“La nuova Nakba”: quello che un giornalista palestinese ha visto mentre informava sull’invasione di Jenin

Mohammed Abed

4 luglio 2023 – Mondoweiss

Quello che ho visto a Jenin è una nuova Nakba. Siamo stati riportati indietro al 1948, al 1967 e al 2002 quando il campo profughi di Jenin venne raso al suolo. Questa è stata la sorte della gente del campo nelle ultime 24 ore.

All’incirca verso l’1:30 della notte del 3 luglio i droni dell’esercito di occupazione hanno lanciato un attacco aereo su una delle sedi della resistenza palestinese nel campo profughi di Jenin.

Ho subito indossato il mio gilet con la scritta “Stampa” e mi sono diretto al campo dove erano avvenuti gli attacchi aerei. Lungo il percorso di 5 km per arrivare al campo hanno iniziato a giungerci notizie secondo cui le forze militari dell’occupazione avevano lasciato le basi dell’esercito che si trovano ai posti di controllo di Dotan, Jalameh e Salem che circondano Jenin. Stavano per entrare in città.

In quel momento mi sono reso conto che l’invasione era iniziata.

Carri armati in marcia verso Jenin FOTO: ATEF SAFADI/EFE VIA ZUMA PRESS/APA IMAGES)

Quando sono arrivato al campo l’esercito era già là, schierato fuori dall’ingresso occidentale presso la rotonda di Awda. Sono affluite decine di veicoli blindati che poi si sono sparpagliate per accerchiare il perimetro del campo.

Abbiamo iniziato a informare dell’invasione mentre l’esercito entrava a forza. Questa volta sembrava diverso dalle precedenti incursioni, l’esercito faceva ampio uso dei droni militari per lanciare attacchi aerei su vari luoghi all’interno del campo, qualcosa che non si era più visto dalla Seconda Intifada. Le esplosioni sono continuate per parecchie ore, mentre l’esercito continuava a martellare il campo dall’alto. Dopo un po’ le esplosioni sono diventate meno frequenti, sostituite da un suono diverso, più familiare, di ordigni artigianali fatti esplodere.

Abbiamo tentato di entrare per continuare il nostro lavoro, ma l’esercito ci ha impedito di avanzare. Ha impedito anche alle ambulanze e al personale medico di entrare per curare i feriti.

Un mezzo blindato dell’esercito israeliano blocca l’ingresso del campo di Jenin. Foto:MOHAMMED NASSER/APA IMAGES)

Siamo andati all’ospedale Ibn Sina di Jenin e abbiamo assistito all’afflusso graduale di persone, molte delle quali ferite o che cercavano un rifugio. Abbiamo notato che altri veicoli militari continuavano a passare nei pressi dell’ospedale, almeno cinque convogli, tra cui quattro bulldozer militari, diretti al campo.

Sono passate ore e dal campo proveniva il suono delle esplosioni. Abbiamo cominciato a documentare i casi di persone ferite e uccise che hanno iniziato a raggiungere l’ospedale. Dopo che le forze di occupazione avevano impedito loro di curare i feriti, sul posto sono arrivate ambulanze.

Di primo mattino i bulldozer si sono messi a disselciare le vie di Jenin, scavando trincee profonde un metro nel terreno. È stata la prima volta in vent’anni che abbiamo visto queste scavatrici in azione.

Le conseguenze del feroce attacco con bulldozer che ha sventrato il manto stradale e schiacciato una macchina . Foto: NASSER ISHTAYEH/SOPA IMAGES VIA ZUMA PRESS WIRE/APAIMAGES)

Quando è sorto il sole abbiamo visto i droni dell’esercito coprire il cielo su di noi, mettendo in chiaro che l’invasione sarebbe probabilmente continuata per un certo tempo. Durante il giorno ci siamo avviati verso vari luoghi in cui era schierato l’esercito. Il primo è stato in via Haifa, dove stazionavano vari veicoli militari. Il secondo è stato la rotonda del ministero dell’Interno, dove un convoglio di blindati stava formando un cordone attorno alla zona per chiudere le strade di accesso al campo. Il terzo luogo è stato presso il cinema Circle, nel centro di Jenin, dove si stava svolgendo uno scontro armato tra l’esercito e i combattenti della resistenza. Miliziani erano schierati ai lati delle strade e scambiavano colpi di armi da fuoco con l’esercito. Improvvisamente a un certo punto della sparatoria un nutrito gruppo di combattenti ha iniziato ad avanzare verso il centro della strada e ha continuato a sparare contro i blindati. Mentre filmavamo uno dei miei colleghi si è girato verso di me e mi ha detto che ciò gli ricordava le violente battaglie di strada della Seconda Intifada.

Queste scene di scontri armati erano già state documentate dall’inizio degli ultimi avvenimenti nel campo profughi di Jenin, ma le incursioni dell’anno scorso non hanno niente a che vedere con quello che abbiamo visto con i nostri occhi. Abbiamo assistito all’audacia e allo stoicismo dei combattenti della resistenza mentre affrontavano l’occupazione, dimostrando una tenace determinazione da far rabbrividire.

Infine, il quarto luogo è stato l’ingresso principale del campo profughi di Jenin, dove lo scontro era più feroce. Pneumatici in fiamme riempivano le strade, così come il fumo nero che saliva in colonne che servivano come temporanea cortina fumogena intesa a proteggere i combattenti. Poco dopo un attacco aereo nel campo si potevano sentire le ambulanze che portavano via decine di feriti all’Ibn Sina, dove si era riunita una folla per aiutare il personale medico nel trasporto dei feriti. È così che la gente del campo affronta queste condizioni, offrendosi aiuto reciproco indipendentemente dalla competenza specifica. Quello che vogliono fare è dare una mano in ogni modo possibile.

Il soccorso ai feriti all’ingresso del Campo Profughi. Foto:MOHAMMED NASSER/APA IMAGES

Dopo poco tempo è entrata un’altra ambulanza che portava un gruppo di giornalisti evacuati dal campo. Stavano informando sugli avvenimenti in loco quando l’esercito li ha presi di mira con proiettili veri. Nessuno è stato direttamente colpito, ma alcuni sono tornati senza il loro equipaggiamento in quanto l’esercito ha deliberatamente sparato contro le telecamere che stavano trasmettendo gli eventi dal vivo.

Ho parlato con uno dei giornalisti, Issam Rimawi:

Io e altri colleghi — Hisham Abu Shaqrah, Amid Shehadeh, Rabie Munir, and Abdulrahman Younis — ci trovavamo all’interno del campo prima che le forze di occupazione lo invadessero. Improvvisamente le forze di occupazione sono arrivate in mezzo al campo durante il nostro lavoro, non ci hanno consentito di andarcene e anzi hanno aperto il fuoco contro di noi. Ci siamo rifugiati in una delle case finché siamo stati portati via da un’ambulanza. È stato uno spettacolo terrificante.”

È così che si sono svolti i fatti a Jenin finché è scesa la notte, quando l’esercito ha obbligato migliaia di persone a lasciare il campo. Quelle famiglie sono scappate perché gli è stato detto che la loro casa sarebbe stata bombardata, ma molti sono rimasti nella propria abitazione.

Questo è ciò che significa essere profugo. Questa è la Nakba, rinata dai crimini dell’occupazione. Siamo stati riportati indietro al 1948, al 1967 e al 2002, quando il campo profughi di Jenin venne raso al suolo.

Abbiamo parlato alle famiglie del campo. Ci hanno detto che le ambulanze sono arrivate e hanno detto loro che dovevano andarsene dalle loro case perché l’occupazione intendeva bombardare molte delle loro abitazioni. Una delle persone ha descritto il livello di distruzione a cui ha assistito:

Quando abbiamo lasciato le nostre case le strade erano completamente distrutte. Ovunque nel campo c’erano segni di devastazione e abbiamo camminato sulle macerie causate dagli attacchi aerei e dai bulldozer. Nel campo niente è rimasto come prima. Tutto è stato distrutto.”

Questa è stata la sorte delle persone del campo nelle ultime 24 ore e forse è la stessa sorte che li attende nelle prossime 24 ore. Gli attacchi aerei continuano e i combattimenti si intensificano. Possiamo sentire altre esplosioni, ed è quasi certo che continueranno.

Mohammed Abed

Mohammed Abed è un giornalista palestinese che risiede a Jenin.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Come Israele sta testando l’intelligenza artificiale nella guerra contro i palestinesi

Richard Silverstein

1 luglio 2023 MiddleEastEye

Israele rafforza la sua rete di controllo e i palestinesi sono diventati i primi bersagli di tecnologie terrificanti e letali

Lo scorso anno l’esercito israeliano ha lanciato una nuova strategia per inserire armi e tecnologie dell’intelligenza artificiale in tutti i reparti militari – la trasformazione strategica più radicale degli ultimi decenni. Il mese scorso il Ministero della Difesa israeliano si è vantato che l’esercito sta per diventare una “superpotenza” dell’IA nel campo della guerra autonoma .

“C’è chi vede l’IA come la prossima rivoluzione che cambierà il volto della guerra sul campo”, ha detto il generale dell’esercito in pensione Eyal Zamir alla Conferenza di Herzliya, un forum annuale sulla sicurezza. Gli impieghi militari dell’IA potrebbero includere “la capacità delle piattaforme informatiche di colpire in sciami, o dei sistemi di combattimento di operare in modo indipendente … o l’aiuto in un processo decisionale rapido su scala maggiore di quanto si sia mai visto”.

