Le autorità giudiziarie di Israele “consentono l’incitamento” contro i cittadini palestinesi

Redazione di MEE

1 agosto 2022 – Middle East Eye

L’associazione di solidarietà Israel Religious Action Center afferma che la carente applicazione della legge “mette a rischio vite umane”.

Una nuova ricerca dell’Israel Religious Action Center [Centro per l’Azione Religiosa in Israele, organizzazione che promuove diritti, pluralismo politico e religioso e giustizia per tutti in Israele, ndt.] (IRAC) ha scoperto che i cittadini palestinesi di Israele subiscono un numero significativamente maggiore di incriminazioni, condanne e pene per incitamento alla violenza rispetto ai loro connazionali ebrei.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, il centro con sede a Gerusalemme afferma che la disparità di trattamento è causata da “lungaggini e ritardi” nell’azione penale quando si tratta di incitamento da parte di ebrei, aggiungendo che “i dati mostrano chiaramente una politica di insufficiente applicazione della legge.”

Il rapporto, che riguarda gli anni dal 2014 al 2021, afferma che il 77% del totale delle incriminazioni per incitamento alla violenza e al razzismo è stato presentato contro cittadini palestinesi di Israele, che rappresentano solo il 20% della popolazione del Paese.

Il 51% di queste è stato presentato entro un mese dal presunto reato, mentre il 42% dei rinvii a giudizio contro ebrei israeliani è stato presentato a due anni dai fatti.

Quando si tratta di condanne, solo due casi di denunce contro cittadini palestinesi non sono terminati con una condanna, rispetto a un terzo delle incriminazioni contro ebrei.

La stessa tendenza è evidente anche nelle sentenze.

Circa il 99% dei cittadini palestinesi condannati in base a denunce per incitamento è stato condannato al carcere, mentre circa il 54% degli ebrei non è stato condannato a pene carcerarie.

Inoltre in sette su 13 casi in cui ebrei sono stati condannati al carcere i tribunali hanno sentenziato che il periodo di detenzione poteva essere sostituito da lavoro socialmente utile. Solo a un cittadino palestinese su 69 condannati alla prigione è stato concesso di fare lavoro per la comunità.

Il rapporto, basato su risposte del ministero della Giustizia a richieste sulla base della libertà d’informazione, ha anche evidenziato l’inazione delle autorità giudiziarie riguardo a indagini su figure pubbliche.

L’IRAC sostiene di aver presentato 114 richieste perché personalità famose venissero indagate per incitamento, ma solo otto sono state incriminate nei sette anni analizzati. Di queste sei erano cittadini palestinesi, compresi cinque predicatori imputati per sermoni religiosi.

Violento e incontrollato incitamento di rabbini”

Stilato dagli avvocati Ori Narov e Orly Erez-Likhovski, il rapporto dell’IRAC sostiene che la mancanza di incriminazioni contro rabbini che avrebbero incitato alla violenza, rispetto ai religiosi musulmani, dimostra che nel Paese la legge non viene applicata in modo equo.

Il sistema giudiziario soffre di “un lungo e assordante silenzio riguardo al violento e incontrollato incitamento da parte di rabbini che pretendono di basarsi sulla legge ebraica,” afferma.

Il centro sottolinea di non chiedere minori incriminazioni di palestinesi che facciano “gravi affermazioni che giustificano la presentazione di denunce,” ma piuttosto di fare altrettanto con gli ebrei accusati di fare dichiarazioni simili.

Esso accusa la lacunosa applicazione delle leggi contro l’incitamento da parte dei pubblici ministeri di “(consentire) a molti attivisti provocatori di continuare ad incitare come vogliono senza essere chiamati a risponderne. Questa situazione inquina il dibattito pubblico e mette in pericolo vite umane.”

Una delle due personalità pubbliche ebraiche israeliane incriminata è Bentzi Gopstein, fondatore e leader dell’associazione di estrema destra “Lehava” [nota organizzazione suprematista ebraica, ndt.].

Gopstein è stato accusato di incitamento alla violenza, razzismo e terrorismo nel 2019, nove anni dopo la presentazione delle prime denunce contro di lui. L’accusa nei suoi confronti ha citato varie affermazioni da lui fatte tra il 2012 e il 2017, compresi i suoi riferimenti ai palestinesi come a un “cancro”, e le sue lodi a Baruch Goldstein, un colono americano-israeliano di estrema destra che nel febbraio 1994 uccise 29 fedeli palestinesi nella moschea di Ibrahim a Hebron.

Uno dei casi di maggior rilievo tra i cittadini palestinesi è quello della poetessa Dareen Tatour. La scrittrice, che vive a Nazareth, è stata condannata a cinque mesi di prigione per una poesia da lei postata su Facebook nel 2015 intitolata “Resisti, mio popolo, resisti a loro”, così come per altri post riguardanti la resistenza palestinese.

[Vedi l’articolo di Zeitun ]Il caso di Tatour ha conquistato il sostegno internazionale, molti critici hanno accusato Israele di limitare la libertà di espressione dei palestinesi. PEN International [associazione internazionale di scrittori che promuove gli scambi culturali nel mondo, ndt.], che nel 2019 ha concesso a Tatour il premio Oxfam Novib/PEN International per la libertà di espressione, ha affermato che è “stata condannata per aver fatto quello che gli scrittori fanno quotidianamente: usare le nostre parole per lottare pacificamente contro l’ingiustizia.”

Durante il suo processo oltre 150 personalità letterarie statunitensi, tra cui Alice Walker, Claudia Rankine, Naomi Klein e Jacqueline Woodson, hanno chiesto a Israele di liberare Tatour.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’ONU afferma che se la questione palestinese non viene affrontata, le prospettive della soluzione a due Stati si deterioreranno ulteriormente

 

Redazione di MEMO

Mercoledì 27 luglio 2022 – Middle East Monitor

Martedì un’importante funzionaria dell’ONU ha messo in guardia il Consiglio di Sicurezza che se la questione palestinese non viene affrontata, le prospettive per la soluzione a due Stati “peggioreranno ulteriormente”.

“Sono necessarie immediate azioni per invertire la tendenza negativa e supportare il popolo palestinese”, ha sottolineato Lynn Hastings, la vicepresidente dell’ufficio del coordinatore speciale ONU per il processo di pace in Medioriente. Parlando a nome del coordinatore speciale Tor Wennesland, Hastings ha aggiunto: “Non c’è un’alternativa per un legittimo processo politico che risolva le questioni alla base del conflitto. Dobbiamo focalizzarci sul raggiungimento dell’obiettivo definitivo: due Stati che convivano fianco a fianco in pace e sicurezza, in linea con le risoluzioni ONU, con gli accordi precedenti e con il diritto internazionale.”

Ha puntualizzato che “per anni le espansioni delle colonie illegali nella Cisgiordania occupata hanno progressivamente ridotto il territorio palestinese ed eroso le prospettive per uno Stato palestinese praticabile, dato che la violenza contro i civili inasprisce la sfiducia e provoca un crescente mancanza di speranza in quanto uno Stato, la sovranità e un futuro di pace stanno stanno svanendo.”

La funzionaria dell’ONU ha riportato il numero di palestinesi uccisi e feriti dall’occupazione israeliana durante il periodo del suo rapporto. Allo stesso tempo ha raccontato che le pallottole usate per uccidere la giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh sono state sottoposte a test forsensi supervisionati da un ufficiale esperto di sicurezza USA. Tuttavia, sebbene nei test “non si sia raggiunta una conclusione definitiva” a causa del danneggiamento dei proiettili, “sembra probabile che gli spari siano provenuti dalle posizioni delle Israeli Defence Forces [l’esercito israeliano, ndt.] (IDF).”

