Cosa implica per la guerra contro Gaza la sentenza provvisoria della CIG?

Justin Salhani

26 gennaio 2024 – Al Jazeera

Secondo alcuni esperti, se le misure provvisorie della CIG hanno evitato di chiedere un cessate il fuoco, potrebbero rendere più difficile per Israele continuare la guerra.

Venerdì la Corte Internazionale di Giustizia ha emesso una serie di misure provvisorie che chiedono a Israele di rispettare la convenzione sul genocidio del 1948, consentire l’ingresso a Gaza di più aiuti umanitari e agire contro quanti esprimono affermazioni genocidarie.

La sentenza provvisoria della Corte Internazionale nella causa intentata dal Sudafrica, che accusa Israele di commettere un genocidio a Gaza, ha evitato di ordinare a Israele di sospendere o porre fine alla sua devastante guerra contro Gaza, che dal 7 ottobre ha ucciso più di 26.000 palestinesi nell’enclave.

Ma ha rigettato la tesi di Israele secondo cui la Corte non ha giurisdizione per imporre misure provvisorie e ha evidenziato che le sue conclusioni sono vincolanti.

L’Autorità Palestinese ha accolto positivamente la sentenza: “La decisione della CIG è un importante richiamo al fatto che nessuno Stato è al di sopra della legge e fuori dalla portata della giustizia,” ha affermato in un comunicato il ministro degli Esteri palestinese Riyadh Maliki. “Ciò infrange la radicata cultura israeliana di criminalità e impunità, che ha caratterizzato le sue pluridecennali occupazione, spoliazione, persecuzione e apartheid in Palestina.”

Mentre la Corte di per sé non ha il potere di imporre l’applicazione della sentenza provvisoria, e neppure il verdetto definitivo che emetterà sul caso, secondo alcuni analisti le sue decisioni di venerdì potrebbero influire sulla guerra a Gaza. Nelle scorse settimane sono aumentate le pressioni su Israele e sui suoi sostenitori americani, mentre continuano a guadagnare terreno gli appelli internazionali per un cessate il fuoco.

La sentenza di venerdì non stabilisce se Israele stia commettendo un genocidio, come ha sostenuto il Sudafrica. Ma la giudice Joan Donahue, attuale presidentessa della CIG, annunciando le misure provvisorie ha affermato che la Corte ha concluso che la “situazione catastrofica” a Gaza potrebbe peggiorare ulteriormente durante il periodo che passerà prima del verdetto finale, e ciò richiede misure transitorie.

“La sentenza invia il forte messaggio a Israele che la Corte vede la situazione come molto grave e che Israele dovrebbe fare quello che può per esercitare moderazione nel portare avanti la sua campagna militare,” afferma Michael Becker, docente di diritto internazionale umanitario al Trinity College di Dublino e che è stato anche un giurista associato presso la Corte Internazionale di Giustizia all’Aia dal 2010 al 2014.

La guerra può continuare?

Nei suoi provvedimenti provvisori la CIG non ordina a Israele di interrompere la campagna militare a Gaza. Nella sua richiesta di interventi temporanei il Sudafrica, citando la possibilità di un genocidio a Gaza, aveva sollecitato una decisione per la cessazione immediata.

Nel marzo 2022, un mese dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina, la Corte aveva ordinato alla Russia di interrompere la sua guerra in Ucraina, ma Mosca ha ignorato quella sentenza.

Quindi Israele non violerebbe le indicazioni di venerdì della CIG continuando la guerra che, insiste ad affermare, proseguirà finché non avrà distrutto Hamas, il gruppo armato palestinese che il 7 ottobre ha attaccato Israele uccidendo circa 1.200 persone e rapito altre 240.

Tuttavia il governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sarà probabilmente più che mai sottoposto a controllo riguardo alle azioni dei suoi soldati a Gaza e alle affermazioni dei suoi leader e generali.

In base alla sentenza della CIG, a Israele viene chiesto di sottoporre un rapporto entro un mese per dimostrare che sta rispettando le misure provvisorie. Il Sudafrica avrà la possibilità di smentire le affermazioni di Israele.

Israele darà seguito alla sentenza della CIG?

Quando, alla fine di dicembre, il Sudafrica ha presentato la sua denuncia alla CIG, i politici israeliani l’hanno liquidata come una “menzogna” e accusato i sudafricani di “ipocrisia”. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato che Israele non si sarebbe lasciato influenzare da alcuna sentenza.

“Ripristineremo la sicurezza sia a sud che a nord,” ha scritto Netanyahu sulla piattaforma X, ex Twitter, dall’account ufficiale della presidenza del consiglio israeliana. “Nessuno ci fermerà, né l’Aia, né l’asse del male, né altri.”

Ma, anche se Israele decidesse di non rispettare la sentenza della CIG, ci saranno pressioni sui suoi sostenitori internazionali.

“I politici israeliani hanno già detto che ignoreranno l’ordine della CIG,” dice ad Al Jazeera Mark Lattimer, direttore esecutivo del Ceasefire Centre for Civilian Rights [Centro del Cessate il Fuoco per i Diritti dei Civili, ong britannica, ndt.]. “È molto più difficile, soprattutto per gli USA e gli Stati europei, compresa la Gran Bretagna, ignorare l’ingiunzione, perché essi hanno una storia molto più solida di sostegno e supporto alla Corte Internazionale di Giustizia.”

Alcuni giuristi prevedono che gli alleati occidentali di Israele, tra cui gli USA, rispetteranno la sentenza della CIG. Non farlo avrebbe gravi ripercussioni.

Ciò minerebbe la “credibilità dell’ordine internazionale basato sulle regole che gli USA sostengono di difendere,” afferma Lattimer. Aggiunge che ciò “rafforzerà anche una crescente divisione” tra gli USA e i Paesi occidentali nei confronti del Sud globale, che vede con scetticismo questa asserita “difesa dell’ordine internazionale”.

La sentenza accrescerà le pressioni internazionali per un cessate il fuoco?

Mentre la sentenza di per sé non chiede il cessate il fuoco, essa potrebbe rendere più difficile per gli alleati di Israele continuare a ostacolare i tentativi internazionali di porre fine alla guerra.

“La sentenza della CIG accentua notevolmente la pressione sugli USA e gli altri alleati occidentali perché portino avanti una risoluzione per il cessate il fuoco,” dice ad Al Jazeera Zaha Hassan, avvocata per i diritti umani e ricercatrice presso il Carnegie Endowment for International Peace [gruppo di ricerca indipendente sulla pace con sede a Washington, ndt.]. “Ciò rende molto più difficile agli USA, insieme a Israele, far accettare ai governi occidentali, che si preoccupano ancora molto della legittimità internazionale, di continuare a sostenere che a Gaza Israele sta agendo all’interno dei limiti delle leggi internazionali e per autodifesa.”

Alcune prove suggeriscono che lo sa anche Israele. Secondo alcuni esperti, poco dopo che il Sudafrica ha annunciato che avrebbe portato il caso davanti alla CIG, la strategia di Israele sul terreno ha iniziato a cambiare.

C’è stata “una corsa per eliminare ogni possibilità di un ritorno dei palestinesi nel nord di Gaza,” sostiene Hassan, evidenziando i bombardamenti mirati contro università e ospedali. “Una volta che hai tolto di mezzo gli ospedali hai reso impossibile alle persone restare durante una guerra. È parte di una strategia per obbligare la popolazione palestinese a trasferirsi e per uno sfollamento permanente.”

Ma questo dovrebbe essere la consapevolezza del fatto che il tempo a disposizione di Israele per portare avanti la sua campagna militare sta per scadere.

“C’è bisogno di una pressione internazionale sufficiente a creare sostanzialmente più incentivi per negoziare un cessate il fuoco,” afferma Lattimer. “L’ordinanza della CIG è un importante contributo.”

Compagni d’armi

Soprattutto gli USA hanno fornito l’aiuto militare su cui si basa Israele per continuare a condurre la guerra. Il presidente Joe Biden ha eluso il Congresso USA due volte in un mese per dare l’approvazione alla vendita d’emergenza di armi a Israele.

L’amministrazione Biden sostiene di aver chiesto a Israele di proteggere la vita dei civili, ma ciò non gli ha evitato pesanti critiche, anche interne, per non aver convinto Israele a prestare maggiore attenzione alle vite innocenti a Gaza.

“Questa amministrazione è preoccupata del crescente numero di membri del Congresso, soprattutto senatori democratici moderati che stanno dando segnali d’allarme contro l’uso scorretto delle armi americane e la possibile complicità degli USA se continuano a inviare rifornimenti incondizionati a Israele,” dice Hassan.

La sentenza della CIG potrebbe dare maggiore impulso alla promozione di un cessate il fuoco a Gaza e affinchè gli USA insistano per un maggiore livello di controllo quando si tratta delle azioni dell’esercito israeliano.

“Nel momento stesso in cui gli USA diranno ‘Non continueremo più a rifornirvi’ questa guerra contro Gaza finirà,” sostiene Hassan.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Abbiamo uno strumento per fermare i crimini di guerra di Israele: il BDS

Naomi Klein

10 gennaio 2024 – The Guardian

Nel 2005 i palestinesi hanno chiesto al mondo di boicottare Israele finché non rispetterà il diritto internazionale. Cosa sarebbe successo se li avessimo ascoltati?

Questa settimana, esattamente 15 anni fa, pubblicai un articolo su The Guardian. Iniziava così: “È ora. Da molto tempo. La miglior strategia per porre fine alla sempre più sanguinosa occupazione è che Israele diventi il bersaglio del tipo di movimento globale che ha posto termine all’apartheid in Sudafrica. Nel luglio 2005 una grande coalizione di organizzazioni palestinesi ha presentato un piano per fare proprio questo. Hanno chiesto alle persone di coscienza in tutto il mondo di imporre un boicottaggio generale e mettere in atto iniziative di disinvestimento contro Israele simili a quelle applicate al Sudafrica dell’era dell’apartheid. Era nata la campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni.”

Nel gennaio 2009 Israele scatenò una nuova fase sconvolgente di omicidi di massa nella Striscia di Gaza, denominando la sua feroce campagna di bombardamenti operazione “Piombo fuso”. Uccise 1.400 palestinesi in 22 giorni; il numero di vittime israeliane fu di 13. Questa per me fu la goccia che fece traboccare il vaso, e dopo anni di reticenza mi espressi pubblicamente a favore dell’appello guidato dai palestinesi per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele, noto come BDS, finché non rispetterà le leggi internazionali e i principi universali dei diritti umani.

Nonostante il BDS avesse l’appoggio di più di 170 organizzazioni della società civile palestinese, a livello internazionale il movimento era ancora piccolo. Durante l’operazione Piombo fuso iniziò a cambiare, e vi aderì un crescente numero di associazioni studentesche e sindacati fuori dalla Palestina aderirono.

Però molti non lo fecero. Capivo perché questa tattica veniva percepita come problematica. C’è una lunga e penosa storia di attività economiche e istituzioni ebraiche prese di mira da antisemiti. Gli esperti in comunicazione che fanno pressione a favore di Israele sanno utilizzare questo trauma come arma, quindi etichettano invariabilmente campagne intese a combattere le politiche discriminatorie e violente di Israele come attacchi di odio verso gli ebrei in quanto gruppo identitario.

Per vent’anni il timore diffuso che deriva da questa falsa equazione ha protetto Israele dal dover affrontare tutto il potenziale di un movimento BDS, e ora, mentre la Corte Internazionale di Giustizia può ascoltare la devastante raccolta di prove del Sudafrica sul fatto che Israele sta commettendo il crimine di genocidio a Gaza, è più che sufficiente.

Dal boicottaggio degli autobus al disinvestimento sui combustibili fossili, le tattiche BDS hanno una storia ben documentata come l’arma più efficace dell’arsenale non-violento. Accoglierle e utilizzarle in questo momento di svolta per l’umanità è un obbligo morale.

La responsabilità è particolarmente grave per quanti di noi i cui governi continuano ad aiutare attivamente Israele con armi letali, lucrosi accordi commerciali e veti alle Nazioni Unite. Come ci ricorda il BDS, non dobbiamo consentire che questi accordi fallimentari parlino per noi senza contrastarli.

Gruppi di consumatori organizzati hanno il potere di boicottare imprese che investono nelle colonie illegali o riforniscono Israele di armi. I sindacati possono spingere i loro fondi pensione a disinvestire da queste imprese. Governi locali possono selezionare i fornitori in base a criteri etici che vietano questi rapporti. Come ci ricorda Omar Barghouti, uno dei fondatori e dirigenti del movimento BDS, “il più profondo obbligo etico in questi tempi è agire per porre fine alla complicità. Solo così possiamo realmente sperare di porre fine all’oppressione e alla violenza.”

In questo modo il BDS merita di essere visto come la politica estera del popolo, o la diplomazia dal basso, e se questa è sufficientemente forte obbligherà finalmente i governi ad imporre sanzioni dall’alto, come il Sudafrica sta cercando di fare. Che è chiaramente l’unica forza che può far cambiare rotta a Israele.

Barghouti sottolinea che, proprio come alcuni sudafricani bianchi hanno appoggiato le campagne contro l’apartheid durante quella lunga lotta, gli ebrei israeliani che si oppongono alle sistematiche violazioni del diritto internazionale da parte del loro Paese sono benvenuti nel BDS. Durante Piombo fuso un gruppo di circa 500 israeliani, molti dei quali importanti artisti e studiosi, fecero proprio questo, chiamando in seguito il loro gruppo Boicottaggio dall’interno.

Nel mio articolo del 2009 citavo la loro prima lettera per fare pressione, che chiedeva “l’adozione di immediate misure restrittive e sanzioni” contro il loro stesso Paese e faceva un parallelo diretto con la lotta sudafricana contro l’apartheid. “Il boicottaggio contro il Sudafrica è stato efficace,” sottolineavano, affermando che aveva contribuito a porre fine alla legalizzazione della discriminazione e ghettizzazione in quel Paese e aggiungendo: “Ma Israele è trattato con i guanti… Questo sostegno internazionale deve finire.”

Ciò era vero 15 anni fa; lo è in modo devastante oggi.

Il prezzo dell’impunità

Leggendo i documenti del BDS dalla metà alla fine degli anni 2000, sono rimasta molto colpita da quanto il contesto politico e umano si sia deteriorato. Negli anni successivi Israele ha costruito più muri, ha eretto più checkpoint, ha scatenato più coloni illegali e lanciato guerre molto più letali. Tutto è peggiorato: il veleno il livore, la rabbia, la convinzione di essere nel giusto, di aver ragione.

