluppo della città e controllano la Route 60 – la maggiore arteria di traffico che attraversa la Cisgiordania da nord a sud e mette in collegamento Gerusalemme, Betlemme e la Cisgiordania meridionale.
  Il blocco centrale taglia in due la Cisgiordania da ovest ad est, interrompendo la contiguità di una serie di comunità palestinesi. Le colonie di Eli e Shilo con gli avamposti intorno ad esse sono state edificate in una delle aree più fertili e popolose della Cisgiordania, che sono state utilizzate da generazioni come aree rurali palestinesi, in cui gli abitanti affidavano alla coltivazione intensiva della terra il proprio sostentamento. I coloni di questa zona hanno gradualmente e accanitamente spogliato i palestinesi di migliaia di dunam di terreni fertili, privandoli così dei loro mezzi di sopravvivenza.

In seguito alla creazione di questi due blocchi di insediamenti, i palestinesi hanno perduto l’accesso a migliaia di dunam di terre fertili, sia direttamente (in aree dichiarate “terreno demaniale” o chiuse su ordine militare) oppure in conseguenza dell’effetto dissuasivo della violenza dei coloni che ha il sostegno dello Stato e impedisce a molti palestinesi di tentare di entrare nelle proprie terre. Intorno alle colonie di Tekoa and Nokdim, i palestinesi hanno perso l’accesso ad almeno 10.000 dunam, mentre nei dintorni di Shilo, Eli e avamposti connessi, gli è precluso l’accesso ad almeno 26.500 dunam.

Questo rapporto dovrebbe essere letto contestualmente al documento di sintesi pubblicato recentemente da B’Tselem, il quale afferma che il regime israeliano, impegnato a promuovere e perpetuare la supremazia ebraica nell’intera area fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, è un regime di apartheid. La linea politica del regime volta alla ebreizzazione dell’area non è circoscritta ai due blocchi di insediamenti discussi in questo rapporto, ma viene implementata su tutto il territorio in base alla logica che la terra sia una risorsa che deve andare a beneficio primario della popolazione ebraica. Ne consegue che la terra viene usata per sviluppare ed ampliare le colonie ebraiche esistenti e costruirne di nuove, mentre i palestinesi vengono espropriati e rinchiusi in piccole affollate enclave. Questa politica della terra è praticata all’interno del territorio sovrano di Israele dal 1948, e dal 1967 si applica ai palestinesi nei territori occupati.

 

i coloni aggrediscono i raccoglitori di olive a huwarah, distretto di nablus. fotogramma da video. video: muhammad fawzi, 7 ottobre 2020.

 

Il rapporto è l’ennesima dimostrazione che, anche se il progetto dell’annessione de jure della Cisgiordania può esser stato accantonato, questo si rivela in pratica irrilevante. Le costruzioni e gli interventi infrastrutturali effettuati recentemente in Cisgiordania non raggiungevano da decenni una simile portata. Questo sviluppo su larga scala è inteso a facilitare un’ulteriore significativa impennata nel numero dei coloni residenti in Cisgiordania, che secondo le previsioni dei leader delle colonie arriverà in poco tempo a un milione.

 Questi massicci investimenti rafforzano ulteriormente la stretta di Israele sulla Cisgiordania a dimostrazione dei progetti a lungo termine del regime. Uno di questi consiste nel suggellare la posizione di milioni di palestinesi quali soggetti privi di diritti e di protezione, a cui è negata qualsiasi possibilità di decidere del proprio futuro e che vengono costretti a vivere in enclave separate, in declino, senza alcuna possibilità di sviluppo economico. Spogliati di sempre più terre, sono costretti a guardare mentre si costruiscono quartieri e infrastrutture per i cittadini ebrei. Sono passati due decenni dall’inizio del XXI secolo e Israele sembra più che mai deciso a proseguire nel mantenimento e rafforzamento nell’intera area di un regime di apartheid sotto il suo controllo per i prossimi decenni.

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 

 




Vittoria del BDS: un giudice respinge il tentativo sionista di reprimere la libertà di espressione

Yvonne Ridley

8 marzo 2021 – Monitor de Oriente

Una soldatessa israeliana che negli Stati Uniti ha intentato un’azione penale per diffamazione da 6 milioni di dollari contro una palestinese cristiana ha visto come la sua iniziativa giudiziaria sia diventata controproducente. Nonostante il suo avvocato abbia sollecitato il giudice statunitense ad applicare la legge israeliana sulla diffamazione, che condanna le critiche contro lo Stato sionista a una pena fino a un anno di carcere, Rebecca Rumshiskaya ha perso la causa.

Il giudice californiano Craig Griffin ha rigettato ed escluso la sua richiesta e il tentativo di far applicare le leggi israeliane in una corte dassise della contea di Orange. Nella sua sentenza il giudice ha anche accolto la mozione contro la SLAPP della palestinese Suhair Nafal ed ha stabilito che Rumshiskaya deve pagare le spese giudiziarie della persona denunciata. Le leggi contro la SLAPP sono state ideate per dissuadere le persone dall’utilizzare i tribunali degli USA e la possibile minaccia di una denuncia per intimidire chi sta esercitando i propri diritti in base al Primo Emendamento [della costituzione USA, ndtr.] sulla libertà di espressione. Una “domanda strategica contro la partecipazione pubblica” [“azione temeraria”, nel codice civile italiano, ndtr.] (SLAPP), che il querelante non si aspetta di vincere, intende impedire la libertà di espressione.

Il risultato di questa denuncia è un duro colpo, in particolare per i tentativi che Israele sta facendo in tutto il mondo per mettere a tacere il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), soprattutto sulle reti sociali. È anche una grande vittoria per Nafal e i suoi sostenitori. Tuttavia lei ha sottolineato che si è trattato di una vittoria per tutti gli attivisti filo-palestinesi, sia sulle reti sociali che sul territorio. “Abbiamo molto lavoro davanti a noi, ma siamo instancabili e non ci arrenderemo fino a quando non vedremo che si sta facendo giustizia.”

Nel 2012 la californiana Rumshiskaya, 26 anni, andò a vivere in Israele e si arruolò nelle Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano, ndtr.] come istruttrice del Corpo di Educazione Giovanile. Due anni dopo che nel 2018 l’attivista del BDS Nafal aveva pubblicato sulla sua pagina Facebook una sua fotografia con armi e uniforme, [Rebecca] ha chiesto assistenza agli specialisti di “lawfare” [guerra giudiziaria, ndtr.] di “Shurat HaDin”[ong israeliana legata al governo che si occupa di intentare azioni legali contro chi critica Israele, ndtr.]. La palestinese aveva scaricato l’immagine della ragazza dal manifesto delle IDF dalla stessa pagina Facebook ufficiale dell’esercito.

Il post di Nafal faceva riferimento all’eroica paramedica palestinese di 21 anni Razan Al-Najjar, assassinata da un cecchino israeliano mentre stava prestando servizio come volontaria per aiutare i feriti durante le manifestazioni pacifiche della Grande Marcia del Ritorno che si sono tenute nel 2018 nei pressi del confine fittizio della Striscia di Gaza. Per stabilire un confronto tra le due donne Nafal ha collocato la foto promozionale di Rumshiskaya a fianco di quella della giovane paramedica. Non c’era assolutamente nessuna intenzione di suggerire che proprio questa soldatessa israeliana fosse stata coinvolta nell’assassinio di Al-Najjar. Lei aveva lasciato le IDF tre anni prima. Tuttavia alcuni sostenitori di Israele hanno cercato di stravolgere la storia e di affermare che il post di Nafal suggeriva che Rumshiskaya fosse responsabile della morte dell’operatrice sanitaria.

Nafal si è messa in contatto con l’ Arab American Anti-Discrimination Committee [Comitato Arabo Americano contro la Discriminazione] (ADC) per chiedere aiuto nella causa ed è stata rappresentata dall’avvocato Haytham Faraj, membro del consiglio nazionale dell’ADC. Secondo Faraj il lavoro principale dell’ufficio che rappresentava la soldatessa israeliana nella denuncia é incentrato nel far tacere e minacciare gli attivisti del BDS, quelli che criticano le violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale da parte di Israele.

Nel testo della denuncia presentata l’anno scorso da Shurat HaDin al tribunale californiano gli avvocati di Rumshiskaya hanno detto che l’“accusa”era chiaramente falsa, dato che durante il suo servizio militare lei non aveva mai combattuto nella Striscia di Gaza. Hanno aggiunto che la loro cliente lavorava per i diritti umani e partecipava a delegazioni congiunte di israeliani e arabi in Giordania e nella Cisgiordania occupata.