L’industria militare israeliana sta producendo una vasta gamma di navi e veicoli militari autonomi, tra cui un “veicolo robot armato” descritto come dotato di un insieme di programmi “robusto” e “letale” con “riconoscimento automatico del bersaglio”. Un sottomarino autonomo per la “raccolta segreta di informazioni”, soprannominato BalenaBlu, è in fase di collaudo.

È ovvio che tutto questo vi spaventi da morire. Israele non sta creando solo un mostro di Frankenstein, ma interi plotoni capaci di portare distruzione non solo sui loro obiettivi palestinesi ma su chiunque in qualsiasi parte del mondo.

I palestinesi sono il banco di prova per tali tecnologie, e servono da “prova di fattibilità” per gli acquirenti globali. I clienti più probabili di Israele sono paesi coinvolti in guerre; anche se queste armi possono dare un vantaggio sul campo di battaglia, alla fine aumenteranno sicuramente il livello generale di sofferenza e spargimento di sangue tra tutti i partecipanti. Saranno in grado di uccidere in numero maggiore con esiti maggiormente letali. Perciò sono terrificanti.

Un’altra nuova tecnologia di intelligenza artificiale israeliana, Pozzo di Sapere, non solo controlla da dove i militanti palestinesi lancino razzi ma può anche essere utilizzata per prevedere i luoghi dei futuri attacchi.

Se tali sistemi possono offrire agli israeliani protezione dalle armi palestinesi, consentono anche a un Israele indisturbato di diventare una potenziale macchina per uccidere, scatenando terrificanti attacchi contro obiettivi militari e civili senza quasi dover affrontare una resistenza da parte dei nemici.

Cerca e distruggi

Queste tecnologie sono un avvertimento al mondo su quanto sia diventata pervasiva e invadente l’IA. E non è rassicurante che l’esperto capo di intelligenza artificiale dell’esercito israeliano affermi di essere competitivo rispetto agli stipendi degli specialisti di IA sul mercato privato, fornendo “significanza”. Come se questo potesse in qualche modo rassicurare, aggiunge che per le armi IA di Israele ” [ci sarà] sempre una persona umana coinvolta nel prossimo futuro…”.

Lascio a voi le riflessioni su quanto possa essere “significante” uccidere i palestinesi. Ed è improbabile che ci sia sempre un essere umano a controllare queste armi sul campo di battaglia. Il futuro prevede robot in grado di pensare, giudicare e combattere autonomamente, con poco o nessun intervento umano oltre la programmazione iniziale. Sono stati definiti la “terza rivoluzione nella guerra dopo la polvere da sparo e le armi nucleari”.

Possono essere programmati per cercare e distruggere il nemico, ma chi determina chi è il nemico e chi decide della vita o della morte sul campo di battaglia? Sappiamo già che in guerra gli umani commettono errori, a volte terribili. I programmatori militari, nonostante la loro esperienza nel determinare ciò che i robot armati penseranno e faranno, non sono meno inclini all’errore. Le loro creazioni potrebbero presentare enormi incognite di comportamento che potrebbero costare innumerevoli vite.

La Palestina è uno dei luoghi più sorvegliati al mondo. Le telecamere a circuito chiuso sono sempre presenti nel paesaggio palestinese, dominato dalle torri di guardia israeliane, alcune armate di pistole robotizzate telecomandate. In alto volano i droni, in grado di lanciare gas lacrimogeni, sparare direttamente sui palestinesi sottostanti o sparare diretti da personale a terra. A Gaza, la sorveglianza costante spaventa e traumatizza i residenti.

Oltre a ciò ora Israele ha anche app di riconoscimento facciale come Blue Wolf che mirano a catturare immagini di ogni palestinese. Queste immagini vengono inserite in un enorme database a cui si può attingere per qualsiasi scopo. Il software di aziende come Anyvision, in grado di identificare un numero enorme di individui, è integrato con sistemi contenenti informazioni personali – compresi i post sui social media.

È una rete di controllo che infonde paura, ossessione e un senso di disperazione. Come disse una volta l’ex capo di Stato maggiore dell’esercito israeliano Rafael Eitan, l’obiettivo è quello di far “correre i palestinesi come scarafaggi drogati in una bottiglia”.

Il mostro di Frankenstein

Molti ricercatori sui dati e difensori della privacy hanno messo in guardia dai pericoli dell’IA sia nella sfera pubblica che nelle azioni di guerra. I robot militari mossi dall’intelligenza artificiale sono solo uno dei tanti esempi e Israele è in prima linea in questi sviluppi. È il dottor Frankenstein e questa tecnologia è il suo mostro.

Human Rights Watch ha chiesto il divieto di queste tecnologie militari avvertendo: “Le macchine non possono comprendere il valore della vita umana”.

Può darsi che la tecnologia israeliana di IA sia, almeno agli occhi dei suoi creatori, destinata alla protezione e alla difesa degli israeliani. Ma il danno che infligge alimenta un circolo vizioso senza fine di violenza. L’esercito israeliano e i media che promuovono tale stregoneria creano solo più vittime – inizialmente palestinesi, ma in futuro ogni dittatura o stato genocida che acquisti queste armi produrrà il proprio mucchio di vittime.

Un altro “risultato” dell’intelligenza artificiale è stato l’assassinio nel 2020 da parte del Mossad del padre del programma nucleare iraniano, Mohsen Fakhrizadeh. Il New York Times ne ha dato questo sbalorditivo resoconto: “Gli agenti iraniani che lavoravano per il Mossad avevano parcheggiato un camioncino Nissan Zamyad blu sul lato della strada… Sul pianale del camioncino era posta una mitragliatrice da cecchino da 7,62 mm… L’assassino, un abile cecchino, prese posizione, tarò i mirini, armò l’arma e premette leggermente il grilletto.

“Tuttavia non era affatto vicino ad Absard [in Iran]. Stava scrutando lo schermo di un computer in una località sconosciuta a più di 1.600 km. di distanza… [Questa operazione è stata] il debutto di un mitragliatore di alta precisione computerizzato ad alta tecnologia, equipaggiato con intelligenza artificiale e visione a più telecamere gestite via satellite e in grado di sparare 600 colpi al minuto.

“Nell’arsenale di armi ad alta tecnologia per l’uccisione mirata a distanza la mitragliatrice potenziata e telecomandata si unisce poi al drone da combattimento. Ma a differenza di un drone, la mitragliatrice robot non attira gli sguardi al cielo dove il drone potrebbe essere abbattuto, e può essere collocata ovunque, qualità queste capaci di rimodellare il mondo della sicurezza e dello spionaggio.”

Conosciamo i pericoli insiti nelle armi autonome. Una famiglia afghana è stata brutalmente uccisa in un attacco di droni statunitensi nel 2021 perché uno dei suoi membri era stato erroneamente identificato come un terrorista ricercato. Sappiamo che l’esercito israeliano ha ripetutamente ucciso civili palestinesi in quelli che ha definito “errori” sul campo di battaglia. Se gli esseri umani che combattono su un campo di battaglia possono sbagliare in modo così eclatante, come possiamo aspettarci che le armi e i robot gestiti dall’intelligenza artificiale facciano un lavoro migliore?

Ciò dovrebbe sollevare un allarme sull’impatto devastante che l’IA avrà sicuramente nel mondo militare e sul ruolo guida di Israele nello sviluppo di tali armi letali fuori regolamento.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Richard Silverstein scrive sul blog Tikun Olam dedicato a denunciare gli eccessi dello Stato di sicurezza nazionale israeliano. Suoi articoli sono apparsi su Haaretz, Forward, Seattle Times e Los Angeles Times. Ha contribuito alla raccolta di saggi sulla guerra del Libano del 2006 A Time to Speak Out (È ora di parlare, Verso ed.) e ha un altro saggio nella raccolta Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood (Israele e Palestina: prospettive alternative sulla condizione di Stato, Rowman & Littlefield)

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




ILAN PAPPE su Gamal Abdul Nasser: perché dobbiamo riesaminare la guerra del giugno 1967

Ilan Pappe

27 giugno 2023 – Palestine Chronicle

Nasser sbagliò i calcoli riguardo alla reazione di Israele. Benché il governo israeliano sapesse molto bene che Nasser non intendeva iniziare una guerra, utilizzò la sua politica del rischio calcolato come pretesto per iniziare una guerra per conto proprio con l’obiettivo di costruire un piccolo impero, un Israele più grande.

Giugno è il mese in cui si ricorda la guerra del giugno 1967.

Gli storici riconsiderano un avvenimento non solo sulla base di nuove prove. Le loro analisi sono influenzate anche dal passare del tempo che consente loro di riesaminare aspetti differenti di eventi fondamentali come questo.

E quando indaghi la storia e utilizzi documenti e prove solide, a volte deludi amici e nemici.

In questo articolo vorrei riprendere in considerazione il ruolo in quella guerra dell’ex presidente egiziano Gamal Abdul Nasser. Penso che il suo ruolo non sempre corrisponda alla percezione comune di questo grande leader e forse deluda valutazioni percepite del suo contributo alla lotta.

Nasser, Palestina e Israele

Qui scrivo dal punto di vista palestinese, nel senso che sono meno interessato a quanto successe all’Egitto in seguito al ruolo di Nasser in Palestina, indubbiamente un argomento significativo. Mi interessa invece l’impatto del leader egiziano sulla storia della Palestina contemporanea.