Hastings ha anche citato la mancanza di permessi edilizi rilasciati dagli israeliani ai palestinesi, puntualizzando che le demolizioni israeliane hanno recentemente espulso 61 palestinesi, inclusi 31 minori. Infatti finora quest’anno ci sono stati “trecentonovantanove demolizioni e confische di strutture di proprietà palestinesi palestinesi e sgomberi … con più di 400 palestinesi deportati.”

Hastings ha affermato che i permessi di costruzione sono praticamente impossibili da ottenere da parte dei palestinesi. Ha anche segnalato che la recente sentenza dell’Alta Corte di Giustizia israeliana che permette di procedere con gli sgomberi nei villaggi di Masafer Yatta dimostra che le forze israeliane continuano ad adottare misure restrittive che influiscono sulle comunità palestinesi e sugli operatori umanitari. “Io rimango profondamente preoccupata dal costo umanitario sulle comunità in questione se gli ordini di sgombero dovessero essere portati avanti” ha affermato.

La violenza correlata ai coloni è un’altra questione ed è particolarmente preoccupante nella comunità della Cisgiordania di Ras Al-Tin. “Ripeto che i responsabili di tutti gli atti di violenza devono essere chiamati a risponderne e rapidamente assicurati alla giustizia.”

L’importante funzionaria ha concluso: “L’ONU rimane impegnata a supportare gli israeliani e i palestinesi perché si avviino verso una pace giusta e durevole e noi continueremo a lavorare con le parti e con i partner regionali ed internazionali per ottenere questo risultato.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




OCHA: Israele demolisce oltre 50 strutture palestinesi in due settimane

L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) afferma che le autorità israeliane hanno confiscato vaste aree di terra e demolito più di 50 strutture di proprietà palestinese nella Cisgiordania occupata in un arco di tempo di due settimane.

Redazione

L’OCHA ha affermato nel suo rapporto bisettimanale “Protezione dei civili” relativo al periodo tra il 28 giugno e il 18 luglio che circa 47 delle strutture prese di mira sono state demolite nell’Area C, che costituisce il 61% della Cisgiordania ed è stata designata come “zone di tiro” per l’addestramento militare israeliano.

Quattro strutture sono state demolite a East al-Quds [Gerusalemme est, ndt.] inclusa una casa distrutta dai proprietari per evitare di pagare le multe emesse dalle autorità israeliane.

In quattro occasioni, ha affermato l’OCHA, le forze israeliane hanno condotto esercitazioni militari vicino a 13 comunità di pastori palestinesi nell’area di Masafer Yatta, a sud di al-Khalil. Le esercitazioni hanno limitato l’accesso dei palestinesi ai servizi di base e hanno messo a rischio la loro sicurezza.

Di conseguenza, 40 persone, tra cui 21 bambini, sono state sfollate e i mezzi di sussistenza di circa altre 500 sono stati intaccati, ha aggiunto OCHA.

Un tribunale israeliano ha recentemente approvato lo sgombero forzato e l’espulsione di 1.144 persone, inclusi 569 bambini, che vivono a Masafer Yatta.

All’inizio di luglio le autorità israeliane hanno demolito un muro di cemento lungo 200 metri attorno a una sorgente d’acqua vicino a Nablus. La demolizione incide direttamente sull’accesso all’acqua e sui mezzi di sussistenza di almeno 22 famiglie con 132 persone.

In numerose occasioni le forze israeliane hanno emesso ordinanze di demolizione e di blocco delle costruzioni e hanno raso al suolo case palestinesi nell’area con il pretesto della mancanza di permessi di edificazione. Uno studio delle Nazioni Unite afferma che tali permessi sono “praticamente impossibili” da ottenere.

Gli oppositori affermano che le demolizioni sono motivate da una politica che fa parte della strategia del regime di espropriazione e pulizia etnica dei palestinesi.

Israele ha occupato la Cisgiordania, inclusa la parte occidentale della città santa di al-Quds [Gerusalemme], nel 1967. Successivamente ha annesso la parte orientale al-Quds [Gerusalemme est, ndt] che i palestinesi rivendicano come capitale del loro futuro stato.

Tra 600.000 e 750.000 israeliani si sino insediati con oltre 250 colonie illegali che sono state costruite in tutta la Cisgiordania dall’occupazione del 1967.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha condannato in diverse risoluzioni i progetti di insediamento del regime di Tel Aviv nelle terre palestinesi occupate.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Ora Israele può togliere la cittadinanza ai palestinesi del ‘48

Lana Tatour

25 luglio 2022 –  Middle East Eye

La sentenza di un tribunale israeliano secondo cui la “violazione della fedeltà” allo Stato è motivo di denaturalizzazione faciliterà notevolmente il suo piano di vecchia data volto ad espellere i cittadini palestinesi di Israele

La scorsa settimana, con una decisione che costituisce un precedente, la Corte Suprema israeliana ha stabilito che lo Stato ha il potere di revocare la cittadinanza a una persona condannata per reati equiparabili ad una “violazione della fedeltà”, anche se ciò renderebbe la persona apolide e in violazione del diritto internazionale.

La sentenza riguarda il caso di Alaa Zayoud, palestinese con cittadinanza israeliana. Nell’ottobre 2015 Zayoud ha speronato con la sua auto una stazione degli autobus e ha accoltellato tre israeliani. Nel 2017, un anno dopo la sua condanna, il ministero dell’Interno ha notificato a Zayoud la sua intenzione di revocargli la cittadinanza, in conformità con la legge sulla cittadinanza.

Il tribunale amministrativo di Haifa ha approvato questa decisione. Zayoud ha fatto appello e il caso è giunto davanti alla Corte Suprema.

Nella propria sentenza la Corte Suprema ha stabilito: “Non c’è stato alcun vizio costituzionale nella disposizione che consente la revoca della cittadinanza di una persona che ha commesso un atto che costituisce una violazione della fedeltà allo Stato di Israele, come ad esempio un atto di terrorismo, un atto di tradimento o di grave spionaggio oppure l’acquisizione della cittadinanza o il permesso di soggiorno permanente in uno Stato o territorio ostile.”

Ciò anche se, a causa della revoca della cittadinanza, l’individuo divenisse apolide, fermo restando che in tal caso il ministero dell’Interno deve concedergli lo status di residenza permanente in Israele o un altro status giuridico appropriato “.

L’importanza di questa decisione non deve essere sottovalutata. Le sue implicazioni sono gravi e saranno chiare a breve e lungo termine. Questa sentenza ha istituito una procedura legale per la revoca della cittadinanza ai palestinesi del ’48 [cittadini di Israele di origine araba, discendenti dai palestinesi residenti in quello che divenne territorio israeliano e che vi rimasero dopo il 1948, ndt.] (noti anche come cittadini palestinesi di Israele), un passo cruciale negli sforzi di Israele tesi a promuovere la pulizia etnica e l’espulsione dei palestinesi.

‘Intento terroristico’

A livello pratico, la corte ha spianato la strada a quella che diventerebbe la denaturalizzazione di routine dei palestinesi con cittadinanza israeliana, esponendoli all’espulsione, qualcosa a cui Israele aspira da tempo.

La decisione di sostituire la cittadinanza con un cosiddetto status di residenza permanente potrebbe consentire alle persone di continuare ad avere accesso ad alcuni servizi sociali, ma le priverebbe della più importante protezione che la cittadinanza è in grado di garantire: il diritto di rimanere a casa propria.