Con una dichiarazione drammatica che ha sfiorato l’isteria, l’avvocatessa israeliana Nitsana Darshan-Leitner ha affermato nella sua comunicazione: “Pare che stiamo tornando alla (infame falsificazione) dei “Protocolli dei Saggi di Sion” e ai sanguinari libelli antisemiti del passato. Rebecca e la sua famiglia hanno ricevuto minacce di morte solo perché lei ha deciso di unirsi alle IDF.”

Darshan-Leitner, fondatrice del centro giuridico israeliano Shurat HaDin, ha aggiunto: “La guerra contro l’antisemitismo si è estesa anche alla sfera giudiziaria e la richiesta di Rebecca è la punta di lancia della nostra lotta contro il movimento globale di boicottaggio contro Israele. Questo è un messaggio per tutti gli attivisti del BDS, che devono sapere che anche loro possono essere considerati responsabili della loro attività antisionista e potrebbero persino pagarne un prezzo alto.”

In un certo senso l’avvocatessa di Shurat HaDin ha avuto ragione. Questa causa giudiziaria ha sicuramente mandato un forte messaggio ai sostenitori del BDS, e cioè che devono continuare con il loro impegno fondamentale e totalmente pacifico per far sì che Israele paghi per le sue violazioni dei diritti umani.

L’avvocato statunitense Faraj ha affermato che la sentenza del giudice Griffin ha salvaguardato i diritti della comunità arabo-americana e palestinese alla libertà di espressione, compresa quella politica, stabiliti dal Primo Emendamento. Sottolineando che “gli Stati Uniti non sono Israele” ha aggiunto: “L’ex-soldatessa israeliana che ha denunciato la signora Nafal pretendeva che il tribunale applicasse la legge israeliana, che condanna chi critica Israele fino a un massimo di un anno di prigione. Il giudice ha rigettato la richiesta e il tentativo di applicare la legge israeliana.”

L’avvocato ha affermato che, concedendo a Nafal l’eccezione anti-SLAPP, il giudice ha inviato un chiaro messaggio secondo il quale gli Stati Uniti tollerano e attribuiscono importanza alla diversità di opinioni e punti di vista politici, e chi cerchi indebitamente di far tacere le critiche politiche dovrà pagarne il prezzo.

Non resta che sperare che il caso della California abbia un impatto qui in Gran Bretagna, dove i sionisti sono protagonisti di una caccia alle streghe per cercare di confondere le critiche a Israele con l’antisemitismo. La lobby filo-israeliana utilizza la screditata “definizione” di antisemitismo stilata dall’International Holocaust Remembrance Aliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organismo intergovernativo cui aderiscono 34 Paesi, ndtr.] (IHRA) per cercare di bloccare qualunque discussione sullo Stato di Israele e sul suo disprezzo per le leggi e convenzioni internazionali. Alcuni degli esempi di “antisemitismo” citati nel documento dell’IHRA, che persino la persona che lo ha stilato ha affermato essere una “bozza di lavoro”, si riferiscono alle critiche contro Israele. Gli accademici hanno criticato la definizione, che è stata descritta come “non rispondente allo scopo”.

Il BDS deve affrontare molte sfide da parte degli alleati di Israele che gli permettono di agire impunito. Ironicamente alcuni di questi alleati sono veri antisemiti ai quali si lascia libertà di praticare il proprio peggior razzismo al mondo ogni volta che la lobby filo-israeliana fa dell’antisemitismo un’arma contro il popolo palestinese e i suoi sostenitori nella lotta per la pace e la giustizia. C’è gente che non impara mai.

Suhair Nafal ha detto: “Questa vittoria non è stata solo mia, è stata una vittoria di tutti gli attivisti filo-palestinesi, sia sulle reti sociali che sul territorio,” ha aggiunto. “Abbiamo davanti a noi molto lavoro da fare, ma siamo instancabili e non cederemo finché non sarà fatta giustizia.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

Yvonne Ridley

La giornalista e scrittrice britannica Yvonne Ridley propone analisi politiche su questioni relative al Medio Oriente, all’Asia e alla guerra mondiale contro il terrorismo. Il suo lavoro è stato pubblicato in molti quotidiani e riviste in tutto il mondo, da oriente a occidente, da testate come il Washington Post fino al Tehran Times e il Tripoli Post, riscuotendo riconoscimenti e premi negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Il lavoro di dieci anni per grandi testate in Fleet Street [via di Londra in cui si trovano le sedi dei principali quotidiani inglesi, ndtr.] ha esteso il suo ambito di azione ai media elettronici e radiofonici, ed ha prodotto una serie di documentari su temi palestinesi e internazionali, da Guantanamo alla Libia e alle Primavere Arabe.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




‘Giudice, giuria e occupante’, un nuovo rapporto denuncia il sistema di apartheid dei tribunali militari israeliani

8 marzo 2021 – Middle East Monitor

Un nuovo rapporto di War on Want [Lotta contro la povertà, n.d.tr], l’organizzazione benefica britannica, ha ulteriormente evidenziato il sistema giudiziario dualistico e razzista facendo un’analisi dettagliata del sistema dei tribunali militari gestito dallo Stato sionista nella Cisgiordania occupata.

Sotto il titolo ‘Giudice, giuria e occupante’, l’ente benefico contro la povertà con sede a Londra, rivela come il sistema israeliano dei tribunali militari supporti l’occupazione illegale in Cisgiordania applicando alla popolazione palestinese leggi repressive, soffocando il dissenso, reprimendo la resistenza all’occupazione e rafforzando il suo dominio militare.

Il documento afferma che per i palestinesi nella Cisgiordania occupata ci sono due sistemi legali che operano in parallelo, spiegando che c’è una ” legge palestinese e una legge militare israeliana, quest’ultima codificata attraverso migliaia di ordinanze militari “.

“Le ordinanze militari israeliani sono emesse dall’esercito e hanno la prevalenza rispetto alle leggi palestinesi. Le ordinanze militari israeliane impongono l’illegale occupazione israeliana e non vanno a beneficio della società palestinese. Le ordinanze militari israeliane fungono da apparato di repressione, come documentato e denunciato da esperti di diritti umani palestinesi, israeliani e internazionali,” ha detto la scorsa settimana War on Want alla presentazione del suo rapporto.

”Giudice, giuria e occupante” smaschera il mito diffuso che con gli accordi di Oslo nel 1993 ai palestinesi sia stato concesso l’autogoverno. Svela come i palestinesi non abbiano mezzi per sfuggire al razzista sistema giudiziario militare israeliano, che ha creato una realtà “separata e iniqua”. Per esempio, gli occupanti israeliani arrestati in Cisgiordania sono giudicati da tribunali civili in Israele, mentre i palestinesi sono processati in tribunali militari.

Tale trattamento così discriminatorio fra le due popolazioni è recentemente stato bollato da B’Tselem come apartheid in un documento storico. Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani, lo Stato sionista è colpevole di “far avanzare e perpetuare la supremazia di un gruppo – gli ebrei – su un altro – i palestinesi.”

Israele considera i palestinesi una minaccia alla sicurezza fin dalla culla, afferma il rapporto. Dal 1967, per esempio, Israele ha dichiarato illegali più di 411 organizzazioni palestinesi, inclusi tutti i principali partiti politici. I civili palestinesi sono stati perseguiti per “appartenenza e attività in un’associazione illegale”, uno strumento chiave per la repressione israeliana dell’attivismo contro l’occupazione.

Considerare i palestinesi come una minaccia alla sicurezza fin dalla nascita delegittima ogni opposizione all’occupazione illegale e giustifica la criminalizzazione di ogni sua forma. Secondo il rapporto “la rete complessa di leggi militari imposte sulla popolazione della Palestina occupata è concepita per ridurre fisicamente lo spazio dove vivono i palestinesi, per creare traumi psicologici e minare la loro possibilità di agire collettivamente come popolo.”

Questo rapporto esamina il funzionamento dei tribunali militari israeliani così come le istituzioni a loro connesse, le prigioni e i centri di detenzione in Cisgiordania e in Israele, dove sono detenuti i palestinesi in attesa di giudizio e che scontano le loro sentenze. Riguarda anche specificamente il modo in cui questo sistema di tribunali e prigioni mantenga ed estenda l’occupazione illegale israeliana in Cisgiordania e l’impatto sulle vite dei palestinesi nella loro patria storica.

Esortando le persone a unirsi alla lotta di War on Want contro “colonialismo, occupazione e apartheid” il rapporto rivela come il sistema militare israeliano abbia un impatto di vasta portata e profondamente discriminatorio sui palestinesi.

Dal 1967, quando è cominciata l’occupazione, oltre 800.000 civili palestinesi sarebbero passati dai tribunali militari israeliani. Questo sistema e la profonda ingiustizia che impone sui palestinesi devono finire, afferma War on Want.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Che cosa sta costruendo Israele nel sito nucleare di Dimona?  

Richard Silverstein

5 marzo 2021 – Middle East Eye

Foto satellitari suggeriscono che la costruzione prosegue da due anni, mentre Netanyahu continua a raffigurare l’Iran come il cattivo del Medio Oriente.