Nasser arrivò al potere in quanto membro del movimento dei Liberi Ufficiali nella rivoluzione del luglio 1952. Subito dopo assunse la carica di vice capo del movimento, prima di togliere il comando a Muhmad Naguib.

Anche come vice capo era interessato ai negoziati con Israele. Ricorse a un importante diplomatico in Francia per iniziare colloqui con gli israeliani. La sua controparte fu Moshe Sharett, all’epoca ministro degli Esteri di Israele.

Certo Nasser considerava la Nakba come una catastrofe. Credeva fortemente al diritto dei rifugiati palestinesi a tornare e riteneva Israele una grave minaccia per il mondo arabo. Ma Nasser era anche un pragmatico che capiva bene come Israele fosse diventato una parte essenziale dell’assetto imperialista americano nel mondo arabo, e quindi cercò il modo di limitarne il potenziale pericolo.

All’epoca, nel 1952, Nasser non riteneva necessariamente gli Stati Uniti degli arcinemici dei regimi arabi progressisti e sperava che un approccio realistico verso Israele gli avrebbe ingraziato gli americani.

Nel 1952 fece due richieste ragionevoli e rimase sorpreso nell’apprendere che sia la Gran Bretagna che gli USA le trovarono accettabili: un ritorno incondizionato dei rifugiati palestinesi e un ponte terrestre attraverso il sud del Naqab (il Negev) che unisse Giordania ed Egitto. In cambio sarebbe stato disposto a [firmare] un patto di non aggressione con Israele e, successivamente, la pace.

Ben Gurion e i suoi due compari

Il primo ministro israeliano dell’epoca, David Ben Gurion, respinse categoricamente ogni contatto con il leader egiziano: di fatto, dal momento in cui fu chiaro che Nasser sarebbe stato il leader dell’Egitto, Ben Gurion cercò il modo di rovesciarlo.

Invece Sharett fu più disponibile: non che accettasse le condizioni di Nasser, ma apprezzò l’idea dei negoziati e sperò di trovare un compromesso.

Per un breve periodo, quando Sharett sostituì Ben Gurion come primo ministro di Israele per un anno e mezzo, tra il 1954 e il 1955, sembrò possibile arrivare a un compromesso.

Benché non fosse più nel governo, Ben Gurion aveva lasciato due compari che, come lui, credevano che Nasser dovesse essere spodestato. Questa convinzione era di per sé il risultato di un’ideologia radicata, in base alla quale solo un’esibizione della spietatezza di Israele avrebbe potuto ammansire gli arabi e cancellare ogni progetto panarabo che potesse aiutare i palestinesi.

Uno dei due compari era il ministro della Difesa Pinchas Lavon, l’altro il capo di stato maggiore Moshe Dayan.

I tre progettarono una serie di azioni per far fallire il desiderio di Sharett di raggiungere un accordo con Nasser. Si iniziò con la violazione dell’accordo di armistizio con l’Egitto costruendo una colonia illegale sulla terra di nessuno, seguita dall’ignobile massacro nel villaggio di Qibyah, in Cisgiordania.

Esso venne messo in atto nel 1953 da unità d’élite israeliane guidate da Ariel Sharon. Sessantacinque abitanti vennero uccisi, in parte facendo saltare in aria le loro case mentre vi stavano ancora dormendo.

Ma il culmine di questa campagna fu la formazione di un’organizzazione terroristica di ebrei egiziani a cui venne ordinato di piazzare bombe in cinema e librerie legate alla cultura occidentale per incrementare la sfiducia verso Nasser agli occhi degli americani.

I terroristi vennero catturati prima che riuscissero a portare a termine le loro azioni.

Il ritorno al potere di Ben Gurion

Dopo un’assenza relativamente breve Ben Gurion tornò al potere. Nel febbraio 1955 inviò il suo esercito nella Striscia di Gaza per compiere un’operazione militare che diede come risultato l’uccisione di 37 soldati egiziani. Fino a quel momento, come indicato nelle sue memorie dallo stesso Nasser, il leader egiziano era disposto a negoziare con Israele, attenendosi a una posizione che americani e britannici vedevano ancora come sensata e realizzabile.

Quando comprese che l’Occidente non era disposto a esercitare pressioni su Israele e non avrebbe mosso un dito per porre fine alle ambizioni colonialiste e annessioniste di Israele verso il mondo arabo, Nasser cambiò rotta. Ora si era convinto che Israele avrebbe attaccato sia la Siria che la Giordania per espandere i propri confini geografici. Ciò richiese un nuovo modo di pensare.

La nuova strategia di Nasser

Allora Nasser intraprese una nuova strategia, che includeva un appoggio più evidente alle nascenti attività di resistenza e di guerriglia dei palestinesi contro Israele, tentativi di unità panaraba, la creazione di un blocco di Paesi non allineati [né con gli USA né con l’URSS, ndt.] con India e Jugoslavia e l’acquisto di armi più moderne per il suo esercito.

Tra tutte queste politiche egli scelse quella nota come del rischio calcolato, utilizzando discorsi bellicosi e simulando la preparazione della guerra, con la speranza che ciò sarebbe stato sufficiente per obbligare l’Occidente a esercitare pressioni su Israele perché cessasse i suoi attacchi.

Questa strategia includeva la chiusura degli stretti di Tiran che collegano il Mar Rosso al Golfo di Aqaba, concentrando un’armata nella penisola del Sinai e chiedendo all’ONU di ritirarsi dalla frontiera tra Egitto e Israele.

Ma Nasser sbagliò previsione riguardo alla reazione israeliana. Benché sapesse benissimo che Nasser non intendeva fare la guerra, il governo israeliano utilizzò la sua politica del rischio calcolato come pretesto per iniziare una guerra per conto proprio con l’obiettivo di costruire un piccolo impero, un Israele più grande.

Il resto, come si suol dire, è storia

Documenti declassificati

Documenti recentemente declassificati degli incontri del governo israeliano mostrano chiaramente che i dirigenti israeliani capirono che la guerra non era imminente e che molto dipendeva dalle loro azioni.

In effetti non c’era bisogno di attendere l’apertura degli archivi per arrivare a tale conclusione. Molti leader israeliani lo ammisero. Uno di loro fu Menachem Begin, che faceva parte del governo dell’epoca e che disse a capi militari dell’esercito israeliano:

“Nel giugno 1967 facemmo di nuovo una scelta. La concentrazione dell’esercito egiziano sui confini del Sinai non dimostrava che Nasser stesse realmente per attaccarci. Dobbiamo essere onesti con noi stessi: noi decidemmo di attaccarlo.”

Israele ha bisogno della guerra

Come nel 1948, anche nel 1967 Israele aveva bisogno di guerre per raggiungere i tipici obiettivi di ogni movimento colonialista di insediamento: avere più spazio geografico con meno popolazione nativa che vi abiti.

Dal 1963 Israele aveva preparato piani complessivi in attesa della mossa perfetta per iniziare il suo progetto di un “Israele più grande”. Ma fallì, perché credeva erroneamente che lo squilibrio demografico derivante dalla creazione di una tale entità potesse essere facilmente risolto opprimendo per decenni milioni di palestinesi. Dato che non poteva replicare la campagna di pulizia etnica del 1948, Israele scelse di trattare le popolazioni da poco occupate come detenuti in una vasta e sempre più grande prigione.

La resistenza palestinese a questa mostruosa politica continua fino ad oggi.

La lezione è che, persino con un governo di sinistra, laburista, che governò Israele tra il 1948 e il 1977, Israele non voleva la pace. Al contrario, Tel Aviv sperò di imporre la sua volontà al mondo arabo alleandosi strettamente con l’Occidente.

Le conseguenze di questa strategia si fecero sentire oltre la Palestina, il cui popolo fu la principale vittima di questa intransigenza israeliana. Di fatto ebbe un impatto notevole e dannoso su tutto il mondo arabo.

Sfortunatamente stiamo ancora assistendo ai frutti amari di questa aggressione, che può essere fermata solo dalla liberazione della Palestina e dalla creazione di uno Stato democratico su tutta la Palestina storica, che garantisca il ritorno dei profughi.

È l’unico modo che ci consentirebbe di chiudere questo pericoloso e triste capitolo della storia del mondo arabo e, si spera, permetterebbe a tutti noi di iniziarne uno nuovo e più promettente.

Ilan Pappé è docente all’università di Exeter. È stato in precedenza professore associato all’università di Haifa. È autore di La pulizia etnica della Palestina [Fazi, 2008], The Modern Middle East [Il moderno Medio Oriente], Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli [Einaudi, 2014] e Ten Myths about Israel [Dieci miti su Israele]. Pappé è considerato uno dei “nuovi storici” israeliani che, da quando all’inizio degli anni ’80 sono stati resi pubblici documenti ufficiali britannici e israeliani sull’argomento, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Perché i pogrom dei coloni stanno squassando la Cisgiordania proprio ora

Menachem Klein 

26 giugno 2023 +972

Frustrati dalle reazioni armate ai loro pogrom, i coloni continueranno a propugnare la supremazia ebraica con ogni mezzo necessario.

A volte un evento è così estremo da strappare il paraocchi della deliberata ignoranza alla società ebraico-israeliana. Il pogrom di Huwara lo scorso febbraio in cui centinaia di coloni hanno incendiato la città palestinese nella Cisgiordania occupata è stato un evento del genere. I pogrom della scorsa settimana a Turmus Ayya, Urif e Umm Safa hanno aperto ulteriormente il quadro, costringendo molti israeliani a guardare in faccia a una realtà presente da tempo e che senza dubbio può peggiorare.