Israele sa che per rendere i palestinesi del ’48 passibili di espulsione deve prima revocare loro la cittadinanza. La decisione del tribunale facilita proprio questo.

E sono Israele e i suoi servizi di sicurezza a definire ciò che costituisce una “violazione della fedeltà”, che secondo la legge sulla cittadinanza crea i presupposti per la revoca della cittadinanza. Al momento Israele basa la definizione di “violazione della fedeltà” sulla legge israeliana contro il terrorismo, che gli consente di classificare diversi reati come atti terroristici.

Israele usa regolarmente il termine “intenti terroristici” quando si tratta di palestinesi. Ad esempio, all’indomani dell’Intifada dell’Unità del maggio 2021 [ondata di proteste, che ha visto coinvolti anche i palestinesi con cittadinanza israeliana, ndt.] Israele ha arrestato migliaia di palestinesi e ha intentato processi contro centinaia di manifestanti, di cui 167 con l’accusa di reati terroristici sulla base della legge antiterrorismo.

A seguito della recente decisione della Corte Suprema rischiano tutti la revoca della cittadinanza. I palestinesi sanno fin troppo bene cosa questo potrebbe potenzialmente significare: l’espulsione dalla loro patria.

L’atto di revoca della cittadinanza renderebbe apolidi i palestinesi colpiti. Israele ha già reso apolidi tutti i palestinesi nel 1948 con l’annullamento della cittadinanza palestinese [posseduta, ndt.] sotto il mandato britannico. Molti palestinesi sono rimasti apolidi. I palestinesi rimasti dopo la Nakba (la catastrofe) [nome con cui i palestinesi indicano l’esodo forzato di ca. 700.000 palestinesi dai territori occupati da Israele nel corso della guerra arabo-israeliana del 1948, ndt.] del 1948 hanno ricevuto la cittadinanza israeliana nei primi due decenni dello Stato [israeliano, ndt.].

Ora Israele minaccia ancora una volta di renderli apolidi.

Sebbene tale decisione violi chiaramente il diritto internazionale, la corte ha comunque stabilito che la denaturalizzazione dei palestinesi è costituzionale affermando erroneamente che la condizione di apolidia può essere sanata attraverso la concessione di una “residenza permanente in Israele o di un altro appropriato status giuridico”.

Un piano segreto

L’esperienza dei gerosolimitani ci insegna che non c’è nulla di permanente nella “residenza permanente” quando si tratta di palestinesi. Dal 1967 Israele ha frequentemente revocato la residenza ai gerosolimitani, bandendoli di fatto in modo permanente dalla loro città e dalle loro case. Finora, nel quadro dello sforzo continuo rivolto ad eliminare i palestinesi dalla città, sono state revocate oltre 15.000 residenze.

Israele non ha mai accettato l’esistenza dei suoi cittadini palestinesi.

Nel corso del suo primo decennio ha perseguito piani per l’espulsione di massa dei palestinesi del ’48. Il massacro di Kafr Qasim dell’ottobre 1956, in cui l’esercito giustiziò 51 palestinesi, faceva parte di un più ampio piano segreto, chiamato Operazione Hafarperet, per estromettere la popolazione palestinese dal Piccolo Triangolo [concentrazione di città e villaggi arabo-israeliani, ndt.].

Inoltre, all’inizio degli anni ’50 Israele tentò di portare avanti un piano per l’espulsione di 10.000 palestinesi da sette villaggi della Galilea, nonché altri piani per il reinsediamento di palestinesi in Argentina e Brasile.

Il proposito di espellere i palestinesi è stato mantenuto. È riapparso nel panorama pubblico e politico israeliano durante gli anni ’80 con l’ascesa di Meir Kahane, un rabbino nazionalista ultra-ortodosso di origine americana, e del suo partito fascista, Kach. Kach sosteneva la denaturalizzazione dei cittadini palestinesi e il loro trasferimento, nonché l’espulsione dei palestinesi dai territori occupati nel 1967.

Dagli anni 2000 sono stati compiuti sforzi significativi per facilitare la revoca della cittadinanza ai palestinesi. I piani proposti per ridurre il numero di cittadini palestinesi sono ora parte integrante del discorso politico predominante in Israele e sono supportati dalla maggioranza dell’opinione pubblica israeliana.

Abbiamo visto appelli con la richiesta che i palestinesi del ’48 firmino un giuramento di fedeltà allo Stato israeliano come Stato ebraico; l’adozione dello Stato-nazione del popolo ebraico nel 2018; l’avanzamento di quello che è noto come il piano di “scambio di popolazione” – il trasferimento pianificato dei villaggi del Piccolo Triangolo e dei loro circa 300.000 abitanti nello Stato palestinese contro la volontà degli abitanti palestinesi di queste aree.

Uno strumento del sumud

Attraverso una progressione allarmante negli ultimi anni Israele ha revocato la cittadinanza ai beduini palestinesi del Negev come apparente banco di prova per un più ampio progetto di denaturalizzazione dei cittadini palestinesi. Nel 2010 il Ministero dell’Interno ha avviato una revisione dello status di cittadinanza dei beduini.

Il suo rapporto concludeva che migliaia di beduini erano stati erroneamente registrati come cittadini. Successivamente Israele ha denaturalizzato centinaia di beduini del Negev rendendoli apolidi.

Non è un caso che Israele abbia iniziato con i beduini, la popolazione più vulnerabile ed emarginata tra i palestinesi del ’48.

Non è un segreto che Israele voglia vedere scomparire tutti i palestinesi, inclusi i palestinesi del ’48. Anche se a questi ultimi è stata concessa la cittadinanza israeliana, Israele vede i palestinesi del ’48 come ospiti la cui presenza non solo è indesiderabile, ma sempre condizionata.

Israele vede la loro cittadinanza come una concessione, non come un diritto – e le concessioni possono sempre essere revocate – come ben espresso dall’ex ministro dei Trasporti israeliano, Bezalel Smotrich: “Noi siamo i proprietari di questa terra. Questa terra è appartenuta al popolo ebraico per migliaia di anni. Dio ci ha promesso tutta la Terra d’Israele, una promessa che ha mantenuto. Siamo semplicemente stati le persone più ospitali del mondo dai giorni di Abramo e per questo siete ancora qui. Almeno per ora”.

Dobbiamo vedere le cose come sono: Israele lavora passo dopo passo nel creare percorsi giuridici per rendere possibile la denaturalizzazione, e quindi l’espulsione, dei palestinesi del ’48. Per loro la cittadinanza israeliana è stata uno strumento di sumud [risolutezza in arabo, parola simbolo della cultura palestinese derivante dall’esperienza prolungata della dialettica dell’oppressione e della resistenza, ndt.], ferma perseveranza.

Essa garantisce per lo più la continuazione della permanenza in patria. Per i palestinesi del ’48 cittadinanza significa sopravvivenza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Lana Tatour è docente/ricercatrice di sviluppo globale presso la School of Social Sciences, University of New South Wales (Sydney, Australia).

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Discriminazione da record contro gli arabi in una città israeliana

Editoriale

20 luglio 2022 – Haaretz

La scorsa settimana l’amministrazione comunale di Afula [cittadina in Galilea, ndt.] ha cercato di battere un nuovo record in fatto di razzismo con la proposta di vietare alle scuole guida di lavorare in città, esclusa la zona industriale, durante lo Shabbat e nei giorni festivi. Sia chiaro: questa non è una città che improvvisamente si è stancata di avere per strada allievi di autoscuole. Quello che dà fastidio ai membri del consiglio comunale di Afula non sono le auto, ma le persone che le usano durante lo Shabbat, cioè gli abitanti delle cittadine arabe dei dintorni, come Nein, Mukeibla, Shibli, Umm al-Ghanam e Na’ura, che fanno pratica per prepararsi a sostenere l’esame di guida nella città. Questa spregevole proposta mira a impedire l’ingresso ad Afula di studenti e istruttori di scuola guida arabi.