Una ONG internazionale impegnata contro la proliferazione di armi nucleari ha recentemente diffuso immagini satellitari che mostrano che Israele, per la prima volta da decenni, sta effettuando nuove costruzioni nel proprio sito nucleare di Dimona. Il reattore del sito, che divenne attivo dalla metà degli anni Sessanta, produce plutonio come combustibile per  l’arsenale nucleare israeliano, che si ritiene ammonti a ottanta testate.

 

Gli scavi hanno suscitato la curiosità degli esperti nucleari e delle agenzie di intelligence di tutto il mondo. Dal momento che il reattore di Dimona ha ormai da tempo superato la vita operativa prevista, alcuni hanno ipotizzato che Israele stia costruendo un nuovo reattore a plutonio.

Ciò però pare improbabile, perché questo elemento ha una lunga durata e Israele ne ha già prodotto a sufficienza per le proprie esigenze presenti e future.

 

Alcuni hanno avanzato l’ipotesi che il reattore esistente sia sostanzialmente disattivato oppure in fase di smantellamento.

Se ad Israele non serve un nuovo reattore per sostituire quello vecchio, allora che altro potrebbe costruire nel sito? In una recente intervista all’Associated Press, Daryl Kimball, direttore esecutivo della Arms Control Association di Washington [organizzazione fondata nel 1971, con la missione autoproclamata di “promuovere la comprensione pubblica e il sostegno a efficaci politiche di controllo degli armamenti”, ndtr], ha segnalato un altro elemento cruciale per le testate nucleari: il trizio. Questo è un isotopo di idrogeno usato per aumentare la potenza delle testate nucleari; inoltre esso rende la reazione esplosiva più efficace, diminuendo quindi la quantità necessaria di combustibile (di plutonio, nel caso di Israele).

 

Il trizio ha consentito progressi nella progettazione di armi, inclusi piccoli ordigni con una maggiore potenza esplosiva. Esso viene utilizzato anche nelle bombe ai neutroni, che sono costruite per uccidere esseri umani ma hanno un raggio ridotto di esplosione. Kimball ha dichiarato all’Associated Press che Israele “potrebbe avere l’intenzione di produrre più trizio, un sottoprodotto radioattivo con un tempo di decadimento relativamente più breve che viene utilizzato per aumentare la potenza esplosiva di alcune testate nucleari”.

Il trizio, come il plutonio e altre sostanze, è prodotto nei reattori nucleari. Può essere realizzato tramite irradiazione del metallo di litio. L’isotopo è meno stabile del plutonio, di conseguenza occorre reintegrarlo più frequentemente per poterlo usare in un arsenale nucleare.

 

Se il vecchio reattore di Dimona deve essere dismesso, come ha ipotizzato Avner Cohen, uno dei maggiori esperti in ambito nucleare, allora Israele avrebbe bisogno di una nuova fonte per produrre il trizio. Forse si sta costruendo un reattore specificamente per tale proposito.

Se si analizzano le foto satellitari, parrebbe che la costruzione sia iniziata tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, vale a dire che i lavori procedano da circa due anni. Le immagini più recenti mostrano per lo più degli scavi, ma ancora nessun edificio ultimato.

Come mai questa lentezza? Potrebbe essere segno di indecisione fra i governanti su quando e se chiudere il vecchio reattore, oppure di limiti di bilancio che impediscono di procedere più velocemente con la costruzione.

 

Il vero pericolo nucleare

Ma perché quelle immagini sono divenute pubbliche solo ora, dopo due anni di costruzione? Dato il conflitto incombente fra Israele e il presidente degli USA Joe Biden sulla ripresa dei negoziati sul nucleare con l’Iran, è possibile che l’amministrazione USA voglia ricordare al mondo dove sta il vero pericolo nucleare – non certo in Iran.

Se la costruzione ha a che fare con la produzione di trizio, questo indicherebbe che Israele non sta costruendo una nuova classe di armi nucleari, quali le armi ipersoniche millantate dal Presidente russo Vladimir Putin – non a Dimona, perlomeno. Piuttosto Israele sta probabilmente perfezionando l’efficacia dell’arsenale esistente.

 

Il vero paradosso del progetto di Dimona sta nel fatto che nessuno mette in dubbio che Israele abbia diritto a produrre armi nucleari o ad aumentare la letalità del proprio arsenale. Fare uno scavo grande come un campo da football per costruire Dio-solo-sa-cosa? Faccia pure. Ma al contrario, se soltanto una singola particella di uranio dovesse cadere in una zona proibita dell’Iran, l’intera comunità internazionale darebbe inizio ad un coro di biasimo denunciando che Teheran sta per provocare una catastrofe nucleare.

Perché questo doppiopesismo? Perché il mondo crede che Israele abbia diritto ad avere questo immenso arsenale e che lo gestirà in modo responsabile, mentre l’Iran non ha diritto ad avere neppure un’arma – e che se dovesse comunque crearne una, farebbe saltare in aria il mondo intero? Che cosa ha mai fatto Israele per meritare tanto credito, e che cosa ha mai fatto l’Iran di tanto nefando per meritarsi tanta esecrazione?

Tenere in scacco i nemici

In uno scambio di messaggi su Facebook con Cohen, questi ha definito Benjamin Netanyahu come il premier israeliano più “entusiasta del nucleare” dai tempi di David Ben-Gurion, fondatore del programma nucleare nazionale. Netanyahu ha mostrato ancora più interesse nel progetto nucleare e ha fatto numerosi discorsi, sia a Dimona sia di fronte alla vicina tomba di Ben Gurion a Sde Boker [kibbutz nel deserto del Negev nel sud d’Israele che fu la casa di David Ben Gurion, ndtr] minacciando di distruzione nucleare l’Iran.

 

Da questo non consegue automaticamente che sia più probabile che Netanyahu usi tali armi rispetto ai precedenti primi ministri. Significa che egli considera fondamentale per Israele disporre di una credibile deterrenza nucleare per tenere in scacco i nemici. Questo è un elemento chiave della strategia geopolitica di Israele, una forma di proiezione di potenza e una garanzia di dominio nella regione mediorientale. Respinge la minaccia delle forze ostili di Iran, Siria e Iraq. In passato l’allora primo ministro Menachem Begin ordinò un attacco contro un reattore nucleare iracheno e l’ex primo ministro Ehud Olmert ordinò un attacco contro un reattore nucleare che la Siria stava costruendo nella sua zona desertica orientale.

 

Probabilmente l’ossessione di Netanyahu nei confronti del programma nucleare iraniano deriva dal non voler diventare il primo leader israeliano a permettere ad un nemico arabo [in realtà l’Iran non è un paese arabo, ndtr] di entrare nel club nucleare.

Nel corso dell’ultimo decennio USA e Israele hanno giocato al poliziotto buono-poliziotto cattivo nei confronti della minaccia nucleare iraniana. I presidenti USA hanno impiegato una combinazione di sabotaggio segreto e diplomazia pubblica per portare avanti una politica di contenimento dell’Iran, mentre Israele ha talvolta spinto per un vero e proprio attacco militare.

Insieme hanno collaborato a distruggere le centrifughe di uranio mediante il malware Stuxnet [virus informatico il cui scopo era il sabotaggio delle centrifughe della centrale nucleare iraniana di Natanz, ndtr]

 

Però, nonostante le pressioni di Netanyahu, gli USA non sono mai stati disponibili a partecipare ad un attacco contro l’Iran. La domanda è se il leader israeliano darà prova di moderazione oppure se testerà la fermezza di Biden e l’impegno iraniano a negoziare continuando ad assassinare scienziati nucleari ed a compromettere in altri modi un approccio di tipo politico-diplomatico nei confronti della crisi.

Biden ha imparato dalle esperienze pregresse dell’ex presidente Barack Obama a non fidarsi di Netanyahu. Non è una posizione invidiabile doversi guardare sia dal proprio nemico (l’Iran) sia dal proprio alleato.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Richard Silverstein

Richard Silverstein è autore del blog Tikun Olam, dedicato a smascherare gli eccessi dello Stato di Israele in materia di sicurezza nazionale. I suoi lavori sono stati pubblicati da Haaretz, Forward,  Seattle Times e Los Angeles Times. Ha scritto per la raccolta di saggi dedicati alla guerra in Libano del 2006, “A Time to Speak Out” [Il momento di denunciare a voce alta] (Verso) e ha scritto anche un saggio per la raccolta “Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood” [Israele e Palestina: prospettive alternative di statualità] (Rowman & Littlefield).

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




Gaza: cronaca della pandemia, tra voci e verità

Asmaa Rafiq Kuheil

4 marzo 2021 – Chronique de Palestine

Il 25 agosto era previsto il mio colloquio per il lavoro dei miei sogni: insegnare inglese all’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati [palestinesi].