Chiaramente l’impunità, il senso di impenetrabilità e intangibilità che è alla base del modo in cui Israele tratta i palestinesi, non è una forza statica. Si comporta piuttosto come una fuoriuscita di petrolio: una volta rilasciata, filtra all’esterno, avvelenando tutto e tutti sul suo cammino. Si allarga e scende in profondità.

Da quando, nel luglio 2005, è stato scritto il primo appello per il BDS il numero di coloni che vivono illegalmente in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, è esploso, raggiungendo il numero stimato di 700.000, vicino a quello dei palestinesi espulsi nella Nakba del 1948. Come gli avamposti coloniali si sono estesi, così ha fatto la violenza degli attacchi dei coloni contro i palestinesi, tutto ciò mentre l’ideologia della supremazia ebraica e persino il fascismo esplicito si sono posti al centro della cultura politica israeliana.

Quando ho scritto il mio primo articolo sul BDS l’opinione assolutamente predominante era che l’analogia con il Sudafrica fosse scorretta e che la parola “apartheid”, che veniva usata da giuristi, attivisti e organizzazioni per i diritti umani palestinesi, fosse inutilmente provocatoria. Ora chiunque, da Humar Rights Watch ad Amnesty International, fino alla principale associazione israeliana per i diritti umani, B’Tselem, hanno fatto le loro attente analisi e sono arrivati alla inevitabile conclusione che apartheid è effettivamente il termine giuridico corretto per descrivere le condizioni sotto le quali israeliani e palestinesi conducono vite nettamente diseguali e segregate. Persino Tamir Pardo, ex-capo dell’agenzia di intelligence, il Mossad, ha ammesso il problema: “Qui c’è uno stato di apartheid,” ha affermato a settembre. “In un territorio in cui due popoli sono giudicati con due sistemi legali diversi, c’è uno stato di apartheid.”

Oltretutto molti adesso comprendono che l’apartheid esiste non solo nei territori occupati, ma all’interno dei confini di Israele del 1948, una questione esposta in un importante rapporto del 2022 dalla coalizione di associazioni palestinesi per i diritti umani riunita da Al-Haq [ong palestinese, ndt.]. È difficile sostenere il contrario quando l’attuale governo israeliano di estrema destra è arrivato al potere con un accordo di coalizione che afferma: “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le zone della Terra di Israele…la Galilea, il Negev, il Golan, Giudea e Samaria.” Quando regna l’impunità, tutto cambia e si muove, comprese le frontiere coloniali. Niente rimane statico.

Poi c’è Gaza. All’epoca il numero dei palestinesi uccisi nell’operazione Piombo fuso sembrava inimmaginabile. Abbiamo rapidamente imparato che non si trattava di un caso isolato. Diede invece inizio a una nuova politica omicida a cui i comandanti militari israeliani si riferiscono con noncuranza come “tagliare l’erba”: ogni due anni c’è stata una nuova campagna di bombardamenti, con l’uccisione di centinaia di palestinesi o, nel caso dell’operazione Margine protettivo del 2014, più di 2.000, tra cui 526 minori.

Questi dati scioccarono di nuovo e scatenarono un’altra ondata di proteste. Non fu ancora sufficiente a porre fine all’impunità di Israele, che ha continuato ad essere protetto dal solido veto degli USA all’ONU, oltre che dal costante afflusso di armi. Ancor più distruttivi della mancanza di sanzioni internazionali sono state le ricompense: negli ultimi anni, insieme a tutta questa impunità, Washinton ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e poi vi ha spostato l’ambasciata. Ha anche mediato i cosiddetti accordi di Abramo, che hanno avviato intese di normalizzazione tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Sudan e il Marocco.

È stato Donald Trump che ha iniziato a ricoprire Israele di questi ultimi regali a lungo cercati, ma il processo è continuato allo stesso modo con Joe Biden. Così, alla vigilia del 7 ottobre, Israele e Arabia Saudita stavano per firmare quello che è stato frivolmente acclamato come “l’accordo del secolo”.

Dov’erano i diritti e le aspirazioni dei palestinesi in tutti questi accordi? Assolutamente da nessuna parte. Perché l’altra cosa che è cambiata in questi anni di impunità è stata ogni scusa che Israele intendeva per tornare al tavolo dei negoziati. L’evidente obiettivo è stato reprimere con la forza, insieme all’isolamento fisico e politico e alla frammentazione, il movimento dei palestinesi per l’autodeterminazione.

Sappiamo come sono andati a finire i successivi capitoli di questa storia. L’orripilante attacco di Hamas il 7 ottobre. La furibonda determinazione israeliana di sfruttare quei crimini per fare quello che alcuni importanti dirigenti del governo volevano fare comunque da molto tempo: spopolare Gaza dei palestinesi, che attualmente sembrano cercare di fare attraverso la combinazione di uccisioni dirette, demolizione massiccia di case (“domicidio”), la diffusione di fame, sete e malattie infettive e infine espulsioni di massa.

Sia chiaro: questo è il risultato di consentire a uno Stato di fare tutto quello che vuole, lasciare che l’impunità regni senza controllo per decenni, utilizzando i veri traumi collettivi patiti dal popolo ebraico come scusa senza fine e storia di copertura. Un’impunità come questa non inghiottirà solo un Paese, ma ogni Paese con cui è alleato, l’intera architettura del diritto umanitario forgiato tra le fiammo dell’Olocausto nazista. Se lo consentiamo.

Un decennio di attacchi giudiziari contro il BDS

Il che pone un’altra questione che non è rimasta costante nel corso degli ultimi 20 anni: la crescente ossessione israeliana per reprimere il BDS, anche a costo di diritti politici faticosamente conquistati. Nel 2009 c’erano molti argomenti di chi criticava il BDS sul perché fosse una cattiva idea. Alcuni temevano che il boicottaggio culturale e accademico avrebbe bloccato il necessario dialogo con i progressisti israeliani e che si sarebbe trasformato in censura. Altri sostenevano che misure punitive avrebbero creato una reazione e spostato Israele ancora più a destra.

Quindi, ripensandoci adesso, è sorprendente che queste discussioni iniziali siano sostanzialmente sparite dalla sfera pubblica, e non perché una parte abbia vinto il dibattito. Sono scomparse perché la stessa idea di discuterne è stata sostituita da una strategia totalizzante: utilizzare l’intimidazione giudiziaria e istituzionale per rendere impraticabili le tattiche del BDS e bloccare il movimento.

Secondo Palestine Legal [gruppo di difesa giudiziaria con sede a Chicago, ndt.], che ha monitorato da vicino questa impennata, ad oggi negli Stati Uniti sono state istituite in totale 293 leggi anti-BDS in tutto il Paese, e sono state approvate in 38 Stati. Spiega che alcune leggi prendono di mira i finanziamenti alle università, altre prevedono che chiunque vinca un appalto con uno Stato o lavori per esso firmi un contratto in cui si impegna a non boicottare Israele, e altre ancora “chiedono allo Stato di compilare liste nere pubbliche di organizzazioni che fanno boicottaggio a favore dei diritti dei palestinesi o appoggiano il BDS.” Nel contempo in Germania il sostegno ad ogni forma di BDS è sufficiente perché vengano revocati premi, tolti finanziamenti, spettacoli e conferenze vengano annullati (una cosa che ho potuto sperimentare di persona).

Non sorprende che questa strategia sia ancora più aggressiva all’interno di Israele. Nel 2011 il Paese ha emanato la legge per la Prevenzione dei Danni per lo Stato di Israele attraverso il Boicottaggio, stroncando efficacemente fin dai suoi inizi il nascente movimento “Boicottaggio dall’interno”. Il centro legale Adalah, un’organizzazione che lavora per i diritti della minoranza araba in Israele, spiega che la legge “vieta la promozione pubblica del boicottaggio accademico, economico o culturale da parte di cittadini e organizzazioni israeliani contro istituzioni israeliane o contro le illegali colonie israeliane in Cisgiordania. Consente di presentare denunce giudiziarie contro chiunque chieda il boicottaggio.” Come le leggi a livello statale negli USA, “proibisce anche a una persona che sostenga il boicottaggio di partecipare a gare di appalto pubbliche.” Nel 2017 Israele ha iniziato a impedire l’ingresso in Israele ad attivisti del BDS; 20 associazioni internazionali, compresa la coraggiosa [organizzazione] contro la guerra Jewish Voice for Peace, sono state messe sulla cosiddetta lista nera BDS.

Nel contempo negli USA lobbisti a favore delle imprese energetiche e dei fabbricanti di armi stanno prendendo spunto dall’offensiva giudiziaria contro il BDS e propugnano leggi fotocopia per limitare campagne di disinvestimento rivolte ai loro clienti. “Ciò spiega perché sia così pericoloso consentire questo tipo di eccezione palestinese alla [libertà di] parola,” ha detto alla rivista Jewish Currents Meera Shah, importante avvocatessa che fa parte di Palestine Legal. “Perché non danneggia solo il movimento per i diritti dei palestinesi, di fatto colpisce anche altri movimenti sociali.” Ancora una volta niente rimane fermo, l’impunità si estende e quando i diritti al boicottaggio e al disinvestimento vengono tolti alla solidarietà per la Palestina, si cancella anche il diritto di utilizzare questi stessi strumenti per sostenere l’attivismo contro i cambiamenti climatici, per il controllo delle armi e per i diritti LGBTQ+.

In un certo senso questo è un vantaggio, perché rappresenta un’opportunità di rafforzare alleanze tra movimenti. Ogni importante organizzazione e sindacato progressista ha interesse a proteggere il diritto al boicottaggio e al disinvestimento come principio fondamentale della libertà di espressione e strumento critico di trasformazione sociale. La piccola squadra di Palestine Legal ha guidato in modo straordinario l’opposizione negli USA avviando procedimenti giudiziari contro le leggi anti-BDS in quanto anticostituzionali e appoggiando le cause di altri. Meritano un sostegno molto maggiore.

È finalmente il momento del BDS?

C’è un altro motivo per essere fiduciosi: la ragione per cui Israele perseguita il BDS con tanta ferocia è la stessa per cui così tanti attivisti hanno continuato a credere in esso nonostante questi attacchi su più fronti. Perché può funzionare.

Lo abbiamo visto quando imprese multinazionali si ritirarono dal Sudafrica negli anni ‘80. Non fu perché vennero improvvisamente colpite da una rivelazione morale antirazzista. Piuttosto, dato che il movimento era diventato internazionale e le campagne di boicottaggio e disinvestimento iniziavano a influenzare la vendita di auto e i clienti delle banche fuori dal Paese, queste imprese ritennero che a loro sarebbe costato di più rimanere in Sudafrica che andarsene. I governi occidentali iniziarono tardivamente a imporre sanzioni per le stesse ragioni.

Ciò danneggiò il settore commerciale sudafricano, parte del quale mise sotto pressione il governo dell’apartheid perché facesse concessioni ai movimenti per la liberazione dei neri che si erano ribellati per decenni contro l’apartheid con rivolte, scioperi di massa e la resistenza armata. I costi di mantenere il crudele e violento status quo stavano crescendo sempre di più anche per l’élite sudafricana.

Alla fine degli anni ‘80 la tenaglia della pressione dall’esterno e dall’interno crebbe tanto che il presidente F. W. de Klerk fu obbligato a liberare Nelson Mandela dal carcere dopo 27 anni e poi a tenere elezioni democratiche, che portarono Mandela alla presidenza.

Le organizzazioni palestinesi che hanno tenuto viva la fiamma del BDS attraverso alcuni anni molto cupi sperano ancora nel modello sudafricano di pressioni dall’esterno. Infatti, mentre Israele perfeziona l’architettura e la progettazione della ghettizzazione e dell’espulsione, esso potrebbe essere l’unica speranza.

Ciò a causa del fatto che Israele è decisamente meno sensibile alla pressione interna da parte dei palestinesi di quanto lo fossero i sudafricani bianchi sotto l’apartheid, che dipendevano dalla manodopera dei neri per tutto, dal lavoro domestico alle miniere di diamanti. Quando i sudafricani neri si rifiutarono di lavorare o si impegnarono in altre forme di danneggiamento dell’economia, ciò non poté essere ignorato.

Israele ha imparato dalla vulnerabilità del Sudafrica; dagli anni ‘90 si è progressivamente ridotta la sua dipendenza dal lavoro dei palestinesi, soprattutto grazie ai cosiddetti lavoratori ospiti e all’ingresso di circa un milione di ebrei dall’ex Unione Sovietica. Ciò ha contribuito a rendere possibile per Israele passare dal modello di oppressione dell’occupazione all’attuale modello di ghettizzazione, che cerca di far sparire i palestinesi dietro a imponenti muri con sensori ad alta tecnologia e il molto decantato sistema di difesa aerea israeliana Iron Dome.

Ma questo modello, chiamiamola bolla fortificata, porta con sé vulnerabilità, e non solo per gli attacchi di Hamas. La vulnerabilità più strutturale deriva dall’estrema dipendenza di Israele dal commercio con l’Europa e il Nord America per tutto, dal suo settore turistico a quello tecnologico per la sorveglianza basato sull’intelligenza artificiale. Il marchio che Israele ha forgiato per se stesso è quello di un aggressivo, moderno avamposto occidentale nel deserto, una piccola bolla di San Francisco o Berlino che casualmente si è ritrovato nel mondo arabo.

Ciò lo rende straordinariamente suscettibile solamente alle azioni del BDS, compreso il boicottaggio culturale e accademico. Perché quando popstar che vogliono evitare polemiche cancellano le loro date a Tel Aviv, prestigiose università USA interrompono la loro collaborazione con quelle israeliane dopo aver assistito alla distruzione di varie scuole e università palestinesi e il bel mondo non sceglie più Eilat per le proprie vacanze perché i follower su Instagram non ne rimangono impressionati, ciò danneggia tutto il modello economico israeliano e la sua autorappresentazione.

Ciò metterà pressione dove i dirigenti israeliani oggi sono poco sensibili. Se le imprese internazionali di alta tecnologia e di progettazione smetteranno di vendere prodotti e servizi all’esercito israeliano, ciò aumenterà ancor di più la pressione, forse abbastanza da cambiare le dinamiche della politica. Gli israeliani vogliono disperatamente far parte della comunità mondiale, e se si troveranno improvvisamente isolati molti più elettori potranno iniziare a chiedere alcune delle azioni che gli attuali dirigenti israeliani scartano immediatamente, come negoziare con i palestinesi per una pace duratura radicata nella giustizia e nell’uguaglianza, come definita dalle leggi internazionali, piuttosto che cercare di proteggere la bolla fortificata con fosforo bianco e pulizia etnica.