Non hanno neanche cercato di farlo di nascosto. I consiglieri comunali saranno anche razzisti, ma non sono degli ipocriti. “Chiunque entri in questa città deve sapere che è una città ebraica,” ha dichiarato Itai Cohen, il consigliere comunale che ha presentato la proposta senza un briciolo di vergogna. Il comune di Afula ha una lunga storia di gesti razzisti. E, cosa ancora più orrenda, i suoi membri se ne vantano pure. “È come nel 2015 quando abbiamo lottato per affermare la nostra verità contro la vendita di terre agli arabi,” ha detto Cohen, che aveva guidato quella protesta. Poi nel 2019 c’è stato il tentativo di chiudere il parco municipale a chiunque non fosse un residente di Afula per bloccare tutti i visitatori arabi. E non dimentichiamoci del giuramento fatto dai consiglieri comunali quello stesso anno di fare in modo che Afula rimanga ebraica.

Il sindaco Avi Elkabetz aveva a suo tempo guidato la battaglia per tener fuori gli arabi dal parco municipale. Durante la campagna elettorale aveva anche promesso di preservare il carattere ebraico di Afula e aveva persino messo in guardia contro “l’occupazione del parco.” Costanti sono stati i tentativi di escludere gli arabi dalla città e la battaglia delle scuole guida va vista come un altro fronte della guerra per preservare la purezza ebraica di Afula.

Sia l’Association for Civil Rights in Israel [la più antica associazione in difesa dei diritti umani in Israele, ndt.] che Adalah, il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele, hanno inviato lettere a Elkabetz chiedendogli di ritirare questa proposta dall’ordine del giorno, sostenendo che la città non ha alcuna autorità legale di affiggere cartelli per impedire l’ingresso in città di studenti delle autoscuole durante lo Shabbat e i giorni festivi, men che meno quando la decisione è guidata da motivi inaccettabili. La proposta discriminatoria viola le libertà di movimento e di impiego e il diritto al lavoro degli insegnanti arabi durante lo Shabbat.

Afula non è la prima a uscirsene con una proposta simile. Nel 2003 la cittadina di Carmiel [cittadina israeliana, anch’essa in Galilea, ndt.] aveva tentato la stessa manovra razzista, ma il tribunale aveva chiarito che non l’avrebbe autorizzata. Ieri il consiglio comunale ha deciso all’unanimità di nominare un comitato per mappare le strade che vorrebbe chiudere e accertarsi che il processo sia legale. Si spera che il comitato chiarisca al comune che la proposta è razzista e va accantonata.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’UE si schiera a favore di Israele contro i suoi stessi Stati membri

Ali Abunimah

19 luglio 2022 – The Electronic Intifada

L’Unione Europea è più fedele a Israele che ai propri Stati membri? Sembra proprio di sì.

All’inizio di questo mese nove governi dell’UE hanno finalmente definito una cavolata la designazione di “organizzazioni terroristiche” da parte di Israele di sei organizzazioni palestinesi per i diritti umani molto stimate.

La designazione di ottobre faceva parte della lunga campagna di Israele volta a criminalizzare, definanziare e sabotare chiunque tenti di chiamarlo a rispondere dei suoi crimini contro i palestinesi.

Da Israele non sono pervenute informazioni sostanziali che giustifichino la revisione della nostra politica” nei confronti delle sei organizzazioni, afferma la dichiarazione congiunta del 12 luglio di Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Spagna e Svezia.

“In assenza di tali prove – aggiungono – continueremo la nostra cooperazione e forte sostegno alla società civile nei territori palestinesi occupati”.

Molte delle associazioni prese di mira da Israele ricevono finanziamenti direttamente da questi governi e dall’apparato burocratico dell’UE a Bruxelles.

Tre di loro – Addameer, Al-Haq e Defence for Children International-Palestine – hanno collaborato strettamente con le indagini della Corte Penale Internazionale sui crimini di guerra in Cisgiordania e a Gaza.

Quindi, appena è stata resa nota la dichiarazione dei nove governi, ho scritto a Peter Stano, portavoce dell’UE per gli affari esteri, per chiedere se Bruxelles l’avesse adottata.

Dopo oltre una settimana – e nonostante due solleciti – il solitamente tempestivo Stano non ha inviato alcuna risposta.

Posso solo interpretare questo silenzio come un segnale che l’irresponsabile apparato burocratico dell’UE non sia d’accordo con i propri Stati membri e stia adottando in modo ancora più deciso il proprio approccio filo-israeliano.

In effetti Bruxelles è schierata a favore di Tel Aviv contro i governi dell’UE che sono arrivati ad essere talmente esasperati dalle diffamazioni e dalle bugie di Israele da dichiararlo pubblicamente.

Anche senza una risposta di Stano le prove di ciò sono abbastanza chiare.

The Electronic Intifada ha rivelato in ottobre che Israele ha comunicato in anticipo all’UE la sua intenzione di designare le organizzazioni palestinesi come “terroriste”, ma Bruxelles non ha respinto [la designazione] e non ha nemmeno inviato tale comunicazione ai propri Stati membri.

In quell’occasione Stano ha ammesso che l’UE aveva bisogno di “maggiori informazioni a proposito di queste designazioni” – un’ammissione del fatto che Israele non aveva fornito alcuna prova effettiva.

Sospensione illegittima”.

Il mese scorso Al-Haq è riuscita a presentare una petizione alla Commissione europea perché revocasse la sospensione dei finanziamenti per uno dei progetti dell’ organizzazione per i diritti umani sponsorizzati dall’UE.

Al-Haq ha affermato che la “sospensione vergognosa” era stata “illegale fin dall’inizio e basata sulla propaganda e sulla disinformazione israeliane”.

Una lettera dell’UE ha confermato che l’unità antifrode del blocco OLAF [Ufficio europeo per la lotta antifrode, istituito per contrastare le frodi, la corruzione e qualsiasi attività illecita lesiva degli interessi finanziari della Comunità europea, ndt.] aveva “concluso che non vi sono sospetti di irregolarità e/o frode ai danni dei fondi dell’UE” forniti ad Al-Haq.

Al-Haq ha accusato della sospensione Olivér Várhelyi, un alto funzionario non eletto dell’UE, affermando che [la sospensione, ndt.] fosse “mirata a dare al governo israeliano un aiuto nei suoi tentativi di danneggiare e diffamare la società civile palestinese e di opprimere le voci delle organizzazioni e difensori palestinesi dei diritti umani”.

Várhelyi è stato anche responsabile della sospensione degli aiuti dell’UE ai palestinesi, compresi i finanziamenti per pagare le cure salvavita per i malati di cancro palestinesi.

Tali aiuti sono stati sbloccati il mese scorso, poco prima che la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si recasse in Israele e nella Cisgiordania occupata, dove ha trascorso la maggior parte del suo tempo a compiacere Tel Aviv.

L’UE rilancia il forum ad alto livello con Israele

Ma qualunque disaccordo possa esserci tra l’UE e i suoi Stati membri sulle sei organizzazioni, ciò non ha intaccato la loro unanimità quando si tratta di offrire a Israele riconoscimenti incondizionati per i suoi crimini contro il popolo palestinese.