Ho lavorato sodo in vista di questo colloquio. Per quasi un mese mi sono rifiutata di consultare le reti sociali, che spesso non sono altro che perdite di tempo! Ho aperto Facebook per non più di cinque minuti al giorno per vedere gli aggiornamenti di ‘We Are Not Numbers’ (Non Siamo Numeri, sito in cui palestinesi di Gaza raccontano le proprie esperienze, ndtr.) e verificare la posta importante su Messenger.

Il giorno prima del colloquio sono andata a dormire alle 22, per svegliarmi all’una del mattino per continuare la mia preparazione. L’elettricità era interrotta. Il mio ventilatore aveva la batteria quasi scarica in quella notte molto calda e tutta la mia famiglia nella nostra casa “al buio” dormiva. Mi sono fatta una tazza di caffè solubile, ho recitato due Rakaat [preghiere islamiche), poi ho acceso la torcia del mio cellulare ed ho cominciato a studiare nel nostro ampio soggiorno.

Come al solito ero sola, con il piccolo fascio di luce sul mio quaderno in mezzo all’oscurità. L’unico rumore era la voce dei grilli che arrivava dalla finestra.

Non so perché, alle 4,20 ho improvvisamente pensato che potevo dare uno sguardo a Facebook usando una scheda internet comprata da mio fratello. La connessione non era molto buona, ma volevo controllare qualche consiglio relativo al mio colloquio, dato che esiste un gruppo su Messenger a tale scopo.

Mi sono connessa e davvero vorrei non averlo fatto. Tutti si affrettavano a parlare delle ultime notizie: quattro persone a sud della Striscia di Gaza erano risultate positive al coronavirus, di cui abbiamo timore da tanto tempo. (Io pensavo davvero che noi lo avessimo scampato, “grazie” al rigido blocco cui siamo sottoposti.)

Sul momento non volevo credere a ciò che leggevo…finché non ho ricevuto un messaggio dell’UNRWA che diceva che tutti i colloqui, compreso il mio, erano stati annullati. Subito mi sono sentita molto male, ma poi mi è venuta voglia di saperne di più sul modo in cui il coronavirus era entrato a Gaza e ho rapidamente messo da parte i miei problemi personali.

Ho letto la storia di Heba Abu Nadi, una gazawi che aveva attraversato il valico di Erez per andare a Gerusalemme con la sua figlioletta ammalata, che doveva essere operata all’ospedale El-Makassed in quella città.

Inizialmente le autorità israeliane di occupazione le hanno rifiutato il permesso di transito da quel posto di controllo e lei ha finito per tornare a casa dopo aver trascorso quattro ore a tentare di accompagnare sua figlia.

Immaginate quanto abbia potuto sentirsi disperata…

Il giorno dopo ha tentato nuovamente di attraversare il blocco e questa volta ha avuto il permesso di uscire. In seguito ha fatto il test ed ha saputo di avere il coronavirus….

Questa sfortunata donna si è ritrovata ovunque sulle reti sociali. Alcuni la insultano per aver infettato i membri della sua famiglia mettendo in pericolo tutta Gaza. Altri pregano per lei. Altri ancora fanno sgradevoli battute!….

Quanto a me, mi metto al suo posto. Come sta ora sua figlia? Come si sente Heba, quando tutti la criticano come se lei fosse la causa della disastrosa situazione di Gaza? O come se si trattasse di un complotto israeliano per distruggere Gaza di cui quindi lei non sarebbe che una vittima?

Oh, gente di Gaza! Smettetela di prendervela con questa povera madre! Noi non sappiamo tutto ciò che è accaduto. Lei deve essere molto infelice, preoccupata per sua figlia e forse si rimprovera terribilmente per aver messo in pericolo quattro membri della sua famiglia.

Anche prima di quest’ultima catastrofe la vita era molto peggiorata a Gaza. Non abbiamo più di quattro ore di elettricità al giorno e adesso siamo tutti in quarantena, il che aggiunge al danno anche la beffa.

Un messaggio su Facebook è stato come il sale su una ferita aperta: una ragazza di fuori Gaza ci diceva che ormai il COVID-19 è una cosa normale e che non c’è motivo di preoccuparsi.

Ma Gaza non è simile a nessun altro luogo! Gaza, questo punto minuscolo sulla mappa con due milioni di persone, non ha che un solo grande ospedale, dove recentemente sono state identificate molte persone contagiate, costringendo ad evacuare un intero reparto.

Sapete che i nostri medici rischiano la vita per un salario mensile di 300 dollari? Sì, cari lettori, 300 dollari, non 3.000. E migliaia di altri in questo periodo non ricevono alcun salario.

Il giorno dopo mio padre ha detto al mio fratellino Hamza di andare a comprare dell’acqua in bottiglia, perché ne avevamo poca. (L’acqua del rubinetto non è potabile in sicurezza). Ma mio padre ha ordinato a Hamza di restare poi in casa, dicendogli che gli avrebbe vietato di uscire se glielo avesse di nuovo chiesto. Rendendoci conto che era la nostra ultima occasione per molto tempo, tutti noi avevamo scritto un lungo elenco di altri prodotti di cui avevamo bisogno e che si trovavano nell’unico supermercato aperto nella nostra zona.

Per strada Hamza ha visto solo poliziotti che controllavano per impedire spostamenti non urgenti.

Intanto mio padre ascoltava la sua radiolina portatile accesa, cercando le notizie sul COVID. Mia sorella Walaa’, che studia per il Tawjihi (diploma di scuola secondaria generale) e che continua a studiare per gli esami finali, ha paura del prossimo futuro. Non sa se deve studiare, sedersi insieme a noi o parlare con i suoi amici di come hanno trascorso la giornata.

I miei fratelli e sorelle più giovani sono contenti che la scuola sia chiusa. Sono ancora troppo giovani per capire che cosa sia il coprifuoco.

Quanto a mia madre, cucina del manakish (la nostra versione della pizza, condita con timo e olio d’oliva). Lo fa sempre durante le guerre ed altre situazioni di emergenza. (E scommetto che non è la sola…in ogni casa ci sono tonnellate di timo e il manakish non costa molto se se ne cucinano grandi quantità). Le due cose sono diventate sinonimi.

Mi viene in mente improvvisamente il tema – che aveva vinto il premio – che avevo scritto per il concorso di scrittura We are not Numbers COVID-19. In questo testo affermavo che Gaza si è rivelata essere il luogo più sicuro al mondo per quanto riguarda la pandemia. Quando l’ho scritto pensavo paradossalmente che l’orrendo blocco israeliano di Gaza, che impedisce la maggior parte degli spostamenti all’interno e all’estero, per una volta ci avrebbe tenuti “al sicuro”, mentre gli altri avrebbero dovuto subire l’epidemia.

Il mio articolo stava per essere pubblicato, ma adesso ne vale la pena? E in caso affermativo, verrà letto? Oppure io sarò presa in giro e ridicolizzata come la povera Heba?

In ogni caso io mi atterrò alla mia convinzione che questi miserabili giorni finiranno – non semplicemente per la speranza, ma piuttosto per la mia fede profonda nel nostro dio e che tutto ciò che lui “scrive” è per il nostro bene, per quanto miserevole possa apparire a prima vista!

Asmaa’ Rafiq Kuheil, palestinese di Gaza, da tre anni è professoressa di inglese. Lavora come assistente di progetto presso l’UNRWA, dove contribuisce a costruire la propria Nazione con tutti i mezzi a sua disposizione. La sua arma è la scrittura.

27 août 2021 – WeAreNotNumbers – Traduction : Chronique de Palestine

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Dopo l’accusa calunniosa di “antisemitismo” di Netanyahu l’UE sostiene la CPI

Ali Abunimah

4 marzo 2021 – The Electronic Intifada

L’Unione Europea sembra respingere le denunce di Benjamin Netanyahu contro la Corte Penale Internazionale dopo che mercoledì la procuratrice capo Fatou Bensouda ha confermato l’avvio di un’indagine formale sui crimini di guerra in Palestina.

Il primo ministro israeliano ha definito le indagini come “l’essenza dell’antisemitismo” e altri leader israeliani si sono scagliati contro con termini analoghi.

Alla domanda di The Electronic Intifada sulla reazione dell’UE ai commenti di Netanyahu, il portavoce dell’Unione Peter Stano non ha risposto in modo diretto riguardo al leader israeliano.

Tuttavia Stano ha affermato che “la CPI è un’istituzione giudiziaria indipendente e imparziale senza obiettivi politici da perseguire”.

Ha anche ribadito che l’UE “rispetta l’indipendenza e l’imparzialità della corte” – un rimprovero implicito alle stravaganti accuse di Israele di pregiudizi antiebraici.