Ovviamente il nodo è che, perché le tattiche non violente del BDS funzionino, le vittorie non possono essere sporadiche o marginali. Devono essere sostanziali e diffuse, almeno quanto la campagna sudafricana, che vide importanti imprese come la General Motors e la banca Barclays ritirare i loro investimenti, mentre artisti molto popolari come Bruce Springsteen e Ringo Starr riunirono il supergruppo per antonomasia degli anni ‘80 per cantare a squarciagola “Non suonerò a Sun City”, un riferimento alla lussuosa e iconica località sudafricana.

Il movimento BDS che prende di mira l’ingiustizia israeliana è sicuramente cresciuto negli ultimi 15 anni. Barghouti stima che “i sindacati dei lavoratori e dei contadini, così come movimenti per la giustizia razziale, di genere e per il clima” che lo appoggiano “insieme rappresentino decine di milioni in tutto il mondo”. Ma il movimento deve ancora raggiungere un punto di svolta di livello sudafricano.

Tutto questo ha avuto un costo. Non c’è bisogno di essere uno storico delle lotte di liberazione per sapere che, quando tattiche con una base etica sono ignorate, emarginate, calunniate e bandite, altre tattiche, slegate da queste preoccupazioni etiche, diventano molto più interessanti per persone alla disperata ricerca di una qualunque speranza di cambiamento.

Non sapremo mai quanto avrebbe potuto essere diverso il presente se molte più persone, organizzazioni e governi avessero dato ascolto all’appello BDS fatto dalla società civile palestinese quando venne lanciato nel 2005. Qualche giorno fa, quando ho contattato Barghouti, non stava guardando indietro a 20, ma a 75 anni di impunità. Israele, ha detto, “non sarebbe stato in grado di perpetrare il suo continuo genocidio a Gaza mostrato in televisione senza la complicità con il suo sistema di oppressione di Stati, imprese e istituzioni.” La complicità, ha sottolineato, è qualcosa che abbiamo sempre il potere di rifiutare.

Una cosa è certa: le attuali atrocità a Gaza rafforzano drammaticamente la causa del boicottaggio, del disinvestimento e delle sanzioni. Le tattiche nonviolente, che molti hanno cancellato in quanto estremiste o nel timore di essere etichettati come antisemiti, appaiono in modo molto diverso attraverso la fosca luce di vent’anni di massacri, con nuove rovine sulle vecchie, nuovi dolori e traumi scolpiti nella psiche delle nuove generazioni e nuovi abissi di depravazione raggiunti sia a parole che nei fatti.

Domenica scorsa nel suo spettacolo finale su MSNBC [canale televisivo statunitense via cavo di notizie, ndt.] Mehdi Hasan ha intervistato il fotogiornalista palestinese di Gaza Motaz Azaiza, che rischia la vita ogni giorno per inviare al mondo le immagini delle uccisioni di massa da parte di Israele. Il suo messaggio agli spettatori statunitensi è stato netto: “Non definitevi persone libere se non potete fare cambiamenti, se non potete fermare un genocidio che è ancora in corso.”

In un momento come questo siamo quello che facciamo. Molta gente ha fatto più di quanto abbia mai fatto in pricedenza: bloccato l’invio di armi, occupato sedi del governo chiedendo un cessate il fuoco, partecipato a proteste di massa, detto la verità, per quanto difficile. La combinazione di queste azioni potrebbe aver contribuito allo sviluppo più significativo nella storia del BDS: il ricorso del Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) dell’Aia in cui accusa Israele di commettere un genocidio e chiede misure temporanee per fermare il suo attacco contro Gaza.

Una recente analisi del giornale israeliano Haaretz nota che, se la CIG sentenziasse a favore del Sudafrica, anche se gli USA ponessero il veto alle Nazioni Unite su un intervento militare, “un decreto ingiuntivo potrebbe dare come risultato che Israele e imprese israeliane vengano boicottate e sottoposte a sanzioni imposte da singoli Paesi o da gruppi di Nazioni.”

Nel contempo boicottaggi dal basso stanno già iniziando a farsi sentire. A dicembre Puma, uno dei principali bersagli del BDS, ha fatto sapere che porrà fine alla sua controversa sponsorizzazione della squadra nazionale di calcio israeliana. Prima di questo in Italia c’è stato un esodo di artisti da un importante festival del fumetto dopo che si è scoperto che l’ambasciata israeliana era tra gli sponsor.

E questo mese Chris Kempczinski, amministratore delegato di McDonald, ha scritto che quella che ha chiamato “disinformazione” stava avendo “un importante impatto economico” su alcune delle sue vendite in “vari mercati mediorientali e altri fuori dalla regione”. Si è trattato di un riferimento a un’ondata di indignazione scatenata dalla notizia secondo cui McDonald Israel aveva donato migliaia di pasti ai soldati israeliani. Kempczinski ha cercato di distanziare la marca internazionale da “gestori locali,” ma poche persone del movimento BDS sono state convinte da questa distinzione.

Mentre la spinta a favore del BDS continua ad aumentare, sarà fondamentale essere ben consapevoli che siamo nel bel mezzo di un’allarmante e concreta impennata di crimini d’odio, molti dei quali contro palestinesi e musulmani, ma anche contro attività economiche e istituzioni ebraiche solo per il fatto che sono tali. Questo è antisemitismo, non attivismo politico.

Il BDS è un movimento serio e non violento, con un modello organizzativo consolidato. Pur lasciando autonomia ai militanti locali per definire quali campagne funzioneranno nei loro territori, il Comitato Nazionale del BDS (BNC) stabilisce i principi guida del movimento e seleziona con cura come obiettivo un piccolo gruppo di imprese scelte “in base alla complicità da loro dimostrata con le violazioni dei diritti umani dei palestinesi da parte di Israele.”

Il BNC ha anche ben chiaro che non chiede il boicottaggio dei singoli israeliani in quanto tali, affermando di “rifiutare per principio il boicottaggio di singole persone in base alle loro opinioni o identità (come la cittadinanza, la razza, il genere o la religione)”. In altre parole i bersagli sono le istituzioni complici dei sistemi di oppressione, non le persone.

Nessun movimento è perfetto. Ogni movimento farà passi falsi. Ora tuttavia la questione più pressante ha poco a che vedere con la perfezione. È semplicemente questa: cosa ha maggiori possibilità di cambiare uno status quo moralmente intollerabile, fermando nel contempo ulteriore spargimento di sangue?  Gideon Levy, indomito giornalista di Haaretz, non si fa illusioni su quello che ci vorrà. Recentemente ha detto ad Owen Jones [editorialista inglese di sinistra, ndt.]: “La chiave è la comunità internazionale, intendo dire che Israele non cambierà da solo… La formula è molto semplice: finché gli israeliani non pagheranno e non verranno puniti per l’occupazione, non saranno chiamati a rendere conto di essa e non lo sentiranno nel quotidiano, non cambierà niente.”

È tardi

Nel luglio 2009, pochi mesi dopo che il mio primo articolo sul BDS era stato pubblicato, viaggiai a Gaza e in Cisgiordania. A Ramallah tenni una conferenza sulla mia decisione di appoggiare il BDS. Includeva scuse per non aver aggiunto prima la mia voce, cosa che confessai derivare dalla paura che la tattica fosse troppo estremista in quanto diretta contro uno Stato fondato sul trauma ebraico; paura che sarei stata accusata di tradire il mio popolo. Timori che ho ancora. “Meglio tardi che mai,” mi disse un membro del gentile pubblico dopo il discorso.

Allora era tardi; lo è ancora adesso. Ma non troppo tardi. Non troppo tardi perché tutti noi creiamo la nostra politica estera dal basso, che intervenga nella cultura e nell’economia in modo intelligente e strategico, che offra una speranza tangibile che finalmente siano finiti i decenni di impunità senza controllo di Israele.

Come ha chiesto la scorsa settimana il comitato nazionale del BDS: “Se non ora, quando? Il movimento sudafricano contro l’apartheid si organizzò per decenni per conquistare un vasto appoggio internazionale che portò alla caduta dell’apartheid, e l’apartheid crollò. La libertà è inevitabile. Ora è tempo di attivarsi per unirsi al movimento per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza in Palestina.”

Basta. È il momento di un boicottaggio.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Una rottura inevitabile: l’Operazione Al-Aqsa e la fine della partizione

Tareq Baconi 

26 novembre 2023, Al Shakaba 

L’offensiva a sorpresa di Hamas del 7 ottobre 2023 ha inferto un colpo letale all’esercito e all’opinione pubblica israeliana dalla fondazione dello Stato nel 1948. Per ritorsione, Israele ha lanciato il più vasto attacco militare della storia a Gaza, distruggendo ampie parti del territorio e uccidendo oltre 14.000 palestinesi, più di un terzo dei quali minori. Con il via libera degli Stati Uniti e di gran parte dell’Europa, Israele ha portato avanti quella che studiosi ed esperti hanno definito una campagna di genocidio, cercando di sbarazzarsi dei palestinesi di Gaza con il pretesto di decimare Hamas.

La velocità con cui Israele si è mobilitato e la portata del suo attacco avvalorano la convinzione palestinese che il regime di occupazione coloniale stia attuando piani predisposti da tempo per l’espulsione di massa. Nel frattempo, i funzionari israeliani hanno utilizzato una campagna narrativa di disumanizzazione dei palestinesi per porre le basi per una giustificazione dell’immensa violenza.

In contrasto a questo scenario, questo articolo riconduce l’ultimo attacco israeliano a Gaza al suo contesto più ampio;e analizza la ghettizzazione della terra palestinese da parte di Israele attraverso la partizione in bantustan e individua l’Operazione Diluvio di Al-Aqsa di Hamas come momento di rottura del sistema di partizione. È importante che si metta in primo piano la questione di ciò che verrà dopo la partizione e si ponga un freno alle crescenti possibilità di pulizia etnica dei palestinesi.

Gaza: il peggior bantustan d’Israele

Israele afferma di essere uno Stato sia ebraico che democratico, rifiutandosi di dichiarare i propri confini ufficiali e controllando totalmente un territorio all’interno dei cui confini vivono più palestinesi che ebrei. Per raggiungere questa realtà è necessaria una sofisticata struttura di ingegneria demografica, basata sulla diversificazione legale dei palestinesi e sullo stretto controllo dei loro movimenti e luoghi di residenza, confinandoli in enclave geografiche. Questo sistema è nato dall’ondata iniziale di espulsione di massa e pulizia etnica dei palestinesi avvenuta nel 1948, in cui più di 530 villaggi palestinesi furono spopolati per fare spazio ai coloni ebrei. Questa pratica coloniale di insediamento non è ancora chiusa nei libri di storia.

Ciò che i palestinesi chiamano Nakba è in corso da allora, con le quotidiane pratiche di colonizzazione di Israele che assumono forme diverse in diverse aree sotto il suo controllo. E costituisce un il pilastro centrale del regime di apartheid di Israele.

Gaza rappresenta storicamente la manifestazione più estrema del sistema israeliano di bantustan per i palestinesi. Con una delle più alte densità di popolazione del mondo, Gaza è composta prevalentemente da rifugiati espulsi dalle terre intorno alla Striscia durante l’istituzione di Israele nel 1948. In effetti, molti dei combattenti che hanno fatto irruzione nelle città israeliane il 7 ottobre sono probabilmente discendenti di rifugiati proprio da quelle terre in cui sono planati o strisciati, entrandovi per la prima volta dall’espulsione delle loro famiglie.

Dal 1948 Israele si è dedicato con impegno a recidere ogni nesso tra l’attuale resistenza anticoloniale e lo storico e corrente sistema di apartheid israeliano. Mentre molti pensano che Gaza sia sotto blocco perché governata da Hamas, Israele in realtà ha sperimentato dal 1948 un’infinità di tattiche per depoliticizzare il territorio e pacificarne la popolazione. Queste tattiche hanno incluso lo strangolamento economico e il blocco, decenni prima che Hamas fosse fondato, e senza alcun risultato.

Con la presa del potere da parte di Hamas nel 2007, ai leader israeliani si è presentata un’opportunità: utilizzando la retorica del terrorismo, Israele ha posto Gaza sotto un blocco ermetico ignorando il programma politico del movimento sulla cui base era stato democraticamente eletto. Inizialmente il blocco doveva essere una tattica punitiva per forzare la capitolazione di Hamas, ma si è rapidamente trasformato in una struttura volta a contenere Hamas e a separare l’enclave costiera dal resto della Palestina. Con oltre due milioni di palestinesi invisibili dietro i muri e sotto assedio e blocco, il governo israeliano e gran parte dell’opinione pubblica israeliana – per non parlare dei leader occidentali – potevano lavarsi le mani della realtà che avevano creato.

Il blocco imposto dal regime di Israele serve all’obiettivo di contenimento sia dei palestinesi che di Hamas. Nel corso degli ultimi sedici anni, Israele ha fatto affidamento principalmente su Hamas per governare la popolazione di Gaza, pur mantenendo il controllo esterno dell’enclave. Hamas e il regime israeliano sono caduti in un equilibrio instabile, spesso sfociato in episodi di infinita violenza in cui migliaia di civili palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano. Per Israele questa dinamica ha funzionato così bene che non è mai stata necessaria una strategia politica per Gaza. Come altrove in tutta la Palestina, Israele ha fatto affidamento sulla gestione dell’occupazione piuttosto che affrontarne i fattori politici, mantenendosi signore supremo dell’occupazione nelle varie enclave palestinesi governate da entità sotto il suo controllo sovrano.

L’unico obiettivo che Israele ha perseguito negli ultimi quindici anni è stato quello di cercare di garantire una relativa calma agli israeliani, in particolare a quelli che risiedono nelle aree circostanti Gaza. Lo ha fatto utilizzando una forza militare schiacciante, anche se quella calma è raggiunta a costo dell’imprigionamento di una popolazione di milioni di persone e del loro mantenimento in condizioni prossime alla fame. Gaza è stata così completamente cancellata dalla psiche israeliana che i manifestanti che marciavano per proteggere la cosiddetta democrazia israeliana all’inizio del 2023 si illudevano di fatto che democrazia e apartheid fossero verosimili compagni di letto.

Il collasso del sistema di partizioni

Quindi per la maggior parte del pubblico israeliano e dei sostenitori di Israele all’estero l’offensiva di Hamas è arrivata dal nulla. Uscendo dalla prigione, le Brigate Al-Qassam – l’ala militare di Hamas – hanno rivelato la povertà strategica del presupposto secondo cui i palestinesi avrebbero consentito indefinitamente alla propria prigionia e sottomissione. Ancora più importante, l’operazione ha devastato la stessa fattibilità dell’approccio partizionista di Israele: la convinzione che i palestinesi possano essere dirottati nei bantustan mentre lo Stato colonizzatore continua a godere di pace e sicurezza – e persino espande le sue relazioni diplomatiche ed economiche nella regione circostante. Distruggendo l’idea che Gaza possa essere cancellata dall’equazione politica generale, Hamas ha fatto a brandelli l’illusione che la divisione etnica in Palestina sia una forma sostenibile o efficace di ingegneria demografica, per non parlare di morale o legalità.