Il problema principale non è però nel sottoprodotto dell’occupazione – il terrorismo dei coloni ebrei – ma nell’attività di routine di Israele nei territori. In effetti, la decisione dei dirigenti della sicurezza israeliana di etichettare i pogrom come “terrorismo” indica che il paraocchi è stato levato solo in parte: semplicemente non vogliono che il terrorismo ebraico interferisca o metta in imbarazzo l’autorità di esercito, Shin Bet e polizia.

L’insediamento coloniale è di per sé un atto violento, che sia fatto in accordo con la legge israeliana o con una legge che lo legittima retroattivamente. È violento perché i coloni impongono la loro presenza agli abitanti autoctoni e li privano della terra, dell’acqua, della libertà di movimento e dei diritti umani fondamentali. È un sistema organizzato di violenza per conto dello Stato.

La simbiosi tra esercito e coloni non si limita alla violenza; esiste anche nella concezione che hanno della loro missione. I coloni definiscono esplicitamente la loro missione come l’ebraizzazione dell’area, e lo fanno in modo efficace e coerente. La missione dell’esercito non è garantire la sicurezza a tutti i residenti nei territori – come il diritto internazionale richiede alla potenza occupante – ma piuttosto proteggere i coloni dalle reazioni dei nativi palestinesi, ai quali non è permesso difendersi, né con l’aiuto delle forze di sicurezza palestinesi, né istituendo una propria guardia nazionale.

Il fattore che determina se la vita e la proprietà di un residente della Cisgiordania saranno protette è se è ebreo o meno.

Anche l’espansione delle colonie in risposta all’assassinio di israeliani – come alte cariche del governo si sono impegnate a fare la scorsa settimana – non è un’innocua azione civile. È una violenza senza immediato spargimento di sangue, ma che inevitabilmente genererà una resistenza palestinese seguita da una sanguinosa repressione dell’esercito.

I palestinesi sono tollerati solo se si annullano nel paesaggio, diventando oggetti inanimati che rinunciano alla loro identità collettiva. Ma finché mantengono quell’identità sono per definizione il nemico. L’esercito e lo Shin Bet continueranno a controllarli con dati biometrici ed elettromagnetici che tracciano la loro posizione, le loro azioni e i pensieri espressi nelle telefonate e sui social media. La completa dipendenza dei palestinesi da Israele per i permessi rende facile per le autorità israeliane raccogliere informazioni sulla loro famiglia e le condizioni mediche, le tendenze sessuali, le debolezze personali e l’inquadramento sociale e utilizzare tali informazioni come arma per costringerli a collaborare.

Il predominio ebraico è chiaro come il sole e il popolo palestinese sta sanguinando fisicamente e politicamente. Tuttavia, man mano che le colonie si espandono e l’esercito interviene aumenta l’attrito, e così anche la motivazione palestinese a reagire. Oggi la violenza palestinese ha poca speranza di liberare la Cisgiordania la disparità di potere tra le parti è fin troppo evidente. Piuttosto, intende far pagare un prezzo, un qualsiasi prezzo, ai colonizzatori.

Una frustrazione pericolosa

Questa reazione frustra i coloni. Com’è possibile che tutto il loro potere e la loro supremazia non abbiano ancora cancellato l’identità e la resistenza palestinese? Questa frustrazione è ciò che muove i pogrom, come quelli che abbiamo visto la scorsa settimana, che poi spingono l’esercito e il governo a usare ancora più forza nell’espandere il progetto di insediamento coloniale. Solo pochi giorni fa, il Col. (Forze di Riserva) Moshe Hagar, capo dell’accademia premilitare nella colonia di Beit Yatir, ha invocato la distruzione di una città o di un villaggio palestinesi per dare una lezione ai palestinesi. Nel frattempo Bezalel Smotrich che funge sia da Ministro delle Finanze che come Ministro incaricato degli Affari Civili in Cisgiordania, ha definito “sbagliato e pericoloso” qualsiasi paragone tra ciò che ha definito “terrore arabo” e le “contro-operazioni di civili”.

La loro frustrazione oggi è maggiore di quanto non fosse in passato. Negli anni ’80 e ’90 i coloni nei territori occupati si sono trasformati da movimento civile sostenuto dalla classe dirigente in classe dirigente essi stessi. Si sono fatti strada nei livelli esecutivi degli ambiti governativi di amministrazione e sicurezza che controllano la popolazione palestinese e la sua terra. Oggi, sotto l’attuale governo di estrema destra, hanno raggiunto l’apice del potere. Non pensano affatto a riconoscere dei limiti al proprio potere, perché la direzione delle loro ambizioni politiche è diretta e inequivocabile. Non devono ritrarsi.

L’idea di contenere il conflitto per non perdere il controllo – come sperano di fare esercito, Shin Bet e polizia – è per loro inaccettabile, poiché la loro frustrazione è pari al loro estremismo politico e teologico. I coloni stanno spingendo i dirigenti della sicurezza ad agire secondo la visione di Hagar. A differenza dell'”Operazione Scudo Difensivo” – quando l’esercito israeliano distrusse fisicamente e politicamente l’Autorità Nazionale Palestinese nel 2002 attraverso devastanti invasioni urbane – oggi non c’è più una leadership da decimare. L’ANP sotto il presidente Mahmoud Abbas l’ha già fatto per Israele. L’appello della destra israeliana a lanciare “Scudo Difensivo II” è invece un invito a porre i civili palestinesi come obiettivo centrale piuttosto che come semplice e accettabile effetto collaterale.

La fine del conflitto e la soluzione dei due Stati non sono più interessanti per l’opinione pubblica israeliana e per la comunità internazionale. In mancanza di una soluzione – o più precisamente, della volontà di perseguirne una – i governi stranieri, compresi gli Stati arabi, hanno permesso a Israele di creare un regime unico nell’intera area compresa tra il fiume e il mare senza dover dichiarare ufficialmente l’annessione.

Il fatto che due popoli diversi vivano sotto due sistemi di leggi e un unico potere significa che Israele sta attuando pratiche di apartheid, supremazia razziale e governo militare non come una questione di politica estera, ma piuttosto come politica interna.

Questo è il motivo per cui, ad esempio, il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir sta cercando di istituire una propria milizia privata, per avere il potere di sottoporre i cittadini palestinesi di Israele alla detenzione amministrativa e per approfondire la penetrazione dello Shin Bet nella vita dei cittadini palestinesi di Israele. E, sulla scia degli eventi del maggio 2021 [grave esplosione di violenza iniziata il 10 maggio 2021 e continuata fino all’entrata in vigore del cessate il fuoco il 21 maggio, ndt.] l’esercito israeliano ha ora elaborato piani per agire contro i cittadini palestinesi in caso di conflitto.

I dirigenti di Israele si stanno rendendo conto che devono piegare ulteriormente la legge alla loro volontà, altrimenti l’identità dell’intera area tra il fiume e il mare non sarà mai esclusivamente ebraica. E, sfortunatamente, la sinistra ebraica sionista non ha né la visione né il coraggio per impedire questa tendenza.

Menachem Klein è professore di Scienze Politiche all’Università Bar Ilan. È stato consigliere della delegazione israeliana nei negoziati con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina nel 2000 ed è stato uno dei leader dell’Iniziativa di Ginevra. Il suo nuovo libro, Arafat e Abbas: Portraits of Leadership in a State Postponed [Arafat e Abbas: ritratti di leadership in uno Stato rinviato], è stato appena pubblicato da Hurst London e Oxford University Press New York.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Cisgiordania: sviluppo della resistenza armata palestinese nei campi profughi contro i raid israeliani

Leila Warah, Tulkarem, Cisgiordania occupata

24 giugno 2023 – Middle East Eye

Nur Shams a Tulkarem è il più recente campo di rifugiati ad organizzare delle brigate mentre le incursioni israeliane diventano un elemento costante nelle vite dei palestinesi

Un piccolo gruppo di giovani, di cui tre armati di fucili informalmente imbracciati, staziona fuori da un supermercato. Fissano con circospezione qualunque sconosciuto che entri nel campo profughi, stando all’erta per individuare forze israeliane che possano fare irruzione in qualunque momento.

La scena potrebbe facilmente svolgersi a Jenin o Nablus, due città palestinesi nel nord della Cisgiordania occupata che hanno ricevuto attenzione internazionale per la loro resistenza armata contro l’occupazione di Israele.

Benché i giovani siano del nord, non provengono né da Jenin né da Nablus. Vengono dal campo profughi di Nur Shams a Tulkarem, ancora più ad ovest, e sono membri di un gruppo di resistenza armata recentemente creatosi nella zona.

In un vicolo del campo il 24enne leader delle brigate Tulkarem, Mohammad, dice a Middle East Eye di credere che l’occupazione israeliana non abbia lasciato ai giovani della Cisgiordania altra scelta che rivolgersi alla resistenza armata.

L’occupazione israeliana è la nemica di Dio, perciò io lotto per riavere la nostra terra in nome di Dio”, dice. “Il nostro problema non è che loro sono ebrei, è che stanno occupando la nostra terra.

Se vieni da noi con la violenza la nostra unica opzione è rispondere con la violenza. L’occupazione non ci lascia alcuno spazio di mediazione, solo i fucili.”