Lunedì i 27 ministri degli esteri del blocco hanno deciso di riprendere le riunioni del Consiglio di associazione UE-Israele.

Questo forum di alto livello non si riuniva da un decennio, con grande disappunto di Israele e della sua lobby.

Secondo un comunicato di Bruxelles i ministri “hanno convenuto di riconvocare gli incontri e di iniziare a lavorare per determinare la posizione dell’Ue”.

“La posizione dell’UE sul processo in Medio Oriente non è cambiata rispetto alle conclusioni del Consiglio del 2016 a sostegno della soluzione dei due Stati”, si legge nella dichiarazione.

Sebbene l’UE abbia mantenuto il sostegno verbale alla moribonda “soluzione dei due Stati”, continua a premiare e incentivare la colonizzazione violenta da parte di Israele dei territori palestinesi occupati, vanificando l’idea di uno Stato palestinese indipendente.

La reazione di Várhelyi alla decisione di lunedì sottolinea che non c’è motivo di aspettarsi alcun cambiamento.

Egli ha salutato la ripresa del forum ad alto livello come un ulteriore segno che l’UE è “fermamente impegnata” nelle sue relazioni con Israele e ha esortato il blocco “a cogliere l’opportunità di normalizzare le relazioni tra Israele e un certo numero di Paesi arabi .”

Dimiter Tzantchev, l’ambasciatore dell’UE a Tel Aviv, ha affermato che il Consiglio di associazione UE-Israele “dovrebbe permettere di impegnarci con i nostri partner israeliani e di riflettere sul processo di pace in Medio Oriente e sul ruolo dell’UE in esso”.

La generica formulazione di Tzantchev è stata senza dubbio elaborata con cura per dare l’impressione che questo sfacciato riconoscimento ad Israele farebbe in qualche modo progredire il “processo di pace” morto da tempo, pur non offrendo assolutamente alcun sostegno concreto da parte di Bruxelles per promuovere i diritti dei palestinesi.

Secondo il giornalista israeliano Barak Ravid la decisione dell’UE di ripristinare il dialogo ad alto livello è un “risultato importante” per il primo ministro israeliano Yair Lapid.

Ravid osserva che questo era uno degli obiettivi chiave di Lapid quando ha assunto la carica di ministro degli Esteri israeliano poco più di un anno fa.

Rinvio compiacente

Citando un anonimo “alto funzionario europeo”, il Times of Israel [giornale israeliano online in lingua inglese, ndt.] ha riferito lunedì che Josep Borrell, capo della politica estera dell’UE, ha rinviato la ripresa delle riunioni del consiglio UE-Israele “a causa dell’uccisione della giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh” a maggio.

Lo stesso mese Israele ha anche annunciato una massiccia espansione delle sue colonie in Cisgiordania, provocando un’insolita condanna da parte di Borrell.

Secondo The Times of Israel l’anonimo funzionario europeo ha detto: ”Ci sono state due cose inaccettabili sul piano diplomatico: l’uccisione della giornalista e l’annuncio di 4.000 nuovi insediamenti coloniali“.

“Borrell ci ha detto:Come potete immaginare che metta all’ordine del giorno un incontro di cooperazione con le immagini in TV… suvvia!’“, ha aggiunto il funzionario.

Ma questa non è stata una posizione di principio.

Il codardo Borrell era semplicemente preoccupato di salvare le apparenze e pensava che fosse prudente aspettare che l’omicidio della corrispondente di Al Jazeera non fosse più sulle prime pagine dei giornali prima di offrire ulteriori ricompense a Israele.

The Times of Israel riferisce che Borrell ha annunciato che avrebbe portato avanti la questione solo durante i sei mesi di presidenza ceca, iniziata il 1° luglio.

Ed è esattamente quello che è successo – nonostante l’ininterrotta espulsione da parte di Israele degli abitanti dei villaggi palestinesi da Masafer Yatta nella Cisgiordania occupata – tra gli altri crimini di guerra che l’UE pretende di contrastare.

“Il fatto che 27 ministri degli Esteri dell’UE abbiano votato all’unanimità a favore del rafforzamento dei legami economici e diplomatici con Israele è una prova della forza diplomatica di Israele e della capacità di questo governo di creare nuove opportunità con la comunità internazionale”, si è vantato il primo ministro israeliano Lapid dopo la decisione dell’UE di lunedì.

È anche la prova dell’assoluta codardia e della volontaria complicità dell’Unione Europea e di ogni suo membro.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele porta avanti una campagna di arresti nella Cisgiordania occupata

Redazione di MEMO

Lunedì 18 luglio 2022 – Middle East Monitor Le forze di occupazione israeliane hanno lanciato una massiccia campagna di arresti in un certo numero di città e villaggi in tutta la Cisgiordania occupata. Le forze sono state affrontate dagli abitanti, che hanno tentato di impedire le incursioni.

All’alba di lunedì le forze israeliane hanno effettuato incursioni in quartieri di Ramallah, Betlemme, Nablus ed Hebron e anche nel campo profughi di Jalazone. Almeno dieci palestinesi sono stati arrestati durante le ultime retate.

Domenica sera nei quartieri di Marhaba e Tira [a Ramallah] ci sono stati scontri armati tra i combattenti della resistenza e le forze di occupazione. Queste ultime effettuano frequentemente incursioni nel quartiere per proteggere i coloni illegali che li attaccano con il pretesto che ci sono siti archeologici e tombe ebree nel settore ovest di Tira.

I tre giovani abitanti del campo profughi di Jalazone che sono stati arrestati si chiamano Muhammad Abdullah Nakhleh, Musa Issa Sharakah e Salam Shehadeh Al-Tarawih. Dopo che le loro case sono state perquisite, sono stati condotti dalle forze israeliane in un luogo sconosciuto.

Sul campo si sono scontrati decine di giovani e le forze di occupazione: sono stati sparati lacrimogeni e pallottole di metallo ricoperti di gomma. Non sono stati riportati feriti.

La scorsa notte gli israeliani hanno arrestato tre palestinesi di Betlemme. Fonti locali hanno riportato che un’unità militare israeliana ha fermato un veicolo vicino al villaggio di Wadi Fukin ad ovest della citta ed ha trattenuto i suoi passeggeri prima che fossero arrestati. I loro nomi sono quelli di un ex- detenuto e dell’ex-sindaco del Comune di Aldowa, Raafat Nafeth Jawabrae Alaa Ali Al-Satagi, e Basel Abdelfattah Al-Jabri.

Nel distretto di Hebron, le forze di occupazione hanno arrestato Diaa Amro e Hamza Amro, abitanti di Dura e Omar Burqan residente in città. E’ stato arrestato anche Hamed Jasser, di Beita, a sud di Nablus.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La Corte israeliana sentenzia a favore di un’ampia impunità

Maureen Clare Murphy

11 luglio 2022 – The Electrèonic Intifada

La settimana scorsa l’Alta Corte di Israele ha emesso una sentenza in favore di un’ampia immunità per lo Stato per i crimini di guerra perpetrati a Gaza.

Le associazioni palestinesi per i diritti umani affermano che la sentenza sottolinea l’urgente necessità di un’immediata inchiesta della Corte Penale Internazionale.

Adalah, un’associazione palestinese per i diritti umani, ha dichiarato che “la sentenza significa che tutti gli abitanti di Gaza sono esclusi da qualunque risarcimento e ricorso in Israele, a prescindere dalle circostanze, nel corso di ‘azioni di guerra’ o di altro genere”.