Stano ha osservato che la Corte Penale Internazionale è “un tribunale di ultima istanza, una rete di sicurezza fondamentale per aiutare le vittime a ottenere giustizia laddove ciò non è possibile a livello nazionale, quindi quando lo Stato coinvolto è veramente riluttante o incapace di svolgere le indagini o l’azione penale. “

L’UE ha anche esortato “gli Stati aderenti allo Statuto di Roma e gli Stati non aderenti” – questi ultimi con un chiaro riferimento a Israele, che non ha firmato lo statuto istitutivo della corte – “a stabilire un dialogo” con la CPI che dovrebbe essere “non conflittuale, non politicizzato e basato sulla legge e sui fatti.”

Dato il lungo passato della UE di sostegno virtualmente incondizionato a Israele, è rimarchevole che essa abbia tenuto saldo il suo sostegno alla Corte Penale Internazionale nel momento in cui finalmente il tribunale ha preso in esame le impudenti violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele.

L’inchiesta della CPI riguarderà presunti crimini dal giugno 2014, un periodo che comprende la guerra di Israele del 2014 a Gaza e la costruzione di colonie in corso sui territori palestinesi occupati.

La posizione della UE rappresenta una rottura con alleati come Stati Uniti, Canada e Australia che si sono apertamente opposti ad indagini da parte del tribunale su presunti crimini di guerra nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Nonostante il sostegno della UE alla CPI, i lobbisti israeliani si stanno consolando per il fatto che alcuni singoli Stati membri della UE, in particolare la Germania, si oppongono a un’inchiesta sui crimini di guerra.

L’opposizione degli Stati Uniti alla giustizia

Mercoledì, il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha ribadito che l’amministrazione Biden “si oppone fermamente” alla [ricerca di] giustizia e responsabilità nei confronti delle vittime palestinesi dei crimini di guerra israeliani.

Questa opposizione non sorprende dal momento che l’amministrazione Obama-Biden ha rifornito Israele di munizioni nel corso del bombardamento di Gaza dell’estate del 2014, che ha ucciso più di 2.200 palestinesi tra i quali più di 550 bambini.

La posizione di Biden allieterà Netanyahu e altri importanti leader israeliani tra cui il ministro della difesa Benny Gantz, che probabilmente saranno gli obiettivi delle indagini della Corte Penale Internazionale. Gantz era a capo dell’esercito israeliano al momento dell’attacco israeliano del 2014 a Gaza.

Tuttavia, dopo anni di ritardo e decenni di attesa per la giustizia, i palestinesi stanno finalmente osservando che il loro impegno affinché Israele sia ritenuto responsabile e i suoi crimini assodati sta recando i suoi frutti.

(tradotto dall’inglese da Aldo Lotta)




La CPI[Corte Penale Internazionale] avvia un’inchiesta per crimini di guerra in Palestina

Maureen Clare Murphy

3 marzo 2021 – Electronic Intifada

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che probabilmente nell’ambito dell’inchiesta della CPI verrà inquisito, ha definito la Corte “antisemita”.

Mercoledì la procuratrice capo Fatou Bensouda ha confermato che la Corte Penale Internazionale ha aperto un’indagine formale sui crimini di guerra in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

L’annuncio di Bensouda è stato accolto dalle associazioni palestinesi per i diritti umani che hanno guidato questi tentativi come “una giornata storica nella pluridecennale campagna palestinese per la giustizia internazionale e la definizione delle responsabilità.”

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che probabilmente verrà sottoposto a indagine dalla CPI, ha definito l’inchiesta come “l’essenza dell’antisemitismo”.

L’annuncio di un’indagine da parte della CPI è giunto meno di un mese dopo che un collegio giudicante ha confermato che la giurisdizione territoriale della Corte si estende ai territori palestinesi sotto occupazione militare da parte di Israele.

Nel dicembre 2019 Bensouda ha concluso una lunga indagine preliminare affermando che i criteri per un’inchiesta per crimini di guerra in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza erano stati rispettati.

L’indagine della Corte Penale Internazionale riguarderà crimini commessi dal giugno 2014, quando la situazione in Palestina è stata presentata al tribunale internazionale.

Obbligato ad agire”

Bensouda ha affermato che il suo ufficio “definirà delle priorità” per l’inchiesta “alla luce dei problemi operativi che dobbiamo affrontare a causa della pandemia, delle risorse limitate a nostra disposizione e del pesante carico di lavoro attuale.”

Ha aggiunto che in situazioni in cui il procuratore definisce la fondatezza di un’indagine, l’ufficio della procura “è obbligato ad agire”.

Il prossimo passo della Corte sarà la notifica a Israele e alle autorità palestinesi, che consente a ogni Stato firmatario di condurre importanti indagini “su propri cittadini o altri che ricadano sotto la sua giurisdizione” riguardo a crimini di competenza della CPI.

In base al principio della complementarietà, secondo cui “gli Stati hanno la responsabilità primaria e il diritto di perseguire crimini internazionali”, la CPI rinvia a indagini interne del Paese, ove queste esistano.

Israele ha un sistema di auto-indagine, anche se esso è descritto da B’Tselem, principale organizzazione per i diritti umani del Paese, come un meccanismo di insabbiamento che protegge la dirigenza militare e politica dal rendere conto delle proprie azioni.

Alla fine del 2019 Bensouda ha affermato che “in questa fase” il giudizio del suo ufficio “riguardo alla portata e all’affidabilità” dei procedimenti interni di Israele “è ancora in corso”.

Tuttavia “ha concluso che i casi potenziali riguardanti crimini che si presume siano stati commessi da membri di Hamas e dei GAP (Gruppi Armati Palestinesi) sarebbero al momento ammissibili.”

Nella sua dichiarazione di mercoledì Bensouda ha detto che il giudizio sulla complementarietà “continuerà” e ha suggerito che la materia venga definita da un collegio giudicante in una camera preliminare.

Dato che il processo di colonizzazione della Cisgiordania da parte di Israele è indubitabilmente una politica statale sostenuta dai governanti al più alto livello, ciò sarà probabilmente uno dei principali obiettivi dell’indagine della CPI.

Come la questione della giurisdizione territoriale, la complementarietà sarà probabilmente un punto critico fondamentale dell’inchiesta della Corte sulla Palestina.

Massima urgenza”

Mercoledì, accogliendo positivamente l’annuncio di Bensouda, le associazioni palestinesi per i diritti umani hanno raccomandato “che non ci siano indebiti ritardi e che si proceda con la massima urgenza.”

Ma Bensouda ha previsto un procedimento tutt’altro che rapido, affermando che “le indagini richiedono tempo e devono essere fondate in modo oggettivo su fatti e leggi.”

Ha invitato alla pazienza “le vittime palestinesi e israeliane e le comunità colpite,” aggiungendo che “la CPI non è una panacea.”

Alludendo a un’argomentazione da parte di alleati di Israele secondo cui un’inchiesta danneggerebbe futuri negoziati bilaterali, Bensouda ha affermato che “il perseguimento della pace e della giustizia dovrebbero essere visti come imperativi che si rafforzano a vicenda.”

Mercoledì Bensouda ha affermato che la Corte concentrerà “la sua attenzione sui presunti colpevoli più noti o su coloro che potrebbero essere i maggiori responsabili dei crimini.”

Nella sua richiesta alla camera preliminare sulla giurisdizione territoriale Bensouda ha citato la promessa di Netanyahu durante la campagna elettorale [del 2020] di annettere territori in Cisgiordania.

I media hanno informato che il governo israeliano ha una lista di centinaia di personalità che potrebbero essere indagate e perseguite dalla Corte, che giudica individui e non Stati.

Fonti ufficiali israeliane affermano che alcuni Stati membri della CPI “hanno concordato di avvertire in anticipo Israele di ogni eventuale mandato di cattura” contro suoi cittadini al momento dell’arrivo nei rispettivi Paesi.

Far filtrare informazioni che potrebbero consentire a sospetti di sfuggire alle indagini o all’arresto violerebbe probabilmente l’obbligo che hanno gli Stati membri in base allo Statuto di Roma che ha fondato la CPI di collaborare con il lavoro della Corte.

Pressioni politiche

Mercoledì Bensouda ha detto che “contiamo sull’appoggio e sulla cooperazione delle parti (Israele e i gruppi armati palestinesi), così come su tutti gli Stati membri dello Statuto di Roma.”

Tuttavia la CPI verrà sottoposta a terribili pressioni politiche in quanto potenze come gli USA, il Canada e l’Australia si oppongono a qualunque inchiesta contro il loro alleato Israele.

Lo scorso anno il Canada ha minacciato in modo appena velato di ritirare l’appoggio finanziario alla CPI se dovesse procedere con un’inchiesta.

A Washington l’amministrazione Trump ha imposto sanzioni economiche e restrizioni dei visti contro Bensouda e membri del suo staff.