Una dura realtà e un futuro nero’

Le Brigate Tulkarem sono nate a febbraio e sono sotto il comando delle brigate Al-Quds, l’ala militare del movimento della Jihad islamica.

Sono formate da 15 militanti del campo di Nur Shams di età tra i 16 e i 25 anni, che si impegnano a “difendersi” contro l’occupazione militare di Israele attraverso la resistenza armata. 

Siamo all’inizio della resistenza. Tutto ciò che è accaduto non è che l’inizio. Stanno emergendo nuove generazioni e la libertà sarà nelle loro mani e sarà ottenuta da loro”, dice Mohammad.

La gente del posto dice che il campo profughi di Nur Shams subisce quasi ogni giorno incursioni militari, incluse cinque operazioni su larga scala in questo anno.

Questa generazione è nata in una dura realtà e un nero futuro. Ogni giorno l’occupazione fa incursione nel campo e arresta i loro padri. Uccidono i loro amici e distruggono tutto”, dice a MEE Ibrahim Al-Nimr, di 51 anni, un attivista che lavora per la Società dei Prigionieri Palestinesi.

Il gruppo crea dei posti di blocco a tutte le entrate del campo e le tiene chiuse tra mezzanotte e mezzogiorno per contrastare le frequenti incursioni e neutralizzare agenti israeliani sotto copertura.

Niya Jundi, abitante di Nur Shams, dice che la comunità “incoraggia gli sforzi della giovane e resiliente generazione che vuole vivere in un Paese libero.”

Ovviamente ci sono inconvenienti nella resistenza. Ci rende più difficile accedere ai servizi, ma è un nostro diritto imbracciare le armi finché non saremo liberi dall’occupazione.”

Una rete di resistenza armata

I locali dicono che la nascita della Brigata Tulkarem è stata indotta dal “martirio” dell’abitante di Nur Shams Saif Abu Libda.

Nato e cresciuto nel campo, Abu Libda si è unito alla Brigata Jenin e sperava di portare un giorno la resistenza armata a casa sua a Nur Shams, cosa che avrebbe completato il “triangolo della resistenza del nord” tra Jenin, Nablus e Tulkarem.

Il 2 aprile 2022 le forze israeliane gli hanno teso un’imboscata e lo hanno ucciso insieme a Saeb Abahra, di 30 anni, e Khalil Tawalbeh, di 24, mentre stavano guidando a Jenin. Tutti e tre erano membri delle Brigate Al-Quds, ma al momento sembra che non fossero impegnati in scontri armati.

Tutti i gruppi di resistenza in Cisgiordania sono in contatto tra di loro. Tutti abbiamo lo stesso obbiettivo”, dice Mohammad.

Jamal Huweil, professore di scienze politiche e relazioni internazionali all’università arabo-americana di Jenin, dice che, come Abu Libda, gente da tutta la Cisgiordania – comprese Tubas, Nablus, Balata e Hebron – è andata a Jenin per conoscere la lotta armata.

Con l’intensificarsi della resistenza armata in Cisgiordania, Israele ha ufficialmente dato inizio alla campagna ‘Spezzare l’Onda’ nel marzo 2022, conducendo incursioni militari quasi quotidiane in tutta la Cisgiordania e incrementando la politica di sparare per uccidere, con la conseguenza di arresti di massa e di segnare l’anno più mortale per i palestinesi nei territori occupati dopo la seconda Intifada due decenni fa.

Huweil ritiene che Israele abbia chiamato così l’operazione riferendosi a Jenin, dove è iniziata l’“onda”.

Israele considera il campo profughi di Jenin un’incubatrice di resistenza. L’onda continua ed ha raggiunto Nablus, il campo profughi di Nur Shams a Tulkarem e il campo profughi Aqbat Jabir a Gerico. Jenin è la fonte della resistenza palestinese e a sua volta un problema per Israele”, dice a MEE.

Anche con la crescita della resistenza armata, Huweil specifica che i rapporti di forza tra l’esercito di prima classe di Israele e i giovani militanti siano molto sproporzionati.

Non c’è paragone, quando loro hanno elicotteri Apache, aerei da ricognizione e unità speciali contro un gruppo di combattenti dotati del minimo indispensabile”, dice.

Mentre la resistenza armata palestinese si diffonde, i leader israeliani hanno invocato l’ “Operazione Scudo Difensivo 2”, con riferimento all’invasione militare su larga scala della Cisgiordania nel 2002 durante la seconda Intifada.

Ci sono discussioni interne se Israele debba espandere le proprie operazioni, ma sospetto che, se proseguiranno su questa strada, la resistenza si farà più forte e agguerrita”, dice Huweil.

Coordinamento della sicurezza palestinese e israeliana

Dirigenti palestinesi e israeliani si sono incontrati due volte quest’anno, a Aqabat in Giordania e a Sharm el Sheikh in Egitto, per discutere dell’economia palestinese, del ridimensionamento della violenza e del ruolo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) nel disperdere la resistenza armata in Cisgiordania.

Tuttavia molti palestinesi sono delusi dai colloqui di pace e dalla diplomazia tra dirigenti e denigrano il coordinamento sulla sicurezza tra ANP e Israele per stroncare la resistenza armata, che ha provocato l’insorgere di tensioni in luoghi come Nur Shams.

Il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas non crede nella resistenza armata. Incontra politici israeliani per discutere di situazioni di sicurezza e di economia perché sono fattori che spingono la gente a ribellarsi”, dice Huweil. “Sono spaventati che l’onda del campo di Jenin si allarghi e raggiunga tutta la Cisgiordania, Gaza e il Libano.”

Mohammad dice a MEE che “i colloqui politici non servono a niente. Ci abbiamo provato e sono finiti nel nulla. L’unica strada per riavere la nostra libertà è la forza.”

Sebbene qui l’ANP faccia pressioni sulla resistenza armata, tentando di offrire denaro per abbandonare la resistenza armata ed entrare nella polizia, non concluderà niente”, dice.

L’esercito israeliano non segue le norme internazionali, non segue nessuna regola.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’utilizzo dell’antisemitismo come arma è dannoso per i palestinesi – e per gli ebrei

M Muhannad Ayyash

22 giugno 2023 – Aljazeera

Accuse infondate di antisemitismo rivolte a voci pro-palestinesi e antisioniste stanno ostacolando la lotta per sradicare l’odio antisemita

Il 12 maggio, nel suo discorso in occasione della consegna dei diplomi presso la Facoltà di Giurisprudenza della City University of New York (CUNY), la neolaureata yemenita-americana Fatima Mohammed ha osato parlare in modo onesto e veritiero della difficile situazione dei palestinesi.

La risposta era prevedibile. È stata organizzata e lanciata una campagna per intimidirla, attaccarla e metterla a tacere denunciando il suo acuto discorso come “antisemita”. Piattaforme di destra come il New York Post e Fox News hanno amplificato queste accuse infondate. I politici – sia repubblicani che democratici – si sono uniti all’insensato bullismo verso la giovane laureata e i parlamentari statali repubblicani hanno persino chiesto il ritiro dei fondi dalla CUNY per averle offerto una ribalta.

CUNY ha rapidamente ceduto alla pressione. Il 30 maggio il suo consiglio di amministrazione ha rilasciato una dichiarazione in cui ha condannato le parole di Mohammed come “incitamento all’odio”.

Ovviamente nulla di ciò che Fatima ha detto quel giorno era carico di odio o falso. Tutto ciò che ha detto era basato sui fatti e guidato da un desiderio di giustizia e decolonizzazione. Ogni affermazione fatta nel suo discorso di apertura può essere trovata in articoli di riviste scientifiche specializzate, in libri accademici di esperti di fama mondiale o nella realtà quotidiana di milioni di palestinesi.

Nell’ascoltare il suo discorso ci si accorge che in realtà non ha detto assolutamente nulla sull’identità o sul popolo ebraico. A tale proposito non ha fatto menzione della vita ebraica negli Stati Uniti, in Canada, nel Regno Unito, in Francia o persino in Israele. Il suo discorso ha riguardato lo Stato israeliano, i suoi fondamenti e pratiche coloniali e l’egemonia imperiale degli Stati Uniti di cui Israele è parte.

Anche se non si è d’accordo con le sue opinioni, ci si deve chiedere: cosa ha a che fare una tale critica con l’identità ebraica? Ci viene costantemente detto che non dovremmo mai confondere la vita ebraica, ad esempio, a New York, con lo Stato israeliano. E sono totalmente d’accordo con questo. Assumere che una persona ebrea a New York sia “fedele” ad Israele – o risponda delle sue azioni – è indubbiamente antisemita. Ma sfortunatamente quell’associazione è precisamente ciò che le campagne dei gruppi filo-israeliani e sionisti hanno reso aderente al senso comune all’interno del dibattito pubblico in Occidente. Ora, come risultato diretto di tali campagne, ogni volta che qualcuno osa criticare Israele in pubblico, e specialmente quando quella persona è associata a un’istituzione pubblica come un’università, viene accusato di aver lanciato un attacco antisemita contro la comunità ebraica locale.

La prima conseguenza di ciò è che le voci che parlano dei problemi del popolo palestinese e delle sue aspirazioni alla libertà e alla liberazione sono etichettate come “antisemite” e quindi condannate e censurate. Ciò può avere conseguenze disastrose per la vita e la sussistenza di questi individui e contribuisce notevolmente all’emarginazione delle comunità palestinesi e arabe in Occidente creando la percezione che queste comunità siano intrinsecamente cariche di odio.