La sentenza dell’Alta Corte è una risposta ad una richiesta di risarcimento da parte di Israele per le gravi ferite riportate da Attiya Nabaheen, che aveva appena compiuto 15 anni quando fu colpito dal fuoco delle forze israeliane nel cortile davanti a casa sua mentre rientrava da scuola a Gaza nel novembre 2014.

Nabaheen è rimasto paralizzato in seguito alle ferite.

Adalah e Al Mezan, un’altra associazione per i diritti umani, avevano fatto ricorso presso la Corte per contestare una legge entrata in vigore nel 2012, che prevede che gli abitanti della Striscia di Gaza non possano ricevere risarcimenti da parte di Israele in quanto nel 2007 essa è stata dichiarata ‘territorio nemico.’

Un tribunale di prima istanza ha utilizzato quella legge per respingere il tentativo di Nabaheen di ricevere un risarcimento da Israele per le sue ferite.

L’Alta Corte ha affermato che la legge è conforme al diritto internazionale e che in ogni caso il parlamento israeliano “ha il potere di scavalcare le norme del diritto internazionale.”

Adalah e Al Mezan hanno replicato che la sentenza dell’Alta Corte “giustifica l’avvio immediato di un’inchiesta [della Corte Penale Internazionale], in quanto essa nega alle vittime civili palestinesi di crimini di guerra compiuti da Israele la possibilità di ogni ricorso giuridico.”

Le associazioni aggiungono che “non c’è prova più evidente del fatto che il sistema giuridico israeliano è determinato a legittimare i crimini di guerra e a cooperare con l’esercito nei suoi sforzi di negare alle vittime ogni rimedio legale.”

Un’inchiesta indipendente dell’ONU sull’utilizzo da parte di Israele di forza letale contro i manifestanti della Grande Marcia del Ritorno nel 2018 ha preso in esame il caso di Nabaheen e le sue implicazioni per altri abitanti di Gaza.

La sentenza preclude “la via principale per far valere il loro diritto ad ‘un efficace risarcimento legale’ da parte di Israele, che è loro garantito dalla legislazione internazionale”, hanno dichiarato gli inquirenti dell’ONU.  “E’ quindi difficile sopravvalutare il peso di questa sentenza.”

Nel tentativo di giustificare l’uso della forza letale contro manifestanti disarmati, Israele ha inventato un nuovo infondato paradigma del diritto internazionale, che etichettava la Grande Marcia del Ritorno come parte del suo conflitto armato con Hamas, l’organizzazione politica e di resistenza palestinese che controlla gli affari interni di Gaza.

Le direttive dell’esercito israeliano stabiliscono che deve essere avviata un’inchiesta penale immediatamente dopo la morte di un palestinese al di fuori di attività di combattimento.

Classificando la Grande Marcia del Ritorno come parte del conflitto armato con Hamas, anche se i manifestanti erano disarmati, Israele ha creato un quadro giuridico separato per gestire le denunce relative alle proteste.

Una scappatoia legale

Questa importante scappatoia legale viene anche impiegata riguardo ai palestinesi uccisi dalle forze di occupazione israeliana in Cisgiordania.

Il procuratore generale dell’esercito israeliano ha dichiarato che l’uccisione della corrispondente di Al Jazeera Shireen Abu Akleh mentre documentava un’incursione dell’esercito a Jenin in maggio era “un evento bellico” e pertanto nessun soldato dovrebbe subire denunce penali.

Israele ha praticamente ammesso che uno dei suoi soldati ha ucciso Abu Akleh e la scorsa settimana il Dipartimento di Stato USA ha comunicato che la giornalista è stata “probabilmente” uccisa da un’arma da fuoco delle truppe israeliane.

Sia Israele che gli USA sembrano trattare l’uccisione di Abu Akleh come un errore operativo piuttosto che come una sospetta esecuzione extragiudiziale.

Diverse indagini indipendenti condotte da associazioni per i diritti umani e da organi di informazione internazionali hanno altresì concluso che Abu Akleh molto probabilmente è stata uccisa da fuoco israeliano.

L’indagine forense della CNN, citando l’esperto di armi esplosive Chris Cobb-Smith, nota che “Abu Akleh è stata uccisa da diversi spari”.

Cobb-Smith ha affermato che “il numero di tracce dei colpi sull’albero dove si trovava Abu Akleh prova che non si è trattato di uno sparo casuale, lei è stata presa di mira.”

Venerdì scorso la famiglia di Abu Akleh ha inviato una lettera al Presidente USA Joe Biden, di cui è prevista una visita in Israele e Cisgiordania la prossima settimana, ed ha accusato la sua amministrazione di “muoversi verso la cancellazione di qualunque misfatto delle forze israeliane.”

Gli USA non sembrano far pressione su Israele per un’inchiesta penale: il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha detto durante una conferenza stampa martedì scorso che “non stiamo cercando di essere prescrittivi riguardo a ciò.”

Sembra che per l’amministrazione Biden responsabilizzazione significhi incoraggiare “passi verso la protezione dei civili e dei non combattenti in una zona di conflitto.”

Price ha aggiunto che l’esercito israeliano “è nella condizione di prendere in considerazione dei passi perché non possa più accadere niente di simile.”

Venerdì la famiglia di Abu Akleh ha detto che “non possiamo credere che una tale aspettativa sia il massimo della risposta della vostra amministrazione.”

La famiglia ha sottolineato l’aiuto militare incondizionato degli USA a Israele e “il quasi assoluto appoggio diplomatico per evitare ai dirigenti israeliani di assumersi le responsabilità.”

I famigliari di Abu Akleh hanno fatto richiesta a Biden di incontrarli durante la sua imminente visita e di fornire loro le informazioni raccolte dalla sua amministrazione riguardo all’uccisione della giornalista.

La famiglia ha parlato al presidente del proprio “dolore, sdegno e sensazione di tradimento” di fronte ai suoi determinati tentativi di assicurare “la cancellazione di ogni misfatto compiuto dalle forze israeliane.”

“Ci aspettiamo che l’amministrazione Biden sostenga i nostri sforzi per ottenere responsabilizzazione e giustizia…dovunque ciò possa condurci”, ha affermato la famiglia.

Corte Penale Internazionale

Una di tali sedi processuali è la Corte Penale Internazionale, che è stata adita relativamente all’uccisione di Abu Akleh sia dall’Autorità Nazionale Palestinese che da Al Jazeera. Gli USA si sono affiancati a Israele nel cercare di boicottare l’inchiesta dell’Aja in Palestina.

La CPI privilegia le indagini interne ad un Paese, dove esse sussistano.

La recente sentenza della corte israeliana che ha rifiutato il risarcimento per Attiya Nabaheen e la copertura della responsabilità per l’uccisione di Shireen Abu Akleh dovrebbero dissolvere ogni restante dubbio su ciò a cui si prevede che serva il sistema giuridico di Israele.

Ma resta in dubbio se la CPI funzionerà come un tribunale di ultima istanza per i palestinesi con qualche carattere di urgenza.

Mentre raccoglie risorse per una tempestiva inchiesta in Ukraina, con il rischio per la presunta indipendenza della Corte proveniente dalle contribuzioni volontarie all’indagine, l’inchiesta sulla Palestina sembra essere lasciata morire sul nascere.

Il silenzio sulla Palestina e su altre inchieste che non hanno l’appoggio di potenti Stati “può aver indebolito l’effetto di deterrenza della Corte ed ha lasciato un vuoto che è stato riempito da attacchi politici all’operato della Corte, e anche da attacchi nei confronti di difensori dei diritti umani”, ha recentemente dichiarato Amnesty International.