Queste misure estreme pongono il personale della Corte accanto a “terroristi e narcotrafficanti” o a individui e gruppi che lavorano a favore di Paesi sottoposti a sanzioni da parte degli USA.

Mentre il presidente Joe Biden ha firmato una raffica di ordini esecutivi che annullano misure prese dal suo predecessore, il nuovo leader USA ha consentito che rimangano in vigore le sanzioni contro la CPI.

Di fronte a pressioni per togliere le sanzioni, la Casa Bianca ha solo promesso di “analizzarle attentamente.”

Durante la sua prima telefonata con il presidente Biden, Netanyahu lo ha esortato a lasciare in vigore le sanzioni.

Nel contempo Israele ha rivolto il proprio livore contro i difensori dei diritti umani dei palestinesi, in particolare contro quanti sono coinvolti nelle istituzioni della giustizia internazionale come la CPI.

Le sue tattiche hanno incluso “arresti arbitrari, divieti di spostamento e revoca della residenza, così come attacchi contro organizzazioni palestinesi per i diritti umani, comprese irruzioni [nelle loro sedi].”

Mercoledì Balkees Jarrah, direttore aggiunto di Human Rights Watch [importante Ong internazionale per i diritti umani con sede a New York, ndtr.], ha affermato che “gli Stati membri della CPI dovrebbero essere pronti a difendere tenacemente il lavoro della Corte da ogni pressione politica.”

Jarrah ha aggiunto che “tutti gli occhi saranno puntati sul prossimo procuratore, Karim Khan, perché prenda il testimone e proceda speditamente dimostrando una salda autonomia nel cercare di chiedere conto delle loro azioni anche ai più potenti.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il Dan David Prize di Israele e l’apartheid vaccinale

Samah SabawiNick Riemer

2 marzo 2021 – Al Jazeera

Accettare un riconoscimento israeliano per aver contribuito alla salute pubblica nel mezzo dell’apartheid vaccinale israeliano è immorale

Quando abbiamo fatto circolare una lettera aperta per chiedere alla docente australiana Alison Bashford di rivedere la sua decisione di accettare il Dan David Prize di Israele ci aspettavamo che in tutto il mondo ci sarebbe stato un massiccio appoggio al nostro appello. Avevamo ragione. Finora più di 300 accademici e ricercatori hanno firmato, e la lista dei firmatari continua ad aumentare.

Bashford è una dei sette destinatari del premio, che quest’anno è stato assegnato ai contributi scientifici alla salute pubblica e alla medicina. L’imprevista somma di 3 milioni di dollari del premio verrà condiviso tra questi sette: 1 milione di dollari ad Anthony Fauci, l’eminente infettivologo e consigliere del presidente USA; 1 milione di dollari condiviso fra tre scienziati per il loro contributo alla medicina molecolare; 1 milione di dollari diviso tra Bashford, che studia la storia della medicina e della salute e i loro rapporti con la storia universale ed ambientale, Keith Wailoo, che lavora su razza, scienza ed equità sanitaria negli USA, e Katherine Park, che si occupa di medicina medievale e rinascimentale.

Le motivazioni contro l’accettazione del premio in denaro riguardano tutti e sette i destinatari, ma, in quanto ricercatori australiani, pensavamo di avere un particolare obbligo e opportunità di rivolgerci a Bashford. Nell’annunciare i premi, il presidente della Dan David Foundation, Itamar Rabinovich, ex-ambasciatore di Israele negli USA, ha affermato che la scelta dei campi scientifici [da premiare] era stata influenzata dall’impatto della pandemia su ogni aspetto della vita.

Il premio giunge nel momento in cui Israele sta festeggiando i suoi significativi progressi nella vaccinazione della popolazione. Il Paese è il primo al mondo come percentuale della popolazione vaccinata. Recentemente il governo ha affermato che circa metà dei cittadini israeliani ha ricevuto la prima dose e il 35% la seconda.

Ma, come nel caso di altri risultati scientifici che Israele ha celebrato, questo giunge nel contesto dell’oppressione dei palestinesi. Mentre il governo israeliano si gloria già del drastico calo dei casi di COVID-19, nella Cisgiordania occupata essi stanno aumentando vertiginosamente. Lì i palestinesi, nel tentativo di controllare l’epidemia in quanto non c’è stato un approvvigionamento regolare di vaccini per loro, stanno per entrare in un nuovo blocco totale.

Per mesi Israele ha rifiutato di vaccinare i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, benché in base alla Quarta Convenzione di Ginevra sia un suo obbligo legale. Nel marzo 2020 in una dichiarazione il relatore speciale dell’ONU per i diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati Michael Lynk ha ricordato ad Israele che “il dovere legale, stabilito dall’articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra, richiede che Israele, la potenza occupante, debba garantire che venga utilizzato qualunque mezzo preventivo necessario a disposizione per ‘combattere la diffusione di malattie infettive ed epidemie.’”

Eppure non solo Israele sta attivamente bloccando la consegna di vaccini ai palestinesi, ma sta di fatto inviando dosi in eccesso a Paesi come l’Honduras, la Repubblica Ceca e l’Ungheria in cambio di favori politici, come il loro impegno a spostare le rispettive ambasciate a Gerusalemme o ad aprirvi uffici dell’ambasciata.

Forse nell’entusiasmo di aver vinto una somma di denaro così sostanziosa e la celebrazione ideale del progresso umano è stato facile dimenticare i cinque milioni di palestinesi sotto totale occupazione israeliana che non hanno nessuna significativa protezione contro la pandemia e che sono costantemente soggetti a gravi spoliazioni, arresti arbitrari, uccisioni extra-giudiziarie, esilio, privazioni e repressione imposti loro da Israele.

Ma niente obbliga nessuno dei premiati del Dan David ad accettarlo. Di fatto farlo è una diretta violazione dell’appello palestinese al boicottaggio sia delle istituzioni accademiche israeliane che delle attività culturali che nascondono le politiche dell’apartheid israeliano.

L’università di Tel Aviv, dove viene gestito ed ha sede il premio, contribuisce in modo significativo alla guerra permanente di Israele contro i palestinesi attraverso i suoi legami strutturali con il sistema militare e politico israeliano, compresi l’esenzione dal pagamento delle tasse universitarie e le borse di studio per i soldati israeliani, e la sua complicità con la violenta occupazione della terra palestinese.

C’è già un precedente rifiuto del riconoscimento. Nel 2018 la storica britannica Catherine Hall ha rifiutato il premio per quella che ha definito come “una scelta politica indipendente”, una scelta che a molti è parsa ammirevolmente coerente con il suo lavoro accademico progressista sulla storia di genere, razza e schiavitù.

C’è chi sostiene che i boicottaggi accademici violano la “libertà accademica” e devono quindi essere rifiutati. Ma, come molti, compresi noi due, hanno affermato, l’obbligo a boicottare quanti violano i diritti umani o fanno parte di un sistema che li viola, giustifica totalmente i ricercatori che fanno la scelta politica e morale di non unirsi a loro.

Ciò detto, quello che colpisce del premio Dan David è che esso non rientra affatto in alcun discorso riguardante la “libertà accademica”. Non accettando i soldi del premio non viene violata alcuna libertà accademica. Di conseguenza non c’è nessuna ragione di principio per cui gli accademici non facciano ciò che i loro colleghi palestinesi continuano a chiedere, e non rifiutino il premio, a maggior ragione quando si vedono le conclusioni tratte nelle loro stesse ricerche da alcuni dei premiati.

Per esempio, nel suo libro del 2014 “Pain: A Political History” [Sofferenza: una storia politica] Wailoo esamina come le persone sofferenti abbiano spesso “visto come le loro particolari rivendicazioni … siano state spesso assorbite e definite dai più generali conflitti politici dell’epoca.” Egli lamenta il fatto che persone sofferenti diventino “attrezzi di scena” in un “teatro politico”.

I palestinesi sarebbero d’accordo. Gli americani “hanno un problema culturale nel comprendere la sofferenza delle altre persone,” afferma Wailoo, sottolineando la necessità di guardare “in modo critico e attento” quanti giudicano la sofferenza altrui.

Eppure, nonostante l’empatia nei confronti della sofferenza che esprime nel suo libro, Wailoo è ancora disposto ad accettare un premio dal cuore stesso dell’establishment politico e accademico che reprime brutalmente i palestinesi e ora sta utilizzando una pandemia per perseguire la pulizia etnica di un intero popolo.

L’accettazione del premio sembra contraddire anche quello che Bashford ha scritto e detto come studiosa. Tra le altre cose le sue ricerche prendono in considerazione la segregazione tra le popolazioni, per esempio attraverso la quarantena, una misura che descrive nel suo libro del 2003 “Imperial Hygiene” [Igiene imperiale] “come sia igienica, cioè componente della salute pubblica, che razziale, in quanto parte dei sistemi e delle culture di controllo razziale.” Alla luce di ciò c’è da chiedersi come Bashford consideri l’apartheid vaccinale che Israele sta attualmente praticando.