Ma adesso, grazie al coraggio di persone come Fatima che continuano a parlare a favore della Palestina nonostante conoscano il pesante tributo che pagheranno, molti negli Stati Uniti e altrove percepiscono le vere intenzioni di queste campagne e riconoscono in tali casi l’infondatezza dell’accusa di antisemitismo. Nel caso del discorso di Fatima, ad esempio, l’enorme applauso che ha ricevuto al termine dimostra da solo che i suoi coetanei, che l’hanno scelta per tenere il discorso per prima, non percepiscono le sue opinioni come antisemite.

C’è però un’altra conseguenza altrettanto preoccupante e dannosa delle infondate accuse di antisemitismo rivolte alle voci filo-palestinesi: esse rendono meno convincenti tutte le accuse di antisemitismo, comprese quelle molto reali.

In effetti, accusare di antisemitismo tutti coloro che criticano gli interventi coloniali di Israele è estremamente pericoloso perché alla fine ciò indurrà, se non è già successo, ad iniziare a mettere in dubbio l’esistenza stessa del male sociale molto reale, dannoso e pervasivo che è l’antisemitismo.

In questo contesto, nonostante pochi difetti, la Strategia Nazionale Statunitense per Contrastare l’Antisemitismo recentemente pubblicata sembra essere un passo nella giusta direzione. La strategia si concentra giustamente su esempi di antisemitismo derivanti dalle teorie del complotto sul “potere e controllo ebraico” e separa persino quello che chiama “antisemitismo domestico” dall’antisemitismo globale. Elenca di sfuggita gli “sforzi per delegittimare lo Stato di Israele” come esempio di antisemitismo globale (un’affermazione con cui sono totalmente in disaccordo per le ragioni sopra esposte) ma a parte ciò menziona a malapena Israele poiché si concentra su veri e propri atti di antisemitismo piuttosto che su accuse politicamente motivate volte a proteggere Israele dalle critiche.

Per questo motivo credo che questa nuova strategia possa effettivamente aiutare a ridurre la nuova e reale ondata di antisemitismo in America.

Oggi, mentre i gruppi filo-israeliani si concentrano sul diffamare qualsiasi critica di sinistra del colonialismo di insediamento come “antisemita”, la destra sta rapidamente normalizzando le vecchie teorie del complotto antisemita sul “potere e controllo ebraico”.

In effetti negli Stati Uniti la politica di destra, sempre più estremista, è ora piena di cospirazioni da parte dei “globalisti” che starebbero conquistando il mondo, gestirebbero vaste cerchie di pedofili, priverebbero la gente comune delle loro libertà, commetterebbero omicidi di massa con vaccini e così via. Ovviamente globalista” per queste persone è solo una parola in codice per ebreo”.

È fondamentale che tali idee pericolose siano adeguatamente etichettate come antisemite e contrastate efficacemente, per la sicurezza e il benessere del popolo ebraico e della società in generale. Ma più la lobby israeliana e altri gruppi sionisti usano come arma l’antisemitismo per permettere allo Stato israeliano di consolidare ed espandere la sua colonizzazione della Palestina, meno efficace diventa la lotta contro il vero antisemitismo.

Oltre a diluire l’accusa di antisemitismo, l’uso dell’antisemitismo come arma ha una terza conseguenza: impedisce un’autentica discussione sull’intersezionalità tra la lotta contro l’antisemitismo e altre lotte antirazziste, comprese quelle contro il razzismo anti-palestinese e l’islamofobia.

In effetti, il discorso di Fatima avrebbe dovuto essere l’occasione per iniziare una discussione in proposito. Dopotutto, il percorso da lei suggerito verso la liberazione palestinese – la caduta dell’impero – è anche l’unico percorso per liberare il nostro mondo dall’odio vile che è l’antisemitismo, che è stato essenziale per la formazione dello stesso impero. In questo contesto, censurare e marchiare come antisemita il discorso di Fatima e di altre voci palestinesi e antisioniste serve a ostacolare non solo la liberazione palestinese, ma anche gli sforzi per contrastare tutte le altre conseguenze interconnesse della modernità coloniale, compreso l’antisemitismo.

Pertanto, tutti gli studiosi, gli attivisti e chiunque altro sia interessato a porre fine a tutte le diverse forme di razzismo e odio che stanno paralizzando vite e mezzi di sussistenza in tutto il mondo dovrebbero vedere l’accusa di antisemitismo rivolta a Fatima per quello che realmente è: un pericoloso attacco alla verità, alla giustizia, all’antirazzismo e alla decolonizzazione.

Le opinioni espresse in questo articolo sono proprie dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

M Muhannad Ayyash

Professore di Sociologia alla Mount Royal University di Calgary, Canada.

Ayyash è l’autore di A Hermeneutics of Violence (UTP, 2019) e analista politico presso Al-Shabaka, il Policy Network Palestinese. È nato e cresciuto a Silwan, Al-Quds (Gerusalemme), prima di immigrare in Canada, dove ora è professore di sociologia alla Mount Royal University. Attualmente sta scrivendo un libro sulla supremazia del colonialismo di insediamento.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Palestinese ucciso in un attacco di coloni in un villaggio della Cisgiordania

Redazione Al Jazeera

21 giugno 2023 – Al Jazeera

Gli abitanti di Turmus Ayya dicono che 400 coloni hanno marciato lungo la strada principale del villaggio dando fuoco a automobili, case e alberi.

Mentre si intensifica la violenza nei territori occupati, il giorno dopo che un miliziano di Hamas ha ucciso quattro israeliani, un palestinese è stato colpito a morte in un villaggio della Cisgiordania attaccato dai coloni.

Omar Qattin, di 27 anni, è stato ucciso quando centinaia di coloni israeliani mercoledì hanno assalito il villaggio di Turmus Ayya ed hanno incendiato decine di auto e case.

Qattin aveva due figli e lavorava come elettricista per il comune.

Stava semplicemente là, inoffensivo. Era un bravo ragazzo. Non aveva pietre. Era del tutto disarmato. Si trovava almeno a un chilometro di distanza dai soldati”, dice Khamis Jbara, un suo vicino. “Lavorava dalle 6 del mattino alle 6 del pomeriggio. Era un uomo pacifico.”

Non è chiaro se Qattin sia stato ucciso da un colono o da un soldato. I testimoni hanno detto ai media locali che parecchi coloni hanno sparato contro gli abitanti del villaggio mentre un forte contingente di truppe israeliane vi faceva irruzione.

La Mezzaluna Rossa ha detto all’agenzia di notizie palestinese Wafa che molti coloni hanno impedito alle ambulanze di raggiungere la cittadina per curare i feriti.

Terrorismo appoggiato dal governo’

Abitanti palestinesi e associazioni per i diritti umani denunciano da tempo l’incapacità o la non volontà di Israele di fermare gli attacchi dei coloni. Quanto all’assalto di mercoledì, gli abitanti di Turmus Ayya hanno detto che circa 400 coloni hanno marciato lungo la via principale, incendiando auto, case e alberi.

Il sindaco Lafi Adeeb ha detto alla Wafa che 12 abitanti sono stati feriti da proiettili veri e più di 60 veicoli e 30 case sono stati dati alle fiamme.

Un’ora fa gli attacchi sono aumentati anche dopo che è arrivato l’esercito”, ha detto.

I coloni hanno incendiato anche vaste aree di terreni agricoli, ha aggiunto Adeeb.

Ha chiesto alla comunità internazionale di dare protezione ai palestinesi, sottolineando che Turmus Ayya è circondato da parecchi insediamenti illegali ed è quotidianamente esposto agli attacchi dei coloni.

Per il diritto internazionale le colonie israeliane sono illegali. Tuttavia il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato piani per la costruzione di 1.000 nuove unità abitative nella colonia di Eli in risposta all’uccisione nelle sue vicinanze di quattro israeliani da parte di due palestinesi armati nella giornata di martedì. I sospetti aggressori sono stati in seguito uccisi.

La nostra risposta al terrorismo è colpirlo duramente e costruire il nostro Paese”, ha detto Netanyahu, il cui governo di estrema destra è dominato da leader e sostenitori dei coloni.

La sua affermazione è giunta giorni dopo che il governo ha dato al Ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich pieni poteri per accelerare la costruzione di insediamenti illegali, eludendo le misure in vigore da 27 anni.

Spianare la strada’

Le violenze di martedì hanno fatto seguito ad una sanguinosa incursione il giorno prima da parte delle forze israeliane nel campo profughi di Jenin, in cui sono stati uccisi sette palestinesi e almeno 90 sono stati feriti in scene mai viste dallo scoppio della seconda Intifada, più di 20 anni fa.

Mercoledì a Jenin ragazze in uniforme scolastica hanno trasportato il corpo del loro compagno ucciso nel raid israeliano. Sadil Naghnaghiya, di 15 anni, è morto per le ferite da colpi di fucile subite durante l’attacco durato ore, ha affermato il Ministero della Sanità palestinese.

Gli abitanti palestinesi di Turmus Ayya, noto per l’alto numero di cittadini statunitensi, erano adirati e scioccati dopo la violenza dei coloni.

Le strade erano ingombre di alberi sradicati, mobili da giardino bruciati e scheletri di veicoli incendiati. Almeno una casa è stata completamente divorata dalle fiamme, il soggiorno annerito e i mobili ridotti in cenere.