Senza una risposta ugualmente forte alle crisi in Palestina e in Afghanistan, come in altri luoghi, l’ufficio del procuratore della CPI potrebbe essere considerato “semplicemente il braccio legale della NATO”, come ha detto recentemente l’avvocato per i diritti umani Reed Brody.

Mureen Clare Murphy è caporedattrice di The Electronic Intifada

(traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Un documento secretato rivela che le “zone di tiro” dell’IDF sono costruite per dare terra ai coloni

In una riunione top secret tenutasi nel 1979, qui per la prima volta svelata, l’allora Ministro dell’Agricoltura Ariel Sharon spiegò che le zone di tiro avevano lo scopo di creare “riserve di terra” per gli insediamenti coloniali, nel contesto del suo più ampio piano di stabilire “confini etnici” tra ebrei e palestinesi.

Yuval Abraham

11 luglio 2022 –  +972 Magazine

Un documento inedito rivela che Israele ha creato “zone di tiro militari” nella Cisgiordania occupata come meccanismo per trasferire terreni agli insediamenti coloniali. Quelle zone di tiro, istituite apparentemente ai fini di addestramento militare, sono state realizzate nell’ambito di una strategia più ampia rivolta a creare un “confine etnico” tra ebrei e palestinesi.

Secondo il verbale di una riunione “top secret” del 1979 della Settlement Division della World Zionist Organization [la Divisione per le colonie, è un ente privato che agisce nell’ambito dell’Organizzazione Sionista Mondiale ma è interamente finanziato da fondi pubblici israeliani. Agisce come agente governativo nell’assegnazione di terre ai coloni ebrei in Cisgiordania, ndt.] che lavora in tandem con il governo israeliano, l’allora ministro dell’Agricoltura Ariel Sharon spiegò come la realizzazione di zone di tiro in tutta la Cisgiordania avesse come unico obiettivo finale quello di fornire la terra ai coloni israeliani.

“Essendo la persona che ha fatto nascere nel 1967 le zone di tiro militari, ho voluto destinarle tutte a uno scopo: fornire un’opportunità per l’insediamento coloniale ebraico nell’area”, disse Sharon durante la riunione. “Non appena la Guerra dei Sei Giorni finì, ero ancora di stanza nel Sinai con la mia divisione. Quando ho disegnato queste zone mi trovavo nel Sinai. Le zone di tiro sono state create per uno scopo: costituire delle riserve di terra per le colonie”.

40 anni dopo, le osservazioni di Sharon hanno avuto conseguenze di vasta portata, poiché migliaia di palestinesi a Masafer Yatta, nelle grandi colline a sud di Hebron e nella Valle del Giordano sono attualmente sotto diretta minaccia di espulsione dopo che la loro terra è stata dichiarata zona di tiro militare.

La Divisione delle Colonie si era riunita per discutere la creazione di insediamenti coloniali nelle aree della valle del Giordano dichiarate zone di tiro, e quindi chiuse ai palestinesi. Sharon rese noto di aver delineato i confini delle zone di tiro sin dall’inizio e ordinato il trasferimento delle basi militari in Cisgiordania in modo che la terra fosse sequestrata a fini di insediamento coloniale.

Sharon sarebbe diventato ancora più esplicito riguardo ai suoi piani per le zone di tiro. Solo due anni dopo, durante un altro incontro della Divisione per le Colonie, il ministro affermò che era stata decisa [la realizzazione, ndt.] della zona di tiro 918 al di sopra di Masafer Yatta [insieme di 19 frazioni palestinesi nelle colline meridionali di Hebron nella Cisgiordania meridionale, ndt.] per fermare la “diffusione degli abitanti dei villaggi arabi sul fianco della montagna verso il deserto”. A maggio l’Alta Corte israeliana ha dato il via libera all’espulsione di oltre 1.000 palestinesi da otto villaggi di Masafer Yatta per consentire all’esercito di addestrarsi nell’area.

All’udienza dell’Alta Corte lo Stato ha affermato che la distruzione di queste comunità – che gli abitanti affermano essere lì almeno dalla fine del 19° secolo – è necessaria per l’addestramento. La scorsa settimana l’esercito ha iniziato a inviare carri armati, impiegare armi da fuoco e posizionare mine vicino alle case del villaggio.

Protezione delle periferie ebraiche

Due ulteriori documenti portati alla luce da +972 fanno chiarezza sulla motivazione politica alla base della creazione di colonie e zone di tiro nelle colline meridionali di Hebron. In base a quanto dichiarato da Sharon, egli ha cercato di creare una “zona cuscinetto” tra i cittadini beduini di Israele nel Negev/Naqab e gli abitanti palestinesi della Cisgiordania meridionale, dove si trova Masafer Yatta.

“Esiste un fenomeno, in corso da diversi anni, di contiguità fisica tra la popolazione araba del Negev e gli arabi delle colline di Hebron. Si è creata una situazione in cui il confine [della terra di proprietà araba] si è spinto più profondamente nel nostro territorio”, disse Sharon al comitato nel gennaio 1981. “Dobbiamo creare rapidamente una zona cuscinetto di insediamenti coloniali che si insinui tra le colline di Hebron e la comunità ebraica del Negev. Sharon è arrivato persino a etichettare questa zona cuscinetto come un “confine etnico” che avrebbe impedito ai palestinesi della Cisgiordania di raggiungere la “periferia di Be’er Sheva [città del sud di Israele, la più grande del deserto del Negev, ndt.]”.

I verbali di un incontro del 1980 rivelano come Sharon ritorni sulla stessa questione: “A Hura [una cittadina beduina nel Negev/Naqab] c’è una comunità araba in crescita di migliaia di persone. Questa comunità ha contatti con la popolazione araba delle colline meridionali di Hebron. Pertanto il confine passerà praticamente nelle vicinanze di Be’er Sheva, vicino a Omer [una ricca città del Negev-Naqab]. Supponiamo che io aggiunga altre decine di migliaia di ebrei a Dimona o Arad [due città operaie nel sud di Israele], e che li voglia lì. Come colmerò questo divario? Come farò a creare un cuneo tra i beduini del Negev e gli arabi delle colline meridionali di Hebron?

Sharon avrebbe presto avuto una risposta alla sua domanda. Quell’anno Israele dichiarò 30.000 dunam [3.000ettari] di terra nella punta meridionale della Cisgiordania delle zone di tiro militari. Come Sharon aveva ben chiaro, queste zone furono realizzate come confini etnici: a sud delle zone militari c’erano dozzine di villaggi beduini non riconosciuti all’interno di Israele, mentre a nord e ad ovest c’erano le città palestinesi e le cittadine delle colline a sud di Hebron. All’interno della zona militare rimasero le migliaia di palestinesi che ora devono affrontare un trasferimento di popolazione.

Durante queste discussioni Sharon stabilì persino la creazione di nuovi insediamenti coloniali ebraici nel Negev-Naqab, come Meitar, così come nelle colline occupate a sud di Hebron, come Maon e Susiya, che avrebbero fatto parte della stessa zona cuscinetto.

Per Sharon, come per molti altri leader israeliani, la nozione stessa di territorio arabo contiguo era una minaccia diretta alle ambizioni dello Stato di controllare quanta più terra possibile su entrambi i lati della Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e alcuni fra i Paesi arabi confinanti alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949, ndt.]. Ancora oggi, le colonie ebraiche in Cisgiordania e nel Negev/Naqab rimangono una parte cruciale della strategia di controllo di Israele.