Nel giro di poche ore dall’Operazione Diluvio di Al-Aqsa, l’infrastruttura che era stata messa in atto per contenere Hamas – e con essa, per cacciare i palestinesi da Gaza – è stata distrutta davanti agli occhi spesso increduli di tutti. Mentre i combattenti di Hamas irrompevano nel territorio controllato da Israele, la collisione tra il mito di Israele come Stato democratico e la sua realtà di portatore di un violento apartheid è stata scioccante, tragica e, in definitiva, irreversibile. Di conseguenza, israeliani e palestinesi sono stati gettati in un paradigma post-partizione, in cui sia la convinzione di Israele della sostenibilità dell’ingegneria demografica sia l’infrastruttura dei bantustan utilizzata si sono rivelate temporanee e inefficaci.

Il crollo del quadro partizionista ha presentato un paradosso: da un lato, i palestinesi e i loro alleati hanno cercato di diffondere la consapevolezza che Israele è uno Stato di apartheid coloniale di insediamento. Questa consapevolezza è servita agli sforzi di alcuni volti a promuovere la decolonizzazione e il perseguimento di un sistema politico radicato nella libertà, nella giustizia, nell’uguaglianza e nell’autodeterminazione. Molti palestinesi credono che il risultato della loro lotta per la liberazione sarà l’architettura politica di un tale spazio decolonizzato, una volta smantellati gli elementi centrali dell’apartheid – pulizia etnica, rifiuto di consentire il ritorno dei rifugiati e partizione.

D’altra parte, in assenza di un progetto politico in grado di sostenere questa lotta decoloniale, il collasso del 7 ottobre del sistema di partizione ha accelerato l’impegno di Israele alla pulizia etnica. Allo stesso modo ha rafforzato la convinzione fascista ed etnico-tribale secondo cui, senza partizione, solo gli ebrei possano esistere in sicurezza nella terra della Palestina colonizzata, dal fiume Giordano al mar Mediterraneo. In altre parole, il collasso delle possibilità partizioniste potrebbe aver gettato le basi per un’altra Nakba piuttosto che per un futuro decolonizzato.

I calcoli politici di Hamas

Questo paradosso spiega, in parte, il risentimento espresso nei confronti dell’offensiva di Hamas da parte anche di alcuni palestinesi che vedono nell’attacco l’inizio di un’altra crisi per la loro lotta collettiva. L’incombente possibilità di una pulizia etnica non deve essere sottovalutata, e lo sbalorditivo bilancio delle vittime che i civili di Gaza stanno sperimentando deve indurre tutti a riflettere sull’enorme costo provocato dall’operazione di Hamas, anche quando la responsabilità primaria di questa violenza ricada direttamente sul regime coloniale israeliano.

Tuttavia tale lettura travisa i calcoli politici di Hamas. Ovviamente c’è qualcosa di vero nell’insinuare che questa violenza sia stata scatenata dall’attacco di Hamas. Eppure la realtà era letale per i palestinesi anche prima dell’offensiva, anche se in misura minore di quanto avvenuto dopo il 7 ottobre. Era una violenza che si era normalizzata e che, nella sua essenza, aveva lo stesso scopo: uccidere i palestinesi in massa. La violenza a cui abbiamo assistito nel 2023 non è altro che lo scatenarsi della brutalità che ha sempre costituito le basi della lotta di Israele con i palestinesi in generale, e con quelli di Gaza in particolare.

La rottura era quindi inevitabile. Il contenimento di Hamas è stato efficace, ma dato l’impegno del movimento per la liberazione palestinese e il suo fermo rifiuto di concedere il riconoscimento dello Stato di Israele, è probabile che il contenimento sia sempre temporaneo a meno che non vengano compiuti seri sforzi per affrontare i fattori politici al centro della lotta palestinese per la liberazione. Con una popolazione in crescita a Gaza e carenze di governance sempre più acute, l’idea che Hamas non ribaltasse quella realtà – soprattutto con l’estendersi dell’impunità israeliana – era miope.

Ciò di cui Hamas è responsabile, e ciò di cui i palestinesi devono ritenerli responsabili, è la misura di una pianificazione – o la sua mancanza – per il giorno successivo all’attacco. Con la consapevolezza che Hamas e altri hanno acquisito nel corso degli anni, non ci potevano essere dubbi sul fatto che l’attacco di Hamas si sarebbe tradotto in furia scatenata contro i palestinesi per mano dell’esercito israeliano. Il movimento avrebbe dovuto essere – e forse lo era – preparato alla violenza che si è abbattuta successivamente su Gaza. Stabilire se i calcoli erano giusti, nonostante la tragica perdita di vite umane, è qualcosa con cui i palestinesi dovranno confrontarsi negli anni a venire.

Ipocrisia e colpe dell’Occidente

Invece di tentare di frenare l’attacco israeliano su Gaza, l’amministrazione Biden ha solo gettato benzina sul fuoco. Nel suo primo discorso dopo l’attentato, il presidente americano ha descritto Hamas come “male assoluto”, paragonandone l’offensiva a quelle dell’Isis; ha anche paragonato il 7 ottobre all’11 settembre e ha ripetutamente fatto riferimento a pretese brutalità poi ampiamente smentite per fomentare luoghi comuni orientalisti e islamofobici nel tentativo di giustificare la ferocia della risposta di Israele.

È importante notare che gli sforzi per collegare la resistenza palestinese in tutte le sue forme – pacifica o armata – al terrorismo sono molto anteriori all’attacco di Hamas. Durante la Seconda Intifada, evocare l’11 settembre da parte di Ariel Sharon trovò un pubblico ricettivo nell’amministrazione Bush, che era nelle prime fasi di elaborazione della sua dottrina di Guerra al Terrore. I mesi successivi videro Israele lanciare invasioni militari estremamente distruttive contro i campi profughi in Cisgiordania sotto il cartello della lotta al terrorismo.

Nel frattempo i principali media e gli spazi politici occidentali continuano a mancare di analisi approfondite e fondate sull’evolversi della situazione. Invece è stato proposto un imperante modello di disumanizzazione palestinese in modo così totale che qualsiasi tentativo di utilizzare le piattaforme dei media per smantellare – o semplicemente mettere in discussione – il sistema di dominio israeliano incontra reazioni perplesse e una condanna uniforme. In questa lettura Hamas avrebbe agito in modo irrazionale, i palestinesi di Gaza erano a disposizione del movimento come scudi umani e il sistema coloniale israeliano nel suo insieme era tranquillo e sostenibile prima del 7 ottobre. Queste reazioni, più che altro, segnalano l’ipocrisia occidentale e il razzismo anti-palestinese.

Ciò che è chiaro è che i leader occidentali si rifiutano pervicacemente di riconoscere l’attacco di Hamas per quello che è stato: una dimostrazione senza precedenti di violenza anticoloniale. L’Operazione Diluvio di Al-Aqsa è stata la risposta inevitabile all’incessante e interminabile provocazione di Israele con il furto di terre, l’occupazione militare, il blocco e l’assedio e la negazione del diritto fondamentale al ritorno in patria da più di 75 anni. Invece di riproporre analogie astoriche e rispolverare vecchie narrazioni, è giunto il momento che la comunità internazionale si confronti con la vera causa principale della violenza a cui stiamo assistendo: l’occupazione dei coloni israeliani e l’apartheid.

Per limitare il sangue che sarà versato quando il sistema di apartheid israeliano sarà messo in discussione, la comunità internazionale e in particolare l’Occidente devono prima fare i conti con il fatto di aver reso possibile un sistema politico etno-nazionalista che ha fatto a pezzi i diritti e le vite dei palestinesi. Il mondo deve affrontare la realtà, che le richieste politiche palestinesi non possono essere cancellate o messe da parte sotto la bandiera onnicomprensiva ma poco convincente della lotta al terrorismo. Invece di imparare la lezione, i politici occidentali sembrano contenti di servire come partner attivi nell’attuale campagna di pulizia etnica del regime israeliano: la nakba della mia generazione.

Tareq Baconi è presidente del consiglio direttivo di Al-Shabaka. È stato borsista di Al-Shabaka per la politica statunitense dal 2016 al 2017. Tareq è ex analista senior per Israele/Palestina ed Economia dei Conflitti presso l’International Crisis Group con sede a Ramallah, e autore di Hamas Contained: The Rise and Pacification of Palestine Resistance (Contenere Hamas: l’ascesa e la pacificazione della resistenza palestinese, Stanford University Press, 2018). Gli scritti di Tareq sono apparsi tra gli altri su London Review of Books, New York Review of Books, Washington Post, ed è di frequente cronista nei media regionali e internazionali. È redattore delle recensioni di libri per il Journal of Palestine Studies.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La Palestina è il genocidio che noi, popolo ebraico, possiamo fermare

Amanda Gelender

24 novemebre 2023 – Middle East Eye

Non possiamo consentire che l’anima morale dell’ebraismo muoia a causa del nostro silenzio collettivo sulla guerra genocida contro i palestinesi a Gaza

Mi siedo per scrivere questa lettera d’amore al mio amato popolo ebraico, mentre un genocidio si svolge sul mio schermo.

Questa lettera sgorga dal mio cuore verso i vostri. È un appello all’azione per risollevarci in solidarietà con la Palestina. Ho tanta profonda tenerezza per noi, la nostra storia e le orgogliose tradizioni che abbiamo mantenuto attraverso secoli di indicibili ingiustizie.

Sono cresciuta come alcuni di voi andando alla sinagoga in una comunità ebraica progressista americana. Celebrare e sostenere Israele era parte di quello che significava essere ebrea dal punto di vista culturale e religioso. Quando sono arrivata per la prima volta a comprendere quanto stava realmente succedendo nei territori palestinesi occupati avevo 18 anni ed ero iscritta al primo anno di college. Una coetanea ebrea mi parlò dei soprusi che Israele commette nel nostro nome.

Non sono orgogliosa di ammettere che il fatto che lei fosse ebrea fu probabilmente la sola ragione per cui le diedi ascolto: mi era stato insegnato dalla mia comunità che solo il popolo ebraico può realmente capire quanto Israele sia importante per la nostra sicurezza e il nostro benessere. Ripensandoci, vorrei aver creduto prima ai palestinesi.

I palestinesi hanno autorità sulla loro lotta per la libertà. Ma l’indottrinamento e il timore instillatimi in quanto bambina ebrea era troppo forte da superare finché la bolla del sionismo è scoppiata. Quando sono arrivata ad apprendere per la prima volta la dimensione della continua brutalità di Israele contro il popolo palestinese ho stentato a crederci. Gli adulti ebrei della mia famiglia mi parlavano di giustizia, diritti umani e dell’obbligo morale degli ebrei di coltivare il cambiamento sociale e di “migliorare il mondo” (tikkun olam). 

Com’è possibile che il mio popolo possa omettere la verità riguardo all’apartheid e all’occupazione israeliane? Mi è stato insegnato che Israele venne fondato su un pezzo di terra vuoto, non che le bande terroristiche sioniste fecero irruzione nei villaggi uccidendo 15.000 palestinesi e cacciandone altri 750.000 durante la Nakba [la pulizia etnica del 1947-49, ndt.]. Semplicemente non ne sapevano niente, come me?

L’inganno sionista

La posizione secondo cui “chiunque critichi Israele è antisemita” è diventata sempre più debole di fronte alla crescente lista di crimini di guerra commessi da Israele. Se tutto quello che mi era stato detto riguardo a Israele non era vero, cos’altro era falso?

E cosa significa continuare a far parte della comunità ebraica, dato che di fatto tutti i miei coetanei ebrei sono ancora tacitamente o attivamente coinvolti nella menzogna del nazionalismo sionista?

Una volta svanita la negazione, è arrivata la rabbia. Persone di cui ci fidavamo ci avevano mentito; siamo stati ingannati in modo che sostenessimo uno Stato di apartheid che maltratta minorenni e tortura senza pietà nel nostro nome. Giovani ebrei, compresa me, sono stati coinvolti in un continuo genocidio contro il popolo palestinese durato 75 anni.

Ci sono state terribili, inimmaginabili violazioni dei diritti umani commesse con la scusa di proteggere le vite degli ebrei, quando in realtà una tranquilla pace coloniale è possibile solo attraverso la continua repressione dei palestinesi. Non c’è nessuna sicurezza per chi è sotto occupazione.

Ci è stato insegnato che Israele rappresenta una speranza di rifugio ritagliato per gli ebrei dopo l’Olocausto, qualcosa di prezioso che dobbiamo proteggere a ogni costo. Era “l’unica Nazione per il popolo ebraico”, la nostra patria, il nostro retaggio: Israele.

Ci è stato insegnato [che abbiamo] un intrinseco diritto su un pezzo di terra dall’altra parte del mondo. Israele era una seconda, possibile patria per noi, ma la storia guarda caso ometteva il fatto che la Palestina è l’unica patria per i palestinesi, che hanno posseduto la terra per generazioni.

Israele continua a negare ai palestinesi il diritto di visitarla e il diritto inalienabile di tornare inpatria, ma in quanto ebrea nata in California posso visitarla quando voglio e Israele mi pagherà persino per andarci a vivere su terra rubata ai palestinesi.

Non ci è stato insegnato che Israele è totalmente finanziato dagli USA e funge da avamposto strategico dell’Occidente imperialista per l’estrazione di materie prime, la sperimentazione di armi, l’addestramento della polizia statunitense e altro. Nessuno mi ha detto che la nascita di Israele ha richiesto la morte di palestinesi, una pulizia etnica opportunamente nascosta sotto il tappeto in modo che il popolo ebraico possa avere qualcosa di scintillante e pulito; che è una Nazione militarizzata fondata su mucchi di corpi di palestinesi bruciati, una patria ebraica costruita su fosse comuni di nativi.

Lotta per la libertà contro la colonizzazione

La storia di Israele non è nuova. È ben nota ai popoli colonizzati in tutto il mondo. Perpetua lo stesso suprematismo bianco, la menzogna colonialista che i coloni arrivati all’isola della Tortuga (nel Nord America) dissero a se stessi per giustificare il genocidio dei popoli indigeni: in nome del progresso, della modernità e della democrazia il colonizzatore deve demolire, uccidere e distruggere.