È stato terrificante. Abbiamo visto per strada gruppi di persone mascherate e armate”, afferma Mohammed Suleiman, un palestinese americano di 56 anni che vive a Chicago ed era in visita nel suo paese natale.

Dice che suo fratello, che si trova attualmente a Chicago, è il proprietario di una delle case bruciate.

Suleiman accusa l’esercito israeliano di non aver disinnescato la situazione, sostenendo che i soldati hanno puntato le armi contro gli abitanti palestinesi invece che contro i facinorosi che marciavano nella città con fucili e bombe molotov, gettando benzina e dando fuoco ad ogni cosa sul loro cammino.

L’esercito ha letteralmente spianato loro la strada”, dice Suleiman.

Abdulkarim Abdulkarim, un residente dell’Ohio di 44 anni, afferma che le quattro auto della sua famiglia sono state distrutte e la loro casa danneggiata. “Ci sentiamo completamente in pericolo”, dice, visibilmente scosso. “Ci chiamano terroristi, ma qui c’è il terrorismo sostenuto dal governo.”

Crimine odioso’

Gli attacchi dei coloni hanno riportato alla memoria l’assalto di febbraio, in cui decine di auto e case sono state incendiate nella cittadina di Huwara dopo l’uccisione di due fratelli israeliani da parte di un uomo armato palestinese.

Le organizzazioni palestinesi hanno condannato la violenza a Turmus Ayya.

L’aggressione da parte di bande di coloni terroristi pesantemente armati contro i nostri villaggi e città palestinesi che terrorizzano i cittadini inermi costituisce una pericolosa escalation e un crimine odioso che viene perpetrato con l’incitamento e il sostegno del governo fascista di occupazione, che ha la piena responsabilità per le sue conseguenze”, ha affermato in una dichiarazione Hamas, che governa la Striscia di Gaza.

Da parte sua il partito Fatah, che guida l’Autorità Nazionale Palestinese, ha chiesto ai palestinesi di “affrontare i sistematici attacchi dei coloni che sono condotti con la complicità dell’esercito di occupazione”, sottolineando che la violenza dimostra che il governo israeliano, che è composto da “accaniti coloni ed estremisti”, intende provocare un’escalation.

Il portavoce della Jihad Islamica palestinese Jihad Selmi ha affermato che le colonie illegali sono “un legittimo obbiettivo della resistenza” ed ha definito gli attacchi israeliani “terrorismo crescente”.

L’esercito israeliano non ha rilasciato dichiarazioni.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




A Jenin un imponente raid israeliano uccide cinque palestinesi e ne ferisce decine*

Fayha Shalash a Ramallah, Palestina occupata e Elis Gjevori a Istanbul, Turchia

19 giugno 2023 – Middle East Eye

Il ministero della Sanità palestinese afferma che una ragazza di 15 anni si trova in condizioni critiche dopo essere stata colpita alla testa

 

Lunedì mattina un imponente raid israeliano nella città occupata di Jenin, in Cisgiordania, ha ucciso almeno cinque palestinesi e ne ha feriti 91, di cui 18 si trovano in condizioni critiche.

*Al 22 giugno i morti sono saliti a sette. [ndr]

Il ministero della Sanità palestinese ha identificato le persone uccise come Khaled Azzam Darwish di 21 anni, Ahmed Youssef Saqr, di 15, Qassam Faisal Abu Sariya, di 29 e Qais Majdi Jabareen, di 21, tutti di Jenin. L’identità della quinta vittima non è ancora nota.

Il ministero della Sanità palestinese ha anche riferito che una ragazza di 15 anni è stata colpita alla testa dalle forze israeliane ed è stata trasferita all’ospedale governativo di Jenin. Pare che si trovi in condizioni critiche. 

Secondo il sito di notizie palestinese Arab48 e il quotidiano israeliano Haaretz almeno otto soldati israeliani sarebbero stati feriti, alcuni dei quali gravemente, sebbene ciò non sia stato confermato da Israele.

Nell’ultimo anno Jenin è stata un obiettivo abituale degli attacchi israeliani in Cisgiordania.

Nelle prime ore di lunedì una grande quantità di forze israeliane ha preso d’assalto la città nel nord della Cisgiordania col dispiegamento di cecchini su alcune case; in diverse zone sono scoppiati violenti scontri, durante i quali i soldati israeliani hanno sparato proiettili veri, granate assordanti e gas lacrimogeni e sono stati utilizzati elicotteri d’attacco.

Lo scopo dichiarato del raid era arrestare l’attivista di Hamas di 36 anni Assem Abu al-Haija, abitante nel quartiere di Jabriyat, alla periferia di Jenin. Dopo il suo arresto e il ritiro dei veicoli militari, i combattenti palestinesi hanno fatto detonare un ordigno esplosivo sotto le jeep militari ferendo diversi soldati israeliani.

Banan Abu al-Haija, la sorella di Assem, ha detto che i soldati israeliani hanno brutalmente fatto irruzione nella sua casa alle 5 del mattino ora locale e lo hanno arrestato. Il raid è durato due ore e mezza, ha affermato.

Decine di soldati hanno circondato la casa di mio fratello e fatto saltare in aria la porta d’ingresso, poi si sono sparpagliati per tutta la casa. Hanno stipato sua moglie incinta e due bambini (di sei e quattro anni) in una stanza, hanno portato lui in un’altra stanza e hanno iniziato ad interrogarlo”, riferisce Banan a Middle East Eye.

Racconta che durante l’interrogatorio nella casa c’era un gran numero di soldati. Hanno rotto dei mobili e strappato le foto del padre di Abu al-Haija, che è stato imprigionato nelle carceri israeliane per 20 anni, e di suo fratello, Hamza, ucciso dai soldati diversi anni fa.

“Hanno sequestrato tutte le chiavi della casa. I soldati continuavano ad urlare e a insultare sua moglie e i suoi figli, che piangevano per la paura. Poi hanno arrestato Assem e lo hanno trasferito in un luogo sconosciuto“, racconta Banan.

Questa è la quinta volta che Assem viene arrestato. È stato rilasciato dalla prigione israeliana solo sei mesi fa ed è stato in carcere per un totale di sette anni.

“Le forze di occupazione hanno perso la testa

Sari Samour, 49 anni, residente nel quartiere di al-Zahraa, adiacente al campo profughi di Jenin, ha detto che le sirene di allarme hanno suonato nel campo dopo la fine della preghiera dell’alba. Le sirene vengono solitamente fatte suonare dai combattenti della resistenza palestinese per avvertire di un’incursione israeliana.

Dopo aver incontrato resistenza sul posto “le forze di occupazione hanno perso la testa”, riferisce Samor a MEE.

“Hanno iniziato a sparare alla cieca contro le case, compresa quella del mio vicino, la cui figlia, Sadeel, di 15 anni, era seduta nella sua stanza. Qualche istante dopo abbiamo sentito un urlo dalla loro abitazione e siamo usciti tutti per vedere cosa fosse successo, per scoprire che la ragazza era stata colpita alla testa. È ancora in gravi condizioni e la sua vita è in pericolo”, aggiunge.

Secondo gli abitanti di Jenin, i successivi rinforzi militari israeliani, provenienti dalle basi nel nord della Cisgiordania, sono stati molto consistenti.

Per la prima volta dal 2006, durante la Seconda Intifada, Israele ha anche utilizzato elicotteri Apache per colpire obiettivi palestinesi.

“Ogni persona che si muove viene colpita, la vita viene sconvolta, le scuole vengono chiuse, persino le ambulanze vengono prese di mira da colpi di arma da fuoco. Il gran numero di martiri e feriti dimostra che a Jenin i soldati israeliani si stanno comportando in modo folle”, dice Samour.

Tra i feriti c’è un giornalista palestinese, Hazem Nasser, cameraman del canale televisivo Al-Ghad.

Il video del momento in cui Nasser, che portava in evidenza il contrassegno della stampa, è stato colpito sta circolando online. Nasser è stato infine trasferito all’ospedale Ibn Sina, in Cisgiordania.

Secondo il ministero della Sanità le lesioni di Nasser “sono di entità tra media e grave”.

I filmati che circolano online mostrano veicoli dell’esercito israeliano che vengono colpiti da una violenta sparatoria con esplosioni in sottofondo. Un altro video mostra una jeep militare israeliana di fronte a quello che sembra un ordigno esplosivo improvvisato.

Un breve video online mostra un elicottero d’attacco israeliano che spara contro obiettivi nella città.

L’esercito israeliano usa raramente velivoli nelle sue operazioni nella Cisgiordania occupata. I media israeliani hanno riferito che è stato il primo utilizzo di un elicottero d’attacco nel territorio dalla rivolta palestinese, all’inizio degli anni 2000.

Lunedì un portavoce dell’esercito israeliano ha affermato che le forze militari sono entrate in città per arrestare dei ricercati palestinesi. Durante l’operazione “si sono verificati violenti scontri a fuoco e sono stati lanciati ordigni esplosivi improvvisati contro i militari che hanno risposto sparando”, ha riferito.

Nell’ultimo anno le tensioni in Cisgiordania sono aumentate, con le forze israeliane che effettuano quasi ogni notte incursioni che sfociano in scontri con i gruppi della resistenza palestinese.

Le forze e i coloni israeliani hanno ucciso quest’anno almeno 161 palestinesi, tra cui 26 minorenni.

In totale sono state registrate 127 vittime in Cisgiordania e Gerusalemme Est e altre 34 nella Striscia di Gaza.