Un segreto di Pulcinella

Secondo un rapporto di Kerem Navot, un’organizzazione [israeliana, ndr.] che tiene traccia degli insediamenti coloniali nella Cisgiordania occupata, nel 2015 circa il 17% della Cisgiordania è stata designata come sede di varie zone di tiro militari, in particolare nella Valle del Giordano, nelle colline a sud di Hebron e lungo il confine orientale con la Giordania. La maggior parte di queste assegnazioni furono fatte immediatamente dopo l’occupazione della Cisgiordania nel 1967 e all’inizio degli anni ’70. Secondo il rapporto l’esercito utilizza solo il 20% circa di queste zone per l’addestramento.

Alcuni esempi recenti mostrano che Israele si sta spingendo ancora più in là dei cuscinetti etnici di Sharon tra ebrei e palestinesi. Oggi i palestinesi in tutta la Cisgiordania vengono espulsi dalle zone di tiro, mentre i coloni stanno lentamente prendendo il loro posto.

Nell’ultimo decennio, ad esempio, i coloni hanno stabilito 66 cosiddetti avamposti agricoli, che occupano enormi appezzamenti di terra in Cisgiordania, nonostante abbiano pochi residenti. Circa un terzo di quel territorio, 83.000 dunam [8.300 ettari], che i coloni hanno conquistato attraverso il pascolo, si trovano all’interno di zone di tiro militari. Queste aree – almeno sulla carta – dovrebbero essere chiuse sia agli ebrei che ai palestinesi. I soldati israeliani nella Valle del Giordano hanno persino ammesso apertamente che consentono ai coloni di utilizzare le zone di tiro, mentre vietano ai palestinesi di fare lo stesso.

Dror Etkes, a capo di Kerem Navot, ha detto a +972 che negli ultimi anni c’è stato un aumento significativo del subentro di coloni nelle zone di tiro. “Questa è la logica conseguenza di quanto fece Ariel Sharon 55 anni fa. Le fattorie avamposto coloniale sono state progettate in modo tale da consentire l’occupazione di vaste aree di pascolo, che nell’agosto del 1967 erano state dichiarate zone di tiro militari”, afferma Etkes.

Questo meccanismo si sta ripetendo nelle colline meridionali di Hebron. L’anno scorso la Divisione per le Colonie ha assegnato un terreno nella zona di tiro 918 a uno dei coloni che vivono nelle vicinanze. Le foto aeree mostrano che nella zona di tiro sono state costruite nuove strutture appartenenti a tre avamposti coloniali – Mitzpe Yair, Avigayil e Havat Ma’on – stabiliti nell’area nel 2000. L’anno scorso, i coloni hanno persino cercato di realizzare un nuovissimo avamposto coloniale direttamente all’interno della zona di tiro.

Che le zone di tiro siano utilizzate per rafforzare il progetto di colonizzazione e l’espropriazione della popolazione nativa dei territori occupati è ormai un segreto di Pulcinella e tutti vi sono coinvolti, tranne i palestinesi.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un tribunale tedesco sentenzia che la Deutsche Welle ha licenziato illegalmente una giornalista palestinese

Ali Abunimah

8 luglio 2022 – Electronic Intifada

In Germania un tribunale ha dichiarato che la Deutsche Welle [emittente informativa pubblica tedesca, ndtr.] ha illegalmente licenziato una giornalista palestinese in base a false accuse di antisemitismo.

Maram Salem ha fatto parte di un gruppo di giornalisti arabi licenziati dalla rete pubblica in seguito a una campagna ufficiale di calunnie che li accusava di fanatismo antiebraico per le loro affermazioni o critiche riguardo ad Israele.

Mercoledì il tribunale del lavoro di Bonn ha sentenziato che il licenziamento di Salem non è valido.

Secondo una dichiarazione del suo avvocato, Ahmed Abed, “durante l’udienza il tribunale ha stabilito che i post su Facebook di cui era accusata non erano antisemiti e la rescissione del contratto è stata illegittima.”

La dichiarazione aggiunge che Salem “ha spiegato di essere da molto tempo una sostenitrice dei diritti delle donne, dei diritti dell’uomo, degli animali e LGBTQ e che le accuse l’hanno profondamente ferita. Ha chiesto alla DW di assumersi le proprie responsabilità, scusarsi pubblicamente e ritirare le accuse.”

Il comunicato afferma che il tribunale ha rigettato le accuse di antisemitismo degli investigatori Ahmad Mansour, Sabine Leutheusser-Schnarrenberger e Beatrice Mansour.

Ahmad Mansour, uno psicologo tedesco palestinese in stretto rapporto con la lobby israeliana, e Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, ex-ministra della giustizia tedesca, erano stati incaricati da Deutsche Welle di indagare in merito al presunto antisemitismo all’interno dell’emittente.

Le opinioni anti-musulmane, anti-arabe e filoisraeliane di Mansour ne hanno fatto uno dei beniamini dei media tedeschi e di istituzioni finanziate dallo Stato.

A febbraio Deutsche Welle ha licenziato Salem insieme a vari altri giornalisti sulla base del loro rapporto. Secondo la dichiarazione del suo avvocato, la Deutsche Welle, che si maschera da campione della libertà di parola e di stampa, ha cercato di dipingere come antisemita la citazione di Salem riguardo all’“illegale occupazione israeliana”.

“Il verdetto dimostra che le campagne di diffamazione contro donne palestinesi come me o Nemi El-Hassan non hanno più successo,” afferma Salem. “Fin dall’inizio era chiaro che sono innocente.” El-Hassan è una giornalista tedesca di origini palestinesi a cui è stato annullato un programma scientifico da un’altra emittente, la Westdeutscher Rundfunk.

La presunta infrazione di El-Hassan è stata “linkare” post Instagram sull’account di Jewish Voice for Peace, ben nota associazione con sede negli USA che si impegna per i diritti dei palestinesi e si oppone al sionismo, l’ideologia dello Stato di Israele.

“Il tribunale del lavoro di Bonn ha messo in chiaro che le gravi accuse di antisemitismo contro Maram sono assolutamente prive di fondamento,” afferma l’avvocato Abed. “Ora la Deutsche Welle dovrebbe proteggere Maram invece di piegarsi alle provocazioni.”

L’ European Legal Support Center [Centro Europeo per il Sostegno Legale], un’associazione che lotta contro la repressione nei confronti dei palestinesi attraverso il ricorso ai tribunali, ha salutato la vittoria di Salem come il “primo successo nella causa della Deutsche Welle.”

Anche Farah Maraqa, giornalista palestinese giordana licenziata nel corso della caccia alle streghe contro gli arabi, ha denunciato la Deutsche Welle. La sua causa è ancora in corso.

L’appoggio incondizionato nei confronti di Israele è visto dalla dirigenza tedesca come una forma di riparazione per l’uccisione di milioni di ebrei europei da parte del governo tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale.

Di conseguenza le istituzioni tedesche reprimono i palestinesi e i sostenitori dei loro diritti facendo ricorso a intimidazioni giudiziarie, calunnie, censura e violenze.

L’impegno tedesco nel sostegno ai crimini di Israele contro i palestinesi è talmente inflessibile da consentire a Israele di uccidere nella totale impunità cittadini tedeschi, compresi minorenni.

Ma, in un segnale di speranza che democrazia e diritti umani possano essere possibili in Germania, i tribunali hanno reagito contro la repressione anti-palestinese.

Con un’altra recente sconfitta della censura ufficiale, la città di Stoccarda ha riconosciuto di aver illegittimamente cancellato dal proprio sito web un’informazione relativa a un’associazione locale di sostegno ai palestinesi.

L’amministrazione cittadina ha ottemperato a una sentenza del tribunale e ripubblicato l’ informazione.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)