In base a questa menzogna il colonizzatore deve saccheggiare la terra come destino manifesto, dall’Atlantico al Pacifico, e uccidendo violentemente quanti più “terroristi nativi selvaggi” possibile per espandere le conquiste territoriali e costruire case sicure per le famiglie di coloni.

La Palestina non è impegnata in una guerra santa, è una lotta per la libertà dal colonialismo. I palestinesi non hanno scelto il popolo ebraico perché colonizzasse la loro terra e hanno il diritto morale e giuridico di resistere all’occupazione indipendentemente da chi sia l’occupante. La sicurezza degli ebrei è destinata al fallimento finché continuerà la violenta occupazione della Palestina. La nostra liberazione è strettamente collegata a ciò.

Siamo in un momento senza precedenti nella storia. Si sta svolgendo un genocidio davanti ai nostri occhi, mentre corpi sono ammassati in fosse comuni fuori dagli ospedali bombardati e dai campi profughi. Un movimento di solidarietà globale con la Palestina ha penetrato il velo di benessere occidentale, un’evasione dalla prigione dell’assedio.

E mentre l’esercito israeliano appoggiato dagli USA continua a far piovere bombe sul popolo di Gaza assediato, molti del mio popolo ebraico stanno seduti a guardare, o lo stanno appoggiando attivamente.

Con il nostro silenzio noi popolo ebraico nel mondo siamo co-firmatari di questo genocidio. Molti hanno considerato che è “troppo complicato”, con la minaccia di essere allontanati da amici, famiglia e colleghi. Non vogliamo rischiare conseguenze concrete.

Deludente asimmetria

Ma famiglie palestinesi vengono uccise nel sonno, brutalizzate con il fosforo bianco incendiario, prese di mira da cecchini nei reparti di maternità degli ospedali, fatti morire di fame e disidratati, senza acqua potabile e obbligati a marce della morte. Stanno estraendo morti, bambini insanguinati dalle polverose rovine di macerie bombardate.

Eppure i miei coetanei ebrei in Occidente dicono che sono loro a temere un genocidio. Questa deludente asimmetria deve finire, in modo che possiamo concentrare risorse e attenzione verso quelli che affrontano una minaccia concreta di eliminazione in questo massacro della dignità umana assolutamente evitabile.

La richiesta dei palestinesi in questo momento è chiara: cessate il fuoco subito. Fine dell’assedio contro Gaza e dell’occupazione illegale. Rispetto del diritto al ritorno. I palestinesi ci stanno chiedendo di testimoniare il loro genocidio, fare pressione sui nostri rappresentanti per un immediato cessate il fuoco e boicottare quanti stanno traendo profitto dall’occupazione illegale. Ogni giorno senza cessate il fuoco il numero di morti aumenta e Israele cancella altre famiglie dall’anagrafe.

La Palestina è il genocidio che il popolo ebraico può fermare. Non abbiamo potuto intervenire per bloccare la morte dei nostri predecessori nei campi della morte, ma possiamo e dobbiamo fermare questo genocidio dal continuare un giorno in più. Non sprechiamo il nostro urgente e sacro dovere sfruttando la sofferenza degli ebrei come scudo e clava per la violenza contro i palestinesi.

Se vi considerate persone ebree con una coscienza comprenderete che questo massacro non ha una giustificazione morale o giuridica. Questo è il momento di parlare. I palestinesi non possono aspettare che la storia li risarcisca, perché, mentre scrivo questa lettera di amore e rabbia a voi, miei fratelli ebrei, i bombardamenti aerei continuano a colpirli.

Non possiamo consentire che l’anima morale dell’ebraismo perisca con il suono del nostro silenzio collettivo sul genocidio. La nostra voce sia una preghiera per i nostri antenati ebrei e una benedizione per i nostri discendenti dicendo una volta per tutte: mai più.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Amanda Gelender è una scrittrice ebrea americana antisionista che vive in Olanda. Fa parte del movimento di solidarietà con i palestinesi dal 2006.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Lo scambio di prigionieri di Hamas e la guerra genocida di Israele: il contesto è cruciale

Iqbal Jassat

24 novembre 2023 – The Palestine Chronicle

In questa situazione è perfettamente logico che Hamas ricorra a mezzi creativi per spezzare la paralisi dell’assedio.

Storicamente la resistenza o la lotta armata da parte dei movimenti di guerriglia impegnati in combattimenti asimmetrici contro regimi canaglia hanno sempre catturato soldati nemici da impiegare come merce di scambio per ottenere vantaggi militari.

È fondamentale comprendere il contesto dell’operazione lanciata da Hamas il 7 ottobre, che l’estrema destra israeliana ha utilizzato come pretesto per lanciare un implacabile bombardamento via terra, mare e aria della popolazione civile di Gaza assediata.

* Gaza non è uno stato indipendente;

* È un campo di concentramento a cielo aperto per rifugiati palestinesi sotto occupazione militare israeliana;

* È sottoposto a un crudele blocco militare che lo isola dal mondo esterno;

* Non possiede un esercito, né aerei da caccia militari, né elicotteri e carri armati;

* Non ha nemmeno un aeroporto o un porto navale.

Quindi definire con disinvoltura il massacro di migliaia di persone da parte di Israele come una “Guerra contro Gaza”, come fanno alcuni media e commentatori, è fuorviante.

Ciò implica ingannevolmente che la guerra sia tra due Stati uguali, mentre la realtà è che Gaza si può definire solo come un’enclave “bantustan” che fa parte del territorio palestinese occupato.

Inoltre una componente importante della responsabilità della potenza occupante nei confronti dei 2,3 milioni di abitanti di Gaza ai sensi del diritto internazionale è sorprendentemente assente nel discorso pubblico.

La potenza occupante deve garantire un trattamento umano della popolazione e provvedere ai suoi bisogni primari, compresi cibo e assistenza medica.

Purtroppo, come sottolineato dal professor Abdelwahab El-Affendi in un recente articolo su Al Jazeera, i sostenitori di ieri della dottrina della “responsabilità di proteggere” sono oggi i maggiori sostenitori dell’assalto genocida di Israele a Gaza.

La considerazione fondamentale è che Israele occupa la Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza, che collettivamente costituiscono i Territori Palestinesi Occupati (Opt), dal 1967. Contrariamente a quanto sostiene il regime israeliano, il ritiro da parte di Israele delle sue forze di terra non ha posto fine all’occupazione di Gaza.

Un altro elemento di confusione deliberatamente generato da Israele riguarda il valico di Rafah con l’Egitto. L’impressione che il Cairo ne abbia la piena sovranità è fuori luogo. La realtà è che Israele monitora tutte le attività al valico dalla sua base militare di Kerem Shalom. Decide quando l’Egitto può aprirlo, per quanto tempo e a chi e cosa è consentito entrare o uscire da Gaza.

La capacità dell’Egitto di esercitare la propria volontà diventa una buffonata se le forze di sicurezza israeliane supervisionano le liste dei passeggeri – decidendo chi può attraversare – e monitorano le operazioni e possono negare il “consenso e la cooperazione” necessari per mantenere aperto il valico.

In questo contesto è perfettamente logico che Hamas, in quanto movimento di liberazione indigeno, non solo ricorra a mezzi creativi per rompere la paralisi dell’assedio, ma anche per resistere al progressivo genocidio da parte degli occupanti.

La Resistenza palestinese è quindi in grado di assicurarsi di mantenere la superiorità morale avendo offerto il rilascio di civili tenuti come “ospiti” – qualche settimana fa – ma l’offerta è stata respinta da un intransigente gabinetto di guerra israeliano sostenuto dagli Stati Uniti.

Ora che un “accordo” è stato raggiunto, in netto contrasto con gli obiettivi di Netanyahu di eliminare Hamas, è importante notare che molti nel mondo, soprattutto tra i media, sono ora costretti a concentrarsi sul fatto che i prigionieri palestinesi in attesa di rilascio hanno nomi e identità degni di menzione – non sui profili anonimi preferiti dal carceriere per descriverli come terroristi.

I minori e le donne che fanno parte dei 150 da rilasciare sono stati incarcerati senza processo, in violazione del giusto processo e, a volte, tenuti per decenni in condizioni che possono essere definite come tortura

Grazie alla Resistenza saranno finalmente liberi; in verità molte altre migliaia di persone imprigionate in Israele semplicemente per aver fatto valere i propri diritti meritano la libertà.

Lo scambio simboleggia per i palestinesi in molti modi una svolta verso il raggiungimento della agognata libertà dalle grinfie di un’occupazione oppressiva e inflessibile che non riesce a imparare la lezione del Sud Africa: apartheid, razzismo, occupazione militare, negazione dei diritti umani sono insostenibili e destinati a fallire – con o senza il sostegno occidentale.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Guerra Israele Palestina: in Cisgiordania i coloni potrebbero già essere in possesso delle armi americane, avverte un ex funzionario

Dania Akkad

23 novembre 2023 – Middle East Eye

Fanno notizia le preoccupazioni per un recente ordine israeliano di fucili statunitensi. Ma secondo gli esperti anche se le armi americane non si trovassero nelle loro mani i coloni sono riusciti ad entrare in possesso di quelle israeliane.

Quando il mese scorso il ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamir Ben-Gvir ha iniziato a distribuire fucili dassalto ai civili, c’è stata un’immediata reazione da parte di Washington.

Secondo quanto riferito i funzionari statunitensi indignati avrebbero minacciato di bloccare le spedizioni di armi, inclusi 24.000 nuovi fucili che il ministero di Ben-Gvir aveva ordinato ad aziende americane.

Le armi fotografate in eventi pubblici ampiamente documentati non erano americane o, secondo quanto riferito, fornite dagli americani.

Tuttavia funzionari del Dipartimento di Stato e parlamentari statunitensi erano preoccupati che i nuovi fucili potessero essere consegnati ai coloni e usati contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata, dove dopo il 7 ottobre la violenza dei coloni è aumentata rispetto a livelli già da record.

In tale periodo in Cisgiordania sono stati uccisi da soldati e coloni israeliani più di 200 palestinesi.

Nonostante le assicurazioni israeliane che le armi sarebbero state conseganate ad unità sotto il controllo della polizia nazionale israeliana, allinterno della Linea Verde [confine stabilito negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e Paesi arabi confinanti, ndt.], gli Stati Uniti avrebbero ritardato la consegna di 4.500 fucili M-16.

Almeno questo è ciò che si può ricavare dai resoconti dei media israeliani e americani. Giovedì il Dipartimento di Stato ha rifiutato di rilasciare commenti su vendite commerciali dirette e conversazioni diplomatiche private.

Ma un ex funzionario del Dipartimento di Stato ha detto a Middle East Eye che è “quasi certoche le armi americane siano già utilizzate dai coloni in Cisgiordania.

Inoltre esperti sul controllo degli armamenti affermano che anche se le armi statunitensi esportate in Israele, finanziate attraverso gli aiuti militari statunitensi o acquistate a fini commerciali, non fossero nelle loro mani, i coloni potranno entrare in possesso dei fucili israeliani.

“Alcune delle armi che gli Stati Uniti avranno esportato saranno passate attraverso la licenza delle forze di difesa israeliane e naturalmente la maggior parte dei coloni in età per il servizio militare sono riservisti”, ha detto Josh Paul, che fino alle sue dimissioni del mese scorso era direttore dell’Ufficio di Affari di Politica Militare del Dipartimento di Stato.

Quindi nella maggior parte dei casi avranno le loro armi dall’esercito israeliano indipendentemente dal fatto che siano state consegnate o meno da Ben-Gvir ”.

MEE ha chiesto al Dipartimento di Stato se condivide la preoccupazione di Paul secondo cui le armi americane sarebbero probabilmente già nelle mani dei coloni in Cisgiordania.

Un portavoce non ha risposto direttamente alla domanda ma ha affermato che i governi che hanno ricevuto armi dagli Stati Uniti hanno la responsabilità di rispettare le condizioni dei trasferimenti e gli obblighi previsti dal diritto internazionale, compresi quelli relativi ai diritti umani.

Il portavoce ha anche affermato che pari attenzioni dovrebbero essere dedicate alla prevenzione della violenza estremista e alla consegna dei responsabili alla giustizia, compresi i membri delle forze di difesa e di sicurezza israeliani, così come della polizia nazionale israeliana, che restano a guardare e non intervengono.

Quante e quali tipi di armi americane siano arrivate in Israele nel corso degli anni costituisce un interrogativo che sfida anche i più ferrati esperti sul controllo degli armamenti.

Le informazioni più dettagliate disponibili al pubblico mostrano che nei primi nove mesi di questanno le esportazioni statunitensi verso Israele di rivoltelle, pistole e alcuni tipi di fucili sono aumentate in modo significativo rispetto ai tre anni precedenti.

Ma senza dati pubblici completi è impossibile per i contribuenti statunitensi e persino per i parlamentari valutare lentità delle esportazioni di armi statunitensi verso Israele e, soprattutto, quanto di questa sia approvata dal governo degli Stati Uniti.

“Se tutte queste vendite fossero completamente trasparenti per il Congresso e soprattutto per il pubblico penso che ci sarebbe molta più indignazione”, ha affermato Lillian Mauldin, tra le fondatrici e membro del consiglio di amministrazione di Women for Weapons Trade Transparency [Donne per la Trasparenza del Commercio delle Armi, ndt.] e ricercatrice presso il Center for International Policy [Centro di politica Internazionale, ndt.].

È nellinteresse delle aziende che le vendite di armi risultino incredibilmente difficili da tracciare, anche per persone che lavorano nel campo della ricerca sul controllo degli armamenti da decenni”.

Nel frattempo gli esperti affermano che i programmi del governo americano sul monitoraggio delle esportazioni di armi non sono impostati per tracciare il percorso delle armi leggere dopo la loro spedizione. Una volta spedite scompaiono, dice Paul.

Ciò lascia aperti degli interrogativi per i palestinesi in Cisgiordania come Mohammed al-Huraini.

“Prodotto negli USA“?

Al-Huraini è originario di Atuwani, uno dei villaggi della regione di Masafer Yatta, di circa 500 abitanti, nascosto tra le montagne a sud delle colline di Hebron.

Qui gli abitanti subiscono minacce di espulsione e ordini di demolizione da quando nel 1981 lesercito israeliano ha designato la loro terra come zona di esercitazione di tiro.

Huraini ora ha 19 anni e non ha mai conosciuto un momento in cui lui e la sua famiglia non abbiano subito pressioni per lasciare Atuwani.

Sua nonna, Fatemah, non vede da un occhio dopo che nel 2006 i soldati lhanno colpita durante una protesta. Lo scorso settembre i coloni hanno fratturato entrambe le braccia di suo padre Hafez.