In un saggio del 2003 scritto con Carolyn Strange, Bashford ha notato che “è difficile immaginare, per esempio, la caduta dell’apartheid in Sud Africa senza il coro di appelli internazionali per il rilascio di importanti prigionieri politici di Robben Island [famoso carcere sudafricano in cui sono stati reclusi Mandela ed altri dissidenti, ndtr.]”. Tuttavia, quando si tratta di partecipare ad un appello per porre fine all’apartheid in Israele, Bashford sembra aver dimenticato la sua stessa lezione.

Non c’è alcun dubbio che le istituzioni accademiche israeliane siano un potente pilastro su cui si basa l’oppressione dello Stato. Le università israeliane forniscono allo Stato scienza, tecnologia militare e strumenti strategici ed ideologici che rafforzano e giustificano il suo regime di occupazione e di apartheid.

Senza dubbio accettare il premio porta vantaggi economici, ma il costo morale sarà molto alto, in quanto esso pone i destinatari dalla parte sbagliata della storia, appoggiando e ripulendo l’immagine di un sistema di oppressione, ingiustizia e tirannia.

Le opinioni espresse in questo articolo sono degli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera

Samah Sabawi
 è giornalista e consulente politica palestinese di Al-Shabaka, la rete politica palestinese.

Nick Riemer è docente dei dipartimenti di Inglese e Linguistica dell’università di Sidney, Australia.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele imprigiona i politici palestinesi prima delle elezioni nell’Autorità Nazionale Palestinese

Tamara Nassar 

2 marzo 2021, ElectronicIntifada

In vista delle elezioni legislative e presidenziali palestinesi che si terranno nei prossimi mesi Israele sta inasprendo il giro di vite su personalità della società civile e politica palestinese nella Cisgiordania occupata.

Lunedì Israele ha condannato la parlamentare palestinese Khalida Jarrar a due anni di carcere, a una multa di 1.200 dollari [1000 € ca, ndtr.] e una pena sospesa di un anno.

Il suo crimine? Essere un membro di un partito politico di sinistra, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

Israele considera gruppi “terroristici” praticamente tutti i partiti palestinesi e le organizzazioni di resistenza, il che significa che qualsiasi persona politicamente attiva può essere arrestata.

“La scelta del momento non è casuale”, ha detto l’avvocato palestinese Yafa Jarrar della condanna di sua madre, riferendosi alle elezioni palestinesi.

Khalida Jarrar è stata arrestata con una imponente incursione militare notturna nella sua casa nell’ottobre 2019 e da allora è trattenuta senza accusa né processo.

La sua detenzione è avvenuta solo otto mesi dopo il suo rilascio da un precedente periodo di 20 mesi di detenzione amministrativa – senza accusa né processo.

È stata arrestata nell’ambito di quella che il gruppo per i diritti dei prigionieri palestinesi Addameer ha affermato essere una campagna israeliana iniziata nella seconda metà del 2019 contro attivisti politici e studenti.

Addameer ha aggiunto che Israele ha falsamente accusato Jarrar di essere coinvolta nell’uccisione dell’adolescente israeliana Rina Shnerb.

Shnerb è stata uccisa nell’agosto 2019 da quello che i militari israeliani hanno stabilito essere un ordigno esplosivo improvvisato vicino all’insediamento di Dolev in Cisgiordania.

Ma lunedì il procuratore militare israeliano ha cambiato l’accusa contro Jarrar includendo solo le sue attività politiche, e le accuse di coinvolgimento nell’omicidio di Shnerb sono cadute.

Jarrar ha già trascorso anni nelle carceri israeliane e le è stato proibito viaggiare a causa della sua appartenenza al FPLP.

Il primo voto in 15 anni

Le elezioni legislative e presidenziali palestinesi previste per maggio e luglio sarebbero le prime dalle elezioni legislative del 2006, quando Hamas vinse con una vittoria schiacciante battendo Fatah, fazione dell’Autorità Nazionale Palestinese al potere guidata da Mahmoud Abbas.

Tuttavia, il partito di Abbas, sostenuto da Israele, Stati Uniti, Unione Europea e alcuni stati arabi, non ha permesso ad Hamas di assumere il governo dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Invece, le milizie allineate con Fatah a Gaza, in accordo con gli Stati Uniti, hanno cercato di rimuovere Hamas dal potere con la forza.

Ma nel giugno 2007 Hamas si è preventivamente mosso contro di loro, espellendo da Gaza le forze di Fatah sostenute dagli Stati Uniti.

Il tentativo di golpe contro Hamas dopo la sua vittoria alle elezioni ha portato all’attuale divisione per cui l’ANP di Abbas sostenuta dall’occidente ha mantenuto il controllo in Cisgiordania mentre Hamas, isolata a livello internazionale, ha governato all’interno della Striscia di Gaza assediata.

Non vi è alcuna garanzia che si svolgeranno le elezioni, poiché negli ultimi anni sono state programmate numerose votazioni poi rinviate a tempo indeterminato.

Le elezioni sono largamente viste come un modo per rafforzare la legittimità dei principali partiti politici palestinesi a 15 anni dall’ultima votazione e alla luce della nuova amministrazione statunitense.

Come ha scritto di recente Ali Abunimah di The Electronic Intifada, non è chiaro perché Hamas si fidi che lo stesso partito di Abbas e Fatah che ha guidato il colpo di stato contro Hamas nel 2007 rispetterà ora i risultati.

“Qualsiasi riconciliazione o ‘unità nazionale’ può basarsi solo sul fatto che Fatah di Abbas abbandoni la collaborazione con Israele e che Hamas abbandoni la resistenza”, ha scritto Abunimah.

L’arresto dei membri di Hamas

Israele ha regolarmente incarcerato funzionari palestinesi eletti solo perché non approva il loro punto di vista, e ora sta incrementando tali arresti in vista delle elezioni programmate. Questo fa “parte dello sforzo israeliano in corso per sopprimere l’esercizio della sovranità politica e dell’autodeterminazione dei palestinesi”, ha affermato Addameer. Nelle ultime settimane Israele ha operato molti arresti di personalità appartenenti ad Hamas nella Cisgiordania occupata.

A febbraio le forze israeliane hanno arrestato Adnan Asfour e Yasser Mansour di Hamas e hanno disposto che Asfour fosse tenuto in detenzione amministrativa per sei mesi.

Mansour è anche membro del Consiglio legislativo palestinese.

Hamas ha detto che l’arresto dei suoi politici in Cisgiordania “conferma il fatto che l’occupazione ha preso di mira il processo elettorale”.

Naif al-Rajoub, membro del Consiglio legislativo palestinese, ha detto che le forze di occupazione israeliane hanno fatto irruzione nella sua casa a febbraio e gli hanno intimato di non partecipare alle elezioni.

Al-Rajoub ha detto all’agenzia di stampa Shehab che le forze israeliane gli hanno detto di non candidarsi alle elezioni e di non partecipare alla campagna elettorale e che gli permetterebbero solo di andare alle urne.

Altre figure di Hamas arrestate da Israele nelle ultime settimane includono Khalid al-Haj, Abd al-Baset al-Haj, Omar al-Hanbali e Fazee al-Sawafta.

La scorsa settimana un tribunale militare israeliano ha prorogato di quattro mesi la detenzione amministrativa di Khitam Saafin, a capo dell’Unione dei Comitati delle Donne palestinesi. Saafin è stata arrestata insieme ad altri attivisti politici palestinesi a novembre e da allora è detenuta senza accusa né processo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele: migliaia di palestinesi non registrati temono la deportazione e la separazione dalle loro famiglie

Shatha Hammad

2 marzo 2021 – Middle East Eye

Molti vivono come in ‘una doppia prigione’ perché Israele continua a negare loro carte di identità, una politica rafforzata dopo lo scoppio della Seconda Intifada

La paura di essere deportata perseguita costantemente la cinquantenne Anna Morales. Per tutti i 23 anni durante i quali è vissuta in Palestina, questa madre di 6 figli non è riuscita ad ottenere un documento di residenza.  

Anna è un’americana che negli Stati Uniti ha incontrato e sposato Mohammad al-Mashni, ora deceduto.

Nel 1997 la coppia decise di stabilirsi in Palestina, dopo che Anna aveva ricevuto un permesso israeliano di ingresso nel Paese. Mentre all’epoca il marito non aveva una carta di identità palestinese, egli era poi riuscito a ottenerne una nel 2005, così come i loro sei figli.

Invece la domanda di Anna è stata respinta e lei continua a rimanere in Palestina illegalmente, secondo la legge israeliana. 

Anna vive con i sei figli nel villaggio di Surda, vicino a Ramallah nella Cisgiordania occupata. Suo marito è morto nel 2015 e lei è preoccupata per i figli e il loro futuro. 