Nello stesso periodo i palestinesi hanno ucciso almeno 20 israeliani.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La furia dei coloni israeliani incendia le città palestinesi

Redazione di Middle East Eye

21 giugno 2023 – MiddleEastEye

Nella Cisgiordania occupata almeno 34 palestinesi sono stati feriti e più di 140 veicoli dati alle fiamme dai coloni inferociti

Martedì notte i coloni israeliani si sono scatenati in diverse città palestinesi della Cisgiordania incendiando auto, bruciando terreni agricoli e vandalizzando case – scene che ricordano il pogrom all’inizio di quest’anno nel villaggio di Huwwara.

Mercoledì i coloni hanno attaccato la città di Turmusaya, a sud di Huwwara, incendiando veicoli, case e terreni agricoli.

Martedì scorso i coloni sono calati su Luban a-Sharqiya, Huwwara, Beit Furik, Burin e su altre città a sud di Nablus bloccando le strade, lanciando sassi al traffico di passaggio e terrorizzando le comunità palestinesi.

Secondo i funzionari palestinesi almeno 34 palestinesi sono rimasti feriti e almeno 140 veicoli sono stati dati alle fiamme, inclusa un’ambulanza.

L’agenzia di stampa palestinese Wafa ha riferito casi di palestinesi derubati da coloni e di un ragazzo di 12 anni che è stato picchiato.

La casa di Ziyad Ghalib, abitante di Huwwara, era stata bruciata dai coloni durante il precedente pogrom di febbraio. Quella volta lui e la sua famiglia erano a casa quando gli israeliani hanno appiccato il fuoco, rischiando di morire soffocati dal fumo prima di scappare appena in tempo.

Secondo quanto ha detto a MEE, con l’assalto di martedì è la quarta volta che sono stati attaccati.

“Nessuno è venuto a controllare, c’è stata una modesta copertura mediatica ma a parte questo niente”, afferma.

Nessuno ci ha dato alcuna precedenza [nelle notizie, ndt] o importanza, le nostre vite sembrano prive di valore. La realtà è che a nessuno importa di noi, e non stiamo esagerando”.

Ghalib e la sua famiglia ora alloggiano in un’altra casa a Huwwara, che fortunatamente questa volta non era vicina agli attacchi dei coloni. Tuttavia, l’auto di un parente è stata incendiata.

Dice che non si sente più al sicuro a Huwwara.

Mia figlia di nove anni è terrorizzata. Non sappiamo cosa fare, possiamo solo affidarci a Dio”, ha detto.

Puoi andare normalmente in giro e un colono ti attacca o cerca di investirti con la macchina. È molto difficile vivere così”.

La furia dei coloni di martedì si è scatenata poche ore dopo che quattro coloni israeliani sono stati uccisi in una sparatoria nei pressi dell’insediamento israeliano illegale di Eli, nella Cisgiordania centrale.

Due uomini armati sono stati identificati dai media palestinesi come Muhannad Faleh Shehadeh e Khaled Mustafa Sabah, entrambi del villaggio di Orif a sud di Nablus.

Shehadeh è stato ucciso sul posto. Sabah è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco nella vicina Toubas, ha riferito l’agenzia di sicurezza interna israeliana dello Shin Bet.

Le forze israeliane sono arrivate in alcune aree nel tentativo di reprimere la violenza dei coloni. Haaretz ha riferito che i coloni hanno attaccato anche alcuni soldati israeliani, costringendoli a sparare colpi di avvertimento in aria.

La polizia israeliana ha annunciato che avrebbe dispiegato più agenti sulle strade principali della Cisgiordania, con particolare attenzione alle “aree sensibili”.

L’attacco ai coloni israeliani era avvenuto dopo che lunedì le forze israeliane avevano ucciso almeno sette palestinesi, tra cui tre adolescenti, in un raid nella città di Jenin in Cisgiordania.

A Huwwara martedì una folla di coloni ha incendiato automobili e danneggiato proprietà palestinesi. Secondo Wafa alcuni hanno anche aperto il fuoco sui palestinesi.

A febbraio Huwwara e le aree circostanti sono state teatro di una terrificante furia da parte di coloni israeliani, che hanno ucciso un palestinese e ferito quasi altri 400.

Le auto bruciate dall’attacco dei coloni nella zona di Lubban al Gharbi

All’epoca il Ministro delle Finanze israeliano di estrema destra Bezalel Smotrich invitò l’esercito israeliano a “colpire le città palestinesi con carri armati ed elicotteri, senza pietà, in modo che si capisca che il padrone di casa è fuori di sé”.

Dopo il raid di lunedì a Jenin, Smotrich ha twittato: “È giunto il momento di sostituire le operazioni chirurgiche con una campagna ad ampio raggio per sradicare i nidi del terrore”.

Quest’anno l’esercito e i coloni israeliani hanno ucciso almeno 163 palestinesi, tra cui 27 minorenni. Un totale di 129 vittime sono state registrate in Cisgiordania e Gerusalemme Est e altre 34 nella Striscia di Gaza.

Nello stesso periodo i palestinesi hanno ucciso almeno 24 israeliani.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

 




Il capo delle Nazioni Unite dice a Israele di fermare gli insediamenti illegali in Palestina

Redazione di Al Jazeera

20 giugno 2023- Al Jazeera

Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres afferma che la costruzione di insediamenti israeliani illegali su territorio palestinese provocherà “tensioni e violenze”.

Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha esortato Israele a “cessare immediatamente tutte le attività di insediamento” nel territorio palestinese occupato, definendo il piano di Israele di procedere alla costruzione di colonie israeliane una fonte di “tensioni e violenza” e un grave ostacolo ad una pace duratura.

Il commento del capo delle Nazioni Unite arriva dopo che cinque palestinesi– tra cui un ragazzo di 15 anni – sono stati uccisi e più di 90 sono rimasti feriti negli scontri più feroci degli ultimi anni scoppiati lunedì quando le forze israeliane hanno fatto irruzione nel campo profughi di Jenin nella Cisgiordania occupata. [il dato aggiornato è di 7 morti ndr]

Primo caso del genere in quasi 20 anni, Israele ha inviato elicotteri da combattimento che hanno sparato razzi contro degli obiettivi nel campo di Jenin, mentre i militanti palestinesi hanno combattuto per ore con armi leggere e ordigni esplosivi mettendo fuori uso diversi veicoli militari israeliani intrappolando i militari all’interno. Otto soldati israeliani sono rimasti feriti negli scontri durati quasi 10 ore secondo i testimoni.

“Il Segretario Generale ribadisce che le colonie sono una flagrante violazione del diritto internazionale”, ha dichiarato lunedì Farhan Haq, vice portavoce del Segretario Generale.

L’espansione di queste colonie illegali è una notevole causa di tensioni e violenze e accresce i bisogni umanitari”, ha affermato Haq.

“Rafforza ulteriormente l’occupazione israeliana del territorio palestinese, invade la terra palestinese e le risorse naturali, ostacola la libera circolazione della popolazione palestinese e mina i legittimi diritti del popolo palestinese all’autodeterminazione e alla sovranità”, ha affermato il capo delle Nazioni Unite, secondo Haq.

Haq ha affermato che Guterres è apparso “profondamente turbato” dalla decisione di Israele di modificare le procedure di pianificazione degli insediamenti per accelerare i progetti di nuove colonie nella Cisgiordania occupata, inclusa Gerusalemme est, nonché dallo sviluppo di oltre 4.000 unità abitative nelle colonie da parte dell’autorità di pianificazione israeliana.

Domenica scorsa il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha approvato piani per migliaia di nuove unità abitative nella Cisgiordania occupata, conferendo al ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich ampi poteri per accelerare la costruzione di colonie che secondo il diritto internazionale sono illegali.

I piani per l’approvazione di 4.560 unità abitative in varie aree della Cisgiordania sono stati inseriti nell’agenda del Consiglio supremo di pianificazione israeliano che si riunirà la prossima settimana.

L’espansione delle colonie israeliane sembra mettere Netanyahu in rotta di collisione con il suo più stretto alleato, gli Stati Uniti, che si sono detti “profondamente turbati” dal piano di espansione delle colonie e dalle notizie di modifiche ai processi di pianificazione e approvazione delle colonie nei territori palestinesi occupati.

Le associazioni palestinesi hanno anche espresso profonda preoccupazione per il fatto che l’intera Cisgiordania possa presto finire sotto il controllo israeliano.

Il Ministro degli Esteri palestinese ha affermato che approvare l’incremento di colonie è una “pericolosa corsa a completare l’annessione della Cisgiordania”.

Khaled Elgindy, membro senior del Middle East Institute [think tank e centro culturale senza scopo di lucro e apartitico, ndt.] con sede a Washington, ha dichiarato ad Al Jazeera che le gravi affermazioni del capo delle Nazioni Unite ora devono essere sostenute da azioni sul campo.

“Le azioni di questo governo israeliano hanno accelerato praticamente ogni possibile tendenza negativa, dalla violenza sul terreno all’espansione delle colonie, agli sgomberi, alla costruzione e all’allargamento delle colonie”, ha detto Elgindy.

“A meno che tali dure parole non siano seguite da una qualche azione da parte degli attori principali come gli Stati Uniti o l’Unione Europea, una sorta di conseguenza a quelle azioni, allora saranno semplicemente ignorate come lo sono sempre state”, ha affermato.

“È davvero necessaria un’azione sul campo per sostenere quelle parole forti, e non abbiamo visto niente”, ha aggiunto.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)