Ma Huraini dice che dal 7 ottobre la situazione nel villaggio, raccolta attraverso filmati visionati da MEE e descritta da amici e familiari rimasti lì mentre lui frequenta l’università a Ramallah, è notevolmente cambiata.

I coloni hanno intensificato gli attacchi contro gli abitanti facendo irruzione nelle case e minacciando di uccidere chiunque non se ne vada. Indossano uniformi militari e sono tutti armati.

Prima non era così. Le persone ora hanno paura di affrontare [i coloni] perché sono a mani nude e non ricevono nessun aiuto, dice.

Suo cugino, Zakaria al-Adra, il 12 ottobre è stato colpito a distanza ravvicinata dai coloni con proiettili esplosivi che gli hanno squarciato lo stomaco. Da allora ha subito cinque operazioni.

Anche la casa degli Huraini è stata assalita e lorto della famiglia, che coltivavano da sei anni, è stato demolito con i bulldozer e sostituito da un tendone. Al-Huraini riferisce che non possono spostarsi nella loro proprietà o muoversi per fare la spesa senza essere presi di mira.

“Se ti avvicini ai 20 metri dalla casa iniziano immediatamente a sparare”, dice.

Prima almeno non avevi la sensazione che avresti potuto essere ucciso a sangue freddo. Adesso è più facile”.

Lanno scorso, dopo un attacco durato settimane da parte dellesercito e dei coloni israeliani contro il suo villaggio, Huraini ha trovato un contenitore di gas lacrimogeno fuori dalla sua casa con su scritto Made in USA”.

Non era la prima volta che vedeva un contenitore del genere ma era la prima volta che notava la scritta.

Siamo schiacciati dal potere del denaro e delle armi statunitensi, scrisse in quell’occasione. I cittadini americani dovrebbero sapere dove vanno le loro tasse e cosa finanziano”.

Ora si chiede se anche qualcuna delle armi moltiplicatesi nelle ultime settimane sia americana.

Limiti della Leahy

Tutte le armi americane finanziate o fornite come aiuto militare statunitense dovrebbero essere soggette alla legge Leahy, dal nome di Patrick Leahy, lex senatore democratico del Vermont che nel 1997 ha ideato la regolamentazione.

Secondo la legge ai dipartimenti statali e alla difesa degli Stati Uniti è vietato fornire assistenza in materia di sicurezza a governi stranieri che siano oggetto di accuse credibili di violazioni dei diritti.

Ma sia Paul, lex funzionario dell’ufficio del Dipartimento di Stato che sovrintende ai trasferimenti di armi, sia lo stesso Leahy hanno affermato che nel caso di Israele la legge non è stata applicata.

Nel corso degli anni ho protestato sia con lamministrazione repubblicana che con quella democratica sulla necessità di applicare la legge ad Israele”, ha detto la scorsa settimana Leahy al News & Citizen, un settimanale del Vermont.

Queste amministrazioni hanno sostenuto che Israele ha un sistema giudiziario indipendente, per cui non ci sarebbe bisogno. Recentemente abbiamo assistito agli sforzi volti a rendere la magistratura ancora meno indipendente di prima”.

Paul riferisce a MEE che allinterno del Dipartimento di Stato, riguardo alla Legge Leahy, Israele viene trattato diversamente rispetto aquasi tutti gli altri Paesi al mondo”.

Invece di controllare preventivamente le unità militari prima che ricevano questa roba, la inviamo e poi controlliamo eventuali violazioni dei diritti umani, dice Paul.

In precedenza ha affermato che il dipartimento ha trovato moltiesempi di unità israeliane sospettate di gravi violazioni dei diritti umani, ma non è mai stato in grado di giungere ad alcuna conclusione per cui dovesse essere richiesta lapprovazione da parte degli alti funzionari.

Un portavoce del Dipartimento di Stato non ha commentato direttamente le osservazioni di Paul e Leahy ma ha detto a MEE che ci si aspetta che qualsiasi Paese che riceva assistenza per la sicurezza dagli Stati Uniti la utilizzi in conformità con il diritto umanitario internazionale e le leggi sui diritti umani, e in conformità con gli accordi che ne regolano luso. Israele, ha detto, non fa eccezione.

Dettagli opachi

Nel frattempo il pubblico americano ha informazioni limitate sul tipo e sulla quantità delle armi da fuoco esportate in Israele, sia attraverso aiuti militari che tramite vendite commerciali.

La mancanza di trasparenza riguardo alle vendite di armi e gli aiuti militari statunitensi a Israele, il maggiore destinatario degli aiuti militari statunitensi a livello mondiale, è ben documentata.

E’ netto il contrasto tra le note informative del governo americano sulle armi fornite allUcraina, compresi kit di pronto soccorso e bende, e la scarsità di informazioni su ciò che viene inviato a Israele.

Questa opacità vale anche per le armi inviate a Israele: i dati sulle esportazioni di armi da fuoco statunitensi, qualunque sia il Paese destinatario, sono notoriamente difficili da ottenere.

Ciò è dovuto, in parte, al fatto che esistono restrizioni legali scritte da autorità di controllo finanziate con le tasse su quali informazioni possano essere fornite su determinate vendite.

Al Congresso, ad esempio, vengono comunicate solo le vendite di armi di valore superiore a soglie monetarie che variano a seconda del tipo di vendita, ma queste sono più elevate per i Paesi della NATO e altri cinque, compreso Israele.

Ciò significa che le vendite di armi leggere, che sono meno costose rispetto ad altri armamenti, sono particolarmente inclini a restare al di sotto della soglia e ciò ha determinato miliardi di dollari di vendite “non dichiarate al Congresso e al pubblico americano”, ha detto Mauldin.

I dettagli vengono regolarmente nascosti anche dai dipartimenti governativi statunitensi che sovrintendono alle licenze per l’esportazione di armi perché sostengono che si tratta di informazioni riservate la cui diffusione potrebbe indebolire le aziende statunitensi.

Le informazioni più dettagliate che MEE è riuscito a trovare sono i dati dell’US Census Bureau che mostrano che il valore totale delle armi e loro componenti esportate dagli Stati Uniti in Israele ha superato solo nei primi nove mesi di quest’anno il totale dei tre anni precedenti per ben cinque tipologie di armamenti.

Il valore degli articoli esportati che è aumentato in modo significativo riguarda rivoltelle e pistole, alcuni tipi di fucili, accessori e pezzi di ricambio per fucili e cartucce.

Seth Binder, direttore del settore assistenza legale presso il Project on Middle East Democracy a Washington, DC, ha affermato che il picco suggerito dai dati non è una grande sorpresa data l’intensità degli attacchi dei coloni in Cisgiordania e l’allentamento negli ultimi anni delle leggi israeliane al fine di consentire la concessione di più licenze di porto d’armi.

Quanto di questo proviene da finanziamenti militari stranieri? Sarebbe piuttosto interessante saperlo, ma queste informazioni non sono disponibili”, afferma Binder.

Ha ragione: i dati dellUS Census Bureau non dicono se i finanziamenti statunitensi siano stati forniti per assistere il governo o le aziende israeliane in questi acquisti o se alcuni [prodotti] siano stati inviati gratuitamente.

Quindi, anche se i dati mostrano che questanno c’è stato un forte aumento di componenti di armi e munizioni militari, non è chiaro quanto di questo sia stato sottoscritto dal governo degli Stati Uniti o dai contribuenti. Ma dalle bombe alle armi da fuoco, conoscere i dettagli è importante, sostiene Paul.

C’è qui un interesse intrinseco dei contribuenti statunitensi, prima di tutto su come vengono spesi i dollari dei contribuenti e se il modo in cui vengono spesi fornisce un netto positivo per la politica estera degli Stati Uniti, afferma.

Ciò è particolarmente vero in Israele, dove le armi americane sono lago della bilancia del conflitto.

“Le armi leggere e di piccolo calibro possono causare più danni di quanto la gente creda, in un modo più nascosto”, dice Mauldin.

“Ma il problema più grande è che ovviamente i finanziamenti statunitensi influenzeranno in modo sproporzionato il conflitto nel momento in cui concediamo miliardi di dollari, fondamentalmente una sovvenzione affinché Israele possa acquistare qualunque cosa voglia dagli Stati Uniti, comprese le armi leggere e di piccolo calibro”.

Limitazioni al monitoraggio

E c’è un altro mistero: dove sono le armi e componenti americane già presenti in Israele? Né il Dipartimento di Stato, che monitora le vendite commerciali, né il Dipartimento della Difesa, che monitora le vendite militari, sono in grado di tracciare le armi leggere.

Il programma Blue Lantern del Dipartimento di Stato pone fine ai controlli su circa il 2% delle licenze di esportazione di armi ogni anno, concentrandosi solitamente su nuove entità che compaiono nelle richieste di licenza o su aree in cui sussistono specifiche preoccupazioni guidate dallintelligence.

Quindi, per quanto riguarda le armi da fuoco destinate a Israele, è molto improbabile che si esegua qualsiasi tipo di controllo sulluso finale, presupponendo che siano destinate al governo israeliano e tramite entità logistiche note, afferma Paul.

Il programma Golden Sentry [sentinella d’oro, ndt.] del Dipartimento della Difesa si occupa in genere di armi molto più grandi e costituisce più uno strumento di controllo sulla localizzazione effettiva delle armi nellarsenale indicato da un’autorità militare straniera.

Gli esperti di armi con cui MEE ha parlato nelle ultime settimane hanno affermato che in questo momento il modo più semplice per rintracciare le armi americane in Cisgiordania sarebbe un’indagine fotografica.

Ma c’è anche un altro modo di vedere l’intera questione: anche se non è possibile risalire esattamente a dove siano finite le armi da fuoco statunitensi o se vengano utilizzate dai coloni in Cisgiordania, gli Stati Uniti sono comunque implicati.

Stiamo fornendo 3,8 miliardi di dollari in aiuti militari [all’anno, ndt.]. Si tratta di 3,8 miliardi di dollari che il governo israeliano non ha bisogno di utilizzare per lequipaggiamento militare perché lo forniamo noi, afferma Binder.

Fornire armi americane a Israele, sia attraverso aiuti militari sia attraverso vendite commerciali approvate dal governo degli Stati Uniti, funziona allo stesso modo.

Israele ha una propria industria nazionale e quindi, mentre garantisce che non forniranno armi americane ai coloni israeliani, di fatto lascia che le armi israeliane arrivino ai coloni, dice, aggiungendo che sarebbe rilevante e preoccupante se in questo momento le armi prodotte negli Stati Uniti venissero usate dai coloni.

In ogni caso, dal momento che lesercito israeliano o chiunque allinterno della linea verde utilizza armi statunitensi, se i coloni iniziassero a servirsi di quelle israeliane che differenza farebbe?

Huraini, che si sta preparando a tornare a casa per far visita alla sua famiglia ad Atuwani, ha detto di non essere un esperto di armi e di non essere sicuro se nei filmati che ha raccolto nelle ultime settimane i coloni stiano usando armi da fuoco americane.

Ma trova difficile capire come gli americani possano tollerare una tale politica finanziaria.

In realtà le persone stanno sostenendo con i loro soldi il genocidio, i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani, prosegue.

Non so dove [i soldi] siano finiti esattamente, per quali aiuti. Ma alla fine stanno sostenendo questo regime di apartheid che ha commesso di tutto contro il [nostro] popolo”.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Quello che gli israeliani non vogliono credere sui palestinesi liberati in cambio degli ostaggi

Orly Noy

23 novembre 2023 – +972 Magazine

La lista dei palestinesi destinati a essere scambiati con israeliani dovrebbe far riflettere sul ruolo degli arresti di massa nell’occupazione.

Stamattina Israele e Hamas hanno definito i dettagli di un accordo per sospendere le ostilità nella Striscia di Gaza a quasi sette settimane dall’inizio della guerra. L’accordo include un cessate il fuoco di quattro giorni e lo scambio di 50 ostaggi israeliani con 150 “prigionieri di sicurezza” palestinesi con la possibilità di altri scambi in un secondo tempo. Questi sono i termini che Hamas avrebbe offerto a Israele settimane fa nelle prime fasi della guerra, ma il primo ministro Benjamin Netanyahu ha preferito lanciarsi in una guerra totale contro la Striscia assediata, uccidendo oltre 14.000 palestinesi, anche a scapito della salvezza e del benessere degli ostaggi israeliani, prima di prendere in considerazione un accordo. 

Israele ha pubblicato i nomi dei 300 prigionieri palestinesi che intende liberare come parte dell’accordo o in seguito alla liberazione di altri ostaggi israeliani, per permettere la presentazione di ricorsi nei tribunali israeliani contro il rilascio di specifici individui. Per il momento tutti gli ostaggi e i prigionieri da scambiare sono donne e minori. Tuttavia molti della destra israeliana e forse nell’opinione pubblica credono che il governo stia facendo una significativa concessione liberando pericolosi “terroristi” per il bene di pochi ostaggi.

Leggendo la lista dei prigionieri palestinesi scelti per il rilascio la prima cosa che colpisce è la loro età. La gran maggioranza, 287, ha 18 anni o meno, compresi cinque quattordicenni, cosa che solleva la domanda: come può un quattordicenne essere un “prigioniero di sicurezza?”

I nomi sulla lista includono persone che apparterrebbero a fazioni politiche palestinesi come Hamas, Fatah, Jihad Islamica e Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), e anche molti che non sono affiliati ad alcun gruppo. Nessuno è stato condannato per omicidio. Alcuni sono stati condannati per tentato omicidio mentre la maggioranza è stata accusata di reati minori, fra cui molti arrestati per il lancio di pietre. Uno di loro, un diciassettenne, è stato dietro le sbarre per due anni per aver gettato pietre contro un veicolo militare israeliano a Gerusalemme, la stessa città dove i coloni ebrei possono scatenare disordini contro i palestinesi che raramente finiscono con indagini, men che meno arresti.

Ma soprattutto la lista è una sorprendente testimonianza di come arresti e incarcerazioni siano centrali nell’occupazione e nel controllo israeliano sui palestinesi. Secondo i dati dell’organizzazione israeliana per i diritti umani HaMoked, nel novembre 2023 Israele detiene 6.809 “prigionieri di sicurezza.” Di questi 2.313 stanno scontando una pena, 2.321 non sono ancora stati condannati dal tribunale, 2.070 sono in detenzione amministrativa (incarcerazione indefinita senza prove o giusto processo) e 105 sono “combattenti illegali” arrestati durante gli attacchi di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele.

Quasi tutti i 300 palestinesi destinati al rilascio sono prigionieri relativamente recenti, arrestati negli ultimi due anni. Fanno eccezione 10 donne di Gerusalemme e Cisgiordania che sono in prigione dal 2015-17, in maggioranza con l’accusa di aver commesso o tentato di commettere attacchi all’arma bianca contro soldati israeliani, alcuni senza aver causato alcun danno, mentre altri hanno provocato lesioni da lievi a moderate.