Non si allontana dal villaggio se non in rarissime occasioni e non esce mai dal governatorato di Ramallah, per paura di attraversare i checkpoint israeliani, dove è necessario essere identificati. 

Vivo con una paura costante. Paura di essere deportata, paura di essere separata dai miei figli, paura di lasciarli da soli,” dice Anna a Middle East Eye

Non solo Anna non può lasciare Ramallah, ma, da quando è arrivata, non ha neanche potuto viaggiare all’estero.

“Mia madre è mancata senza che io potessi vederla per dirle addio. I miei fratelli si sono sposati e hanno avuto figli e in tutti questi anni non ci siamo mai ritrovati,” continua. 

Anna afferma che, anche se è vero che lei potrebbe trasferirsi negli USA con i figli, “noi amiamo la Palestina e le siamo leali e ci rifiutiamo di andarcene senza poter ritornare. Questo è il motivo per cui oggi sono ancora qui e soffro perché non posso ottenere un documento”.

Nel 2020 ha ricevuto una sentenza di deportazione dal tribunale israeliano che fa riferimento alla sua presenza illegale in Palestina per 23 anni. Anna e i suoi avvocati sono riusciti a bloccare temporaneamente l’ordine di deportazione. 

Tutti i palestinesi vivono in una grande prigione costruita da Israele. Quelli di noi che non hanno la carta di identità e quelli che sono a rischio di deportazione vivono in una doppia prigione,” dice. 

Anna è una delle migliaia di persone che vivono in Palestina in attesa di una carta di identità che Israele rifiuta di concedere dopo aver bloccato il processo di “ricongiungimento familiare” e le visite alle famiglie allo scoppio dell’Intifada di al-Aqsa, o Seconda Intifada, nel 2000. 

Prima Israele concedeva documenti di identità basandosi su procedure complesse che richiedevano molti anni, mentre molte domande venivano respinte, con il pretesto della sicurezza. 

L’ultimo lotto di documenti è stato rilasciato nel 2009, estendendo nel 2020 per un altro anno la proibizione del ricongiungimento delle famiglie. 

Noi vogliamo i documenti di identità’

Nonostante i rischi che affrontano per parlare ai media e alzare la loro voce su questo argomento, un gruppo di donne ha cominciato a rompere il silenzio fondando un movimento chiamato “Il Ricongiungimento Familiare È Un Mio Diritto”. Sono state attive sui social e nell’organizzare proteste. 

Davanti all’Autorità Generale Palestinese per gli Affari Civili a Ramallah, l’ente responsabile per far pressione su questo argomento e occuparsene presso le autorità israeliane, le attiviste scandivano: “Vogliamo i documenti di identità, vogliamo i documenti di identità.” L’arrivo delle donne a Ramallah da varie zone e città ha comportato un grande rischio personale. 

Nour Hijaji, una signora di 42 anni di origini tunisine, è andata alla protesta di Ramallah dal suo villaggio di Mas-ha, vicino alla città di Salfit, nel nord della Cisgiordania, per richiedere l’approvazione per la richiesta di ricongiungimento familiare che aveva presentato 13 anni fa. 

Dice a MEE che cinque anni dopo aver presentato la domanda di ricongiungimento famigliare è arrivata in Palestina nel 2013 dopo aver ottenuto un permesso valido solo per un mese.

L’attesa è stata più lunga di quanto mi aspettassi e speravo che la mia presenza in Palestina avrebbe fatto avanzare la pratica e ottenere una risposta, ma non è successo niente,” afferma. 

Durante la sua permanenza in Cisgiordania, Nour è diventata mamma di quattro figli, che hanno tutti documenti palestinesi. Lei si sposta a proprio rischio e non esce da Mas-ha eccetto che per motivi urgenti, il che le rende impossibile portare i figli in altre zone per motivi familiari, per divertimento o per altre ragioni. 

Dice a MEE che la sua esistenza l’ha lasciata priva di molti diritti fondamentali e sussidi, i più importanti dei quali sono l’assistenza sanitaria, guidare un veicolo o andare in altre parti della Palestina o all’estero.

“L’ostacolo maggiore che abbiamo è che non possiamo muoverci. Io non ho visitato [altre città] come Betlemme o Hebron. Questo per me è diventato un sogno.”

“Oggi siamo venuti tutti a Ramallah per consegnare il nostro messaggio alle autorità, in particolare a quelli che trattano con Israele. Noi chiediamo anche perché molti altri problemi non sono risolti, perché il tema del ricongiungimento famigliare non viene sollevato o non se ne parla,” aggiunge.

Separare le famiglie palestinesi  

Il blocco del ricongiungimento familiare attuato da Israele riguarda non solo quelli che si sono trasferiti qui dall’estero con i propri mariti o le proprie mogli, ma anche i discendenti di rifugiati palestinesi, i palestinesi che vivono a Gaza o in Cisgiordania che si sposano fra di loro e i palestinesi di Gerusalemme che sposano individui di una di queste aree.

Il controllo di Israele sul registro della popolazione palestinese significa in effetti che può decidere a chi concedere la cittadinanza in Palestina, chi è consentito sposare e dove la coppia ha il permesso di vivere. 

Secondo gli accordi di Oslo del 1993 la Cisgiordania e la Striscia di Gaza costituiscono una singola entità territoriale, per cui gli abitanti e le famiglie naturalmente dovrebbero avere il diritto di spostarsi tra l’una e l’altra. Invece le restrizioni di Israele comportano che le famiglie divise tra le due aree possono solo farsi visita l’un l’altra in casi “umanitari” eccezionali e non possono spostarsi o cambiare indirizzo in nessuna delle due zone. 

Dati ufficiali sui numeri di casi di ricongiungimento famigliare in sospeso sono scarsi e difficili da ottenere, ma si stimano in decine di migliaia. Secondo una relazione congiunta di gruppi per i diritti umani israeliani fra il 2000 e il 2006, ci sono state almeno 120.000 richieste di ricongiungimento familiare che Israele si è rifiutato di prendere in esame, eccetto per una manciata di casi. 

Imad Qaraqra, addetto alle pubbliche relazioni presso l’Autorità Generale Palestinese per gli Affari Civili, afferma di considerare il tema del ricongiungimento famigliare in cima alla lista delle sue priorità.

“Noi non sappiamo quando Israele potrà dare l’approvazione a questo dossier, ma noi lo chiediamo come uno dei nostri diritti,” dice a MEE

Aggiunge che fra il 2007 e il 2009, prima che Israele interrompesse completamente la procedura, l’ANP riusciva a ottenere l’approvazione di circa 52.000 domande di ricongiungimento familiare.

Helmy al-Araj, direttore del Centro per la Difesa delle Libertà e dei Diritti Civili, dice a MEE che privare le famiglie palestinesi della possibilità di vivere insieme e negare il loro diritto alla cittadinanza e residenza è una forma di punizione collettiva da parte di Israele.

Afferma che questa pratica costituisce un crimine di guerra, viola vari trattati, incluse la Quarta Convenzione di Ginevra, la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali. 

Gli individui privati di un documento di identità, dice, vivono in una condizione di arresti domiciliari e non possono esercitare il loro diritto basilare alla libera circolazione, per timore di essere deportati, il che costituisce una “violazione dei loro diritti civili fondamentali”. 

Al-Araj dice che Israele sta usando questo tema umanitario per fare pressione sull’ANP e ricattarla. Per esempio, dice, dopo che l’anno scorso l’ANP aveva annunciato la sospensione del coordinamento sulla sicurezza con Israele, quest’ultimo aveva rifiutato di registrare decine di neonati, ai quali fu impedito di lasciare il Paese.

Ramzi Abedrabbo, 57 anni è un rifugiato palestinese di Gaza. Ha incontrato la moglie, una palestinese della Cisgiordania, in Giordania, dove viveva. Dopo la nascita dei loro 6 figli in Giordania, nel 2000 la famiglia si è trasferita in Cisgiordania.

Abedrabbo e tre dei loro figli hanno ottenuto i documenti di identità in seguito alla richiesta di ricongiungimento presentata dalla moglie, mentre non si è data risposta alle richieste degli altri tre, mettendoli in pericolo di essere deportati in qualunque momento.

Uno dei figli non registrati, la figlia, è sposata e ha 4 bambini, dice. 

Ramzi, che soffre di emiparesi, ha partecipato alle proteste a Ramallah, dove si è recato dal villaggio di al-Ram, vicino a Gerusalemme. Ha portato tutti i documenti che provano la legalità della sua presenza in Palestina e che dovrebbero valere per i figli.

 Parlando a MEE, Ramzi afferma: “Dove andranno i miei figli se li deportano? La Giordania non li accetterà, né nessun altro Paese perché non hanno nessun altro documento.”

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)