Va ricordato che tutto ciò è supervisionato dallo stesso sistema giuridico che, fra innumerevoli altri esempi, ha deciso di chiudere il caso contro un colono israeliano che ha accoltellato a morte un giovane palestinese nel maggio 2022 perché “non è possibile escludere la versione [del sospettato] di aver agito per legittima difesa.” È lo stesso sistema che a luglio di quest’anno ha assolto un poliziotto israeliano che ha ucciso Iyad al-Hallaq, un palestinese affetto da autismo, nonostante chiare testimonianze e video che provavano che era disarmato e non rappresentava un pericolo di alcun genere. 

Ciò va ad aggiungersi al fatto che i “prigionieri di sicurezza” sono giudicati da un sistema separato di tribunali militari che vanta un tasso di condanne tra il 95 e il 99%. Agli occhi del regime di apartheid israeliano la tolleranza è un diritto riservato solo agli ebrei.

Mentre gli ebrei che causano disordini, che attaccano e persino uccidono palestinesi godono dell’immunità, la lista dei prigionieri ci ricorda che i palestinesi possono essere arrestati in massa solo in base alle “intenzioni” di compiere un atto violento. Uno di quelli sulla lista, una donna di 45 anni di Gerusalemme, è stata in carcere per oltre due anni perché “è stata colta nella Città Vecchi con un coltello in mano,” e “ha detto che intendeva compiere un attacco.” Intanto il ministro kahanista [dell’estrema destra che si ispira al pensiero del rabbino Meir Kahane, ndt.] della Sicurezza Nazionale israeliana incita gli ebrei ad armarsi mentre distribuisce armi come caramelle e molti israeliani di destra stanno scrivendo innumerevoli messaggi, pubblici e privati, annunciando allegramente la loro intenzione di “ammazzare quanti più arabi possibile.”

Talvolta sul capo d’accusa non appare neanche “l’intenzione”. Un diciottenne di Gerusalemme è stato “arrestato con altri perché gridava ‘Allahu Akbar.” Una diciottenne della Cisgiordania è stata imprigionata per mesi per “incitamento su Instagram.” Fra gli israeliani, per contro, espliciti inviti al genocidio sono considerati un modo legittimo per sollevare il morale nazionale, mentre i palestinesi con cittadinanza israeliana possono essere arrestati per aver semplicemente postato la foto di una shakshuka [uova speziate, piatto magrebino poi introdotto in Israele e nord-Africa,] accanto a una bandiera palestinese.

Delle accuse elencate solo poche sono relative all’uso di armi e di aver sparato contro l’esercito israeliano (e persino in questi casi, non ci sono state vittime). La grande maggioranza degli episodi riguarda il lancio di pietre o molotov, lanciare fuochi di artificio e causare “disturbo alla quiete pubblica.” È valsa la pena di lasciar languire a Gaza gli ostaggi israeliani, donne e bambini, per alcune settimane per poter continuare a tenere in prigione un ragazzo che ha osato gridare “Dio è grande?”

Naturalmente questa lista è composta da prigionieri “deboli”, che non solleveranno molta opposizione pubblica, mentre i prigionieri palestinesi che sono stati accusati di reati ben più gravi e di omicidio restano nelle carceri israeliane. Ma i 300 nomi che Israele è riuscito a mettere insieme, quasi tutti giovani, arrestati negli ultimi due anni e imprigionati per qualche forma di resistenza popolare, dovrebbero indurre gli israeliani alla riflessione. 

Dopo tutto, c’è un chiaro legame fra la mano pesante usata per reprimere ogni espressione di opposizione da parte palestinese e il rafforzarsi dei gruppi armati che vedono la violenza come l’unico modo di sfidare seriamente gli occupanti. Ma questo richiederebbe che l’opinione pubblica israeliana finalmente cogliesse il fatto fondamentale che se l’oppressione continua, inevitabilmente, continuerà anche la resistenza.

Orly Noy è una giornalista di Local Call, un’attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in farsi. È presidente del consiglio di amministrazione di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti trattano delle linee che intersecano e definiscono la sua identità di mizrahi, donna di sinistra, donna, migrante temporanea che vive dentro un’immigrata permanente e il continuo dialogo fra loro.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il prestigioso festival del documentario di Amsterdam deve affrontare boicottaggi e proteste a seguito delle dichiarazioni anti-palestinesi

Niloufar Nematollahi

16 novembre 2023 – Mondoweiss

Oltre 20 registi si sono ritirati dallInternational Documentary Film Festival di Amsterdam in seguito alla condanna del discorso sulla liberazione della Palestina e al rifiuto di prendere posizione contro lattacco genocida di Israele contro Gaza. 

I registi stanno adottando delle iniziative contro lInternational Documentary Film Festival di Amsterdam (IDFA) in seguito alla ingannevoli dichiarazioni nel corso della presentazione del festival, allattacco allo slogan From the River to the Sea Palestine Will be Free” [Dal fiume al mare la Palestina sarà libera, ndt.] e al rifiuto di solidarizzare con i palestinesi di fronte allattacco genocida di Israele contro Gaza.

LIDFA, il più grande festival internazionale del documentario al mondo, ha una tradizione di valorizzazione dei registi palestinesi. Ma le ultime dichiarazioni ed eventi del festival sono stati visti come un doloroso tradimento.

Come ha spiegato il regista di Gaza Mohammed Almughanni

durante uno dei suoi discorsi allIDFA: Se mi riconoscete come regista che mette sulla scena il dolore dei palestinesi ma non riconoscete che i palestinesi debbano avere una vita dignitosa la vostra attenzione per i miei film non significa nulla per me. “I film non significano nulla per me se non avete a cuore una Palestina libera per i personaggi dei miei film”. In un altro discorso Almughanni ha reagito allattacco dellIDFA contro lo slogan From the River to the Sea Palestine Will be Free” dicendo: Se non volete che cantiamo per la libertà dal fiume al mare, allora da dove a dove? Da questo muro di ferro a quell’altro? Da questo filo spinato al successivo?”

Finora 21 registi hanno ritirato i loro film, e gli interventi di solidarietà con la Palestina continuano a dominare il festival.

Dichiarazioni dell’IDFA

Il 10 novembre l’IDFA ha rilasciato una dichiarazione in cui si scusava per l’esposizione di uno striscione con lo slogan From the River to the Sea Palestine Will be Free” durante un evento organizzato in occasione dell’apertura del festival dall’organizzazione attivista Lavoratori per la Palestina (WFP), con sede nei Paesi Bassi. Nella dichiarazione lIDFA manifestava gratitudine verso coloro che avevano espresso il dolore provatoa cospetto dello slogan e dellazione di protesta contro il silenzio iniziale del festival sul genocidio a Gaza. Nella dichiarazione viene citato il direttore artistico del festival Orwa Nyrabia, che definisce lo slogan offensivoe afferma che non rappresenta lIDFA e non ha avuto ne avrà la sua approvazione”.

All’inizio della giornata era stata resa nota una petizione a nome della comunità cinematografica e documentaristica israeliana che criticava gli applausi calorosiverso i manifestanti da parte di Nyrabia l8 novembre, serata di apertura del festival. Anche se, secondo la legge olandese, lo sloganFrom the River to the Sea Palestine Will be Free” non è considerato antisemita rientrando nelle libertà di espressione, la petizione fonde lidea di liberazione palestinese con lantisemitismo, sostenendo che permettere e applaudire una dichiarazione significativa come Dal fiume al mare la Palestina sarà liberasarebbe un appello a favore dello sradicamento di Israele, della patria ebraica e degli ebrei in generale”.

In seguito alla dichiarazione dellIDFA del 10 novembre i registi hanno iniziato a ritirare i loro documentari dal festival e a rilasciare dichiarazioni con la richiesta di un cessate il fuoco, condividendo il vero significato dello slogan criminalizzato ed esprimendo il loro sostegno allazione di protesta condotta la sera dellinaugurazione del festival. Anche i moderatori, gli artisti, i membri della giuria e lo staff del festival hanno presto iniziato a dimettersi e a criticare lapproccio del festival nei confronti del genocidio in Palestina e il modo in cui le voci dei manifestanti sono state messe a tacere. In una lettera condivisa con Mondoweiss, scritta da un gruppo di dipendenti del festival e rivolta ai direttori dell’IDFA, viene criticato l’uso da parte dell’IDFA nella sua dichiarazione del pronome “noi”, che sembrerebbe voler esprimere “la posizione dell’organizzazione nel suo insieme, mentre molti membri dello staff del festival sono solidali con la Palestina e non riconoscono le proprie convinzioni riflesse nelle dichiarazioni dell’IDFA.

La regista palestinese Basma al-Sharif è stata una delle prime a ritirare il suo film e la sua partecipazione come membro della giuria dell’IDFA, criticando il festival per aver condannato lo slogan invece di “denunciare il genocidio che sta avendo luogo proprio adesso a Gaza”.

“Dal fiume al mare è la terra della Palestina storica che si estende dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo”, ha condiviso in una dichiarazione collettiva scritta da un gruppo di registi dell’IDFA allarmati dalla risposta del festival al suddetto slogan. Dal fiume al mare i palestinesi sono soggetti alle condizioni delloccupazione e dellapartheid. Dal fiume al mare I palestinesi dovrebbero unirsi nella lotta per la libertà, la giustizia e l’autodeterminazione. Dal fiume al mare vogliamo che palestinesi ed ebrei, lavoratori stranieri e rifugiati, siano uguali e liberi, aggiunge questo gruppo di documentaristi.

Maryam Tafakory, unaltra regista che si è ritirata dal festival, ha rilasciato in seguito una dichiarazione, affermando di sentirsi tradita e indignata dalla dannosa calunniacontro lo slogan da parte dellIDFA e dallenfasi della sua dichiarazione sul sogno universale di un mondo pacifico”. Per pace intendono solo il ritorno alloccupazione, al furto silenzioso della terra e allomicidioha scritto. Non esiste una via di mezzo in uno Stato di apartheid. Non c’è via di mezzo quando una parte ammette la pulizia etnica dellaltra, ha aggiunto.

Tafakory ha anche preso di mira una seconda dichiarazione rilasciata dall’IDFA il 10 novembre, poche ore dopo la prima che condannava la dichiarazione sulla libertà della Palestina. Nella seconda dichiarazione lIDFA ha chiesto un cessate il fuoco immediato, ma molti registi filo-palestinesi e palestinesi hanno ritenuto che il tono di scusa della seconda dichiarazione non riuscisse a esprimere una solidarietà con la lotta palestinese per la liberazione. La velleità dellIDFA di presentare dei film di palestinesi rifiutandosi di fare una chiara dichiarazione di solidarietà con loro è una forma di sfruttamento commerciale della lotta palestinese e una manifestazione di un modello che non è esclusivo dellIDFA ma una pratica endemica delle istituzioni artistiche occidentali che sfruttano lotte di emancipazione e popoli espropriandoli del loro pieno significato a scopo di profitto.

Protesta contro il silenzio del festival

Riflettendo sui discorsi, dichiarazioni e ritiri seguiti alla protesta durante la serata di apertura dell’IDFA, la produttrice e curatrice cinematografica Yara Yuri Safadi, che ha lavorato con il festival come moderatrice ma quest’anno ha deciso di dimettersi in seguito alla dichiarazione dell’IDFA, ha spiegato a Mondoweiss che nelle settimane precedenti il festival aveva aspettato che l’IDFA facesse un appello per un cessate il fuoco. Ma è arrivato il primo giorno del festival e l’IDFA ha mantenuto il silenzio.

Ho deciso comunque di andare alla serata inaugurale”, afferma Safadi, e ho aspettato che Orwa dicesse quelle poche parole: Gaza, Palestina, cessate il fuoco, liberazione”. Dal momento che il direttore artistico del festival non ha condiviso questi sentimenti durante il suo discorso di apertura Safadi, insieme ad altri manifestanti, ha tirato fuori due striscioni, uno con lo slogan From the River to the Sea, Palestine will be Free” e un altro con la scritta: Institutional silence is violence” [Il silenzio istituzionale è violenza, ndt.]. Safadi ha gridato cessate il fuoco adessomentre altri hanno portato uno degli striscioni sul palco, appendendo laltro alla balconata accanto a una bandiera palestinese e interrompendo il business as usual” dellevento. Safadi afferma che lappello dei manifestanti per un cessate il fuoco è stato accolto con fischi dal consiglio dellIDFA. Chi può fischiare contro una richiesta di cessate il fuoco? Chi può vietarmi di chiedere di fermare un genocidio?ha chiesto nel rievocare i fatti durante un discorso tenuto il 13 novembre.

Tuttavia durante l’azione gli altri partecipanti e lo staff dell’IDFA si sono alzati in piedi e hanno applaudito i manifestanti. Dopo aver diffuso il filmato di questo atto di protesta, Workers For Palestine, un gruppo di attivisti di recente costituzione che sostiene la liberazione della Palestina occupata allinterno delle istituzioni artistiche, sociali, accademiche e civiche dei Paesi Bassi, ha scritto: Sembra che lIDFA apprezzi i palestinesi solo quando servono come foglia di fico progressista per il loro istituto, contrapponendo allammissione al festival di opere di registi palestinesi il doloroso silenzio dell’IDFA su Gaza e il suo attacco alle voci filo-palestinesi di fronte al colonialismo di insediamento israeliano e al genocidio in corso.

Ritiro del Palestine Film Institute

Dopo una prima ondata di ritiri il numero di registi che rifiutano di presentare i propri film all’IDFA continua a crescere. Il 12 novembre, il Palestine Film Institute (PFI) ha pubblicato una petizione in cui annunciava la propria solidarietà ai manifestanti che avevano interrotto linaugurazione del festival e il suo ritiro dallIDFA. Il PFI, un istituto indipendente creato con lo scopo di sviluppare, promuovere e preservare il cinema palestinese, collabora con l’IDFA da sette anni, inclusa la creazione del Palestine Documentary Hub: un evento annuale di un giorno in cui i registi di documentari palestinesi presentano i loro progetti in corso per creare rapporti con lindustria cinematografica internazionale.

Il giorno prima del Documentary Hub di questanno, con tutto ciò che sta accadendo allIDFA, ci siamo chiesti: cosa significa presentare progetti sulla Palestina allIDFA oggi?Lo ha spiegato a Mondoweiss Mohanad Yaqubi, consulente e ideatore del programma pubblico del PFI. Alla fine il PFI ha deciso di procedere con le presentazioni da parte delle registe palestinesi Dalia Al-Kury, Elettra Bisogno e Noora Said come mezzo per rivendicare lo spazio del festival, rilasciando tuttavia la dichiarazione di ritiro dell’istituto da tutte le attività organizzate nello spazio di mercato all’IDFA. Hanno fatto le loro presentazioni, ed è stato sorprendente perché il loro contenuto mostra le profonde connessioni tra ciò che sta accadendo oggi e la narrazione palestinese, il film documentario palestinese, aggiunge Yaqubi.

Dopo il ritiro dal festival il PFI ha anche lanciato una petizione e ha invitato i registi a continuare ad agire in solidarietà con la Palestina. Il PFI ha esortato i registi a firmare la loro petizione, a ritirare i loro film dal festival e a criticare direttamente la risposta dellIDFA alle proteste filo-palestinesi o a utilizzare domande e risposte, discorsi e sezioni d’incontro per concentrarsi sulla Palestina. I registi che si sono ritirati dal festival hanno anche chiesto allIDFA di riconoscere la criminalizzazione dei contenuti delle voci e delle narrazioni palestinesi e di annunciare pubblicamente il motivo per cui le proiezioni sono state cancellate, cosa che il consiglio del festival si è fino ad ora rifiutato di fare.

Nonostante il tradizionale risalto concesso dallIDFA ai registi palestinesi Yaqubi afferma che oggi si sente tradito dal tardivo appello del festival per un cessate il fuoco e dalla sua incapacità di mostrare solidarietà ai registi palestinesi. I cineasti palestinesi hanno dovuto rivelare le loro emozioni, il che è un carico gravoso, davanti a persone e in spazi in cui confidavano per far capire allIDFA che si tratta di 75 anni di occupazione, ha detto a Mondoweiss. “Questo tradimento della fiducia è la parte più difficile.”

Il 13 novembre, il giorno dopo aver reso pubblico il proprio ritiro, il Palestine Film Institute ha annunciato una protesta davanti a una delle sedi principali del festival, il Teatro Internazionale di Amsterdam. Non possiamo continuare a fare affari come al solito, hanno scritto, invitando i registi e i membri del pubblico dellIDFA a unirsi alla loro richiesta per un cessate il fuoco immediato, la fine del genocidio e la fine delloccupazione della Palestina”.

La solidarietà continua

Più di 50 manifestanti si sono radunati davanti alla sede dell’IDFA, dove sono state lette le dichiarazioni di ritiro scritte dai registi e dagli artisti, come Tafakory e Geo Wyex. Come ha spiegato Safadi a Mondoweiss, voglio sottolineare che la maggior parte dei registi e dello staff IDFA che ci hanno sostenuto aderendo al ritiro o leggendo dichiarazioni prima e dopo le loro proiezioni e dedicando domande e risposte alla Palestina, provengono dal Sud del mondo, dal Sud Africa, Iran, o appartengono a popolazioni indigene e/o persone che si identificano come queer. Tutto il sostegno è arrivato da queste persone e dalle reti di solidarietà già esistenti che ci collegano”.

Le reti di solidarietà evidenziate da Safadi sono state verbalizzate anche in un discorso tenuto durante la protesta dal noto documentarista e membro del movimento di solidarietà con la Palestina in India, Anand Patwardhan. Dopo il suo discorso Patwardhan ha detto a Mondoweiss che, nonostante la scelta di alcuni registi di ritirarsi dall’IDFA, dovrebbe essere chiaro che diversi palestinesi e loro sostenitori come me hanno deciso di non ritirare i loro film ma di utilizzare la piattaforma IDFA per amplificare la nostra opposizione al massacro in corso a Gaza. Mi congratulo con coloro che si sono ritirati dal festival e hanno acceso un dibattito internazionale. Mi congratulo con coloro che sono rimasti per innescare il dibattito dall’interno. Mi congratulo con coloro che ci hanno concesso lo spazio per farlo. Come ha spiegato a Mondoweiss la regista palestinese Noora Said, Il PFI ha suggerito diverse azioni, non solo il ritiro. E molti registi e artisti hanno reagito scegliendo una delle diverse azioni suggerite. A volte potrebbe essere più utile per i palestinesi e i loro sostenitori protestare in modi diversi dal ritiro”.

Uno dei gruppi che hanno espresso la loro solidarietà è stato il Queer Choir Amsterdam, che durante uno degli eventi dellIDFA ha scanditoFrom the River to the Sea, Palestine will be Free”. Questo gruppo ha anche rilasciato una dichiarazione in cui sostiene che lIDFA trae costantemente profitto dalla programmazione di film sulloppressione, la violenza e la decolonizzazione, ma non ha ancora avuto il coraggio di riconoscere e denunciare un genocidio in corso”.

Solidarietà alla causa palestinese è stata espressa anche durante il raduno organizzato dal PFI il 13 novembre dopo la manifestazione. Il suono dei manifestanti che gridavano “cessate il fuoco adesso” ha riempito i corridoi del Teatro Internazionale di Amsterdam mentre si dirigevano verso l’evento di solidarietà, tenutosi in uno degli spazi all’interno dell’edificio. Durante questo evento registi come Rehad Desai, Sky Hopinka e Niles Atallah hanno espresso solidarietà alla lotta palestinese per la liberazione.

Come ha spiegato Desai a Mondoweiss, Sky, un regista nativo americano, e io, un regista sudafricano, abbiamo discusso su ciò a cui stiamo assistendo in Palestina, ovvero una riproduzione della storia coloniale, del palese sterminio dei nostri rispettivi popoli e della violenza di uno Stato illegittimo che viene equiparato a coloro che reagiscono o rispondono”.

Inoltre, in questo evento di solidarietà anche i registi palestinesi Mohammed Almughanni, Dalia Al-Kury, Mohammad Jabaly e Noora Said sono saliti sul palco per parlare delle loro esperienze come documentaristi in Palestina e dei loro sentimenti nei confronti dell’IDFA. Parlando della sua esperienza nella gestione della società di produzione video indipendente Sirdab Studio di Ramallah, dove vive, Noora Said ha parlato di come le sia vietato entrare a Gaza e di come la regista e giornalista di Gaza Roshdi Sarraj che gestiva la società sorella di Sirdab Studio, Ain Media, sia stata recentemente uccisa il 22 ottobre dagli attacchi aerei israeliani.

Durante un discorso sui suoi sentimenti nei confronti dellIDFA Al-Kury si è rivolta alle persone che stanno pagando per queste creazioni fantastiche, dicendo: Voi finanziate i nostri documentari, ma dubito che li guardiate davvero. Vi consiglio di guardare i nostri film perché se lo faceste, conoscereste la situazione della Palestina”. Lincontro si è concluso con le parole di Mohanad Yaqubi, che ha affermato: Qui facciamo documentari, non affari. E che senso hanno i documentari se non cambiano il mondo?

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




‘Israeliani Contro l’Apartheid’ chiede alla CPI di agire per proteggere i palestinesi dal genocidio

Israeliani Contro l’Apartheid

6 novembre 2023 – Mondoweiss

Noi, Israeliani Contro l’Apartheid, associazione di ebrei israeliani per la decolonizzazione, che rappresenta oltre 1.500 cittadini preoccupati, chiediamo alla CPI (Corte Penale Internazionale) di agire prontamente contro i crescenti crimini di guerra israeliani e il genocidio del popolo palestinese.

Nota dell’Editore: I membri dell’associazione Israeliani Contro l’Apartheid, che raggruppa 1500 persone, il 2 novembre 2023 hanno inviato la seguente lettera a Karim A.A. Khan, Procuratore della Corte Penale Internazionale, chiedendo un immediato intervento internazionale per fermare il massacro a Gaza.

2.11.2023

A Karim A.A. Khan, Procuratore della Corte Penale Internazionale,

Noi, ‘Israeliani Contro l’Apartheid’, associazione di ebrei israeliani per la decolonizzazione, che rappresenta oltre 1.500 cittadini preoccupati, chiediamo alla CPI (Corte Penale Internazionale) di agire prontamente contro i crescenti crimini di guerra israeliani e il genocidio del popolo palestinese. Per la sicurezza e il futuro della regione devono essere applicati tutti gli elementi del diritto internazionale e devono essere indagati i crimini di guerra. Apprezziamo la vostra profonda preoccupazione per le vite dei palestinesi, degli israeliani e di altri, e traiamo coraggio dalla vostra determinazione a svolgere un’indagine approfondita sulle perduranti violazioni del diritto internazionale.

Come attivisti israeliani anticolonialisti abbiamo unito le nostre voci a quelle dei palestinesi che da decenni mettono in guardia sulla pericolosa deriva perseguita dallo Stato israeliano e hanno ripetutamente chiesto l’intervento internazionale.

La persistente impunità ha creato le condizioni per il consolidamento del regime di apartheid israeliano, che intende perpetrare la pulizia etnica e il genocidio della popolazione indigena palestinese. Il grave deterioramento delle imprescindibili condizioni di vita a cui ora stiamo assistendo avrebbe potuto essere evitato se Israele non avesse costantemente goduto dell’impunità per i suoi continui crimini.

Siamo riconoscenti per le vostre dichiarazioni del 29 ottobre che hanno sottolineato che impedire gli aiuti umanitari a Gaza potrebbe costituire un crimine che ricade sotto la giurisdizione della CPI e che Israele deve fare “manifesti sforzi, senza ulteriore ritardo, per garantire che i civili ricevano essenziale cibo, acqua e farmaci”. La fornitura immediata di aiuti agli abitanti di Gaza è essenziale per impedire le atrocità della fame e della sete per cause umane tra la popolazione palestinese occupata.

Ad aprile 2018, in seguito alla sistematica uccisione di manifestanti disarmati durante la Grande Marcia del Ritorno, la sua predecessora, Fatou Bensouda, avvertì: “La violenza contro i civili in una situazione come quella di Gaza potrebbe configurare crimini ai sensi dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.” Vi scongiuriamo di assumervi la vostra responsabilità di emettere mandati di arresto e di chiamare a rispondere coloro che commettono questi atti criminali.

L’attuale escalation, dopo l’attacco di Hamas a Israele e l’incursione di gruppi armati palestinesi il 7 ottobre 2023, in cui sono stati uccisi più di mille israeliani e presi in ostaggio più di 200, ha condotto ad un’ondata di violenza e a crimini di guerra compiuti dallo Stato di Israele. Riteniamo cruciale che i tempi dell’inchiesta siano pertanto accelerati. Apprezziamo la vostra dichiarazione che le istituzioni preposte a proteggere la popolazione civile debbano indagare questi possibili crimini e ci aspettiamo che voi agiate con la stessa rapidità messa in atto nel caso dell’Ucraina, per garantire che venga fatta giustizia e vengano salvate vite innocenti.

Siamo estremamente preoccupati dagli inviti istituzionali da parte di Israele al genocidio, che vengono espressi a gran voce in ebraico e crediamo che dovrebbero essere seriamente presi in considerazione in quanto sono in gioco migliaia, se non milioni, di vite umane. Il 29 ottobre 2023 Benjamin Netanyahu ha fatto una dichiarazione pubblica riferendosi al popolo palestinese come “Amalek” [nipote di Esaù, è stato secondo la Bibbia il primo nemico ad attaccare gli Israeliti, subito dopo che questi avevano attraversato il Mar Rosso. Ha finito per rappresentare il male assoluto, il Demonio, ndt.] e citando la Bibbia: “distruggere completamente tutto quanto Amalek possiede e non risparmiare nessuno; bensì uccidere sia uomini che donne e bambini…”

Il personale militare e i giornalisti israeliani ora si appellano apertamente alla pulizia etnica e al genocidio. E’ evidente che Israele disprezza le vite dei civili a Gaza, ordinando loro di evacuare vaste aree anche se a Gaza non esiste un luogo sicuro dove la gente possa fuggire. E non dovrebbero neanche essere costretti a lasciare le proprie case: al contrario, la Risoluzione 194 dell’ONU promette loro il diritto al ritorno alle originarie abitazioni in quello che ora è lo Stato di Israele.

Ci dispiace moltissimo che, nonostante l’avvio di un’inchiesta, seguita dalla decisione del 2021 della Prima Camera Preliminare, secondo cui la Corte può esercitare la sua giurisdizione penale sulla situazione in Palestina, voi finora non abbiate intrapreso azioni concrete per fermare la tragica parabola di eventi nella nostra regione, accertando rendendo Israele responsabile.

Organizzazioni palestinesi, internazionali ed israeliane hanno fatto più volte appello al vostro ufficio perché intraprendiate azioni contro le sistematiche violazioni del diritto internazionale, i continui crimini di guerra e l’immane disprezzo dei più basilari diritti umani del popolo palestinese.

I crimini di guerra israeliani sono sistematici e continui e stanno aumentando. Le chiare e ben documentate prove di essi sono state sottoposte al vostro ufficio per anni. Vi invitiamo pressantemente a intraprendere azioni concrete e immediate.

Considerando l’intensificarsi della violenza e con l’obiettivo di salvare quante più vite possibile, vi esortiamo di:

  1. Emettere immediati mandati di arresto contro i dirigenti israeliani politici e della sicurezza militare che stanno commettendo crimini di guerra e crimini contro l’umanità;

  2. Accelerare la vostra inchiesta sui continui crimini perpetrati in questo momento dallo Stato di Israele, dalle sue forze militari e da cittadini israeliani armati sotto protezione dell’esercito; e

  3. Essere una tribuna valida ed equilibrata per presunti crimini che derivano dall’attuale situazione, piuttosto che fare riferimento ad accuse non convalidate e non verificate.

Allegato: Inviti al genocidio / Giustificazione del genocidio

Alcuni esempi di prove di dirigenti israeliani che invitano al genocidio:

  • Venerdì 13 ottobre il Presidente israeliano Isaac Herzog ha detto che tutti i cittadini di Gaza sono responsabili per gli attacchi che Hamas ha compiuto in Israele e che non ci sono civili innocenti a Gaza. Un elenco di simili inviti da parte di personaggi pubblici israeliani si può trovare qui.

  • Mercoledì 25 ottobre il sindaco di Sderot, ex deputato (n.3 del partito di Naftali Bennet) Alon Davidi ha detto: “Ogni abitante di Gaza è ISIS. Devono essere colpiti tutti…Non ho pietà per loro. Coloro che vivono là, due milioni di persone, sono nazisti. E’ una zona di nazisti e di ISIS che fornisce totale appoggio a Hamas e alla Jihad e, per quanto mi riguarda, ogni abitante di Gaza è di Hamas e dell’ISIS e dobbiamo ritenerli responsabili.” Davidi sottolinea che questo è il sentimento condiviso da tutti gli abitanti del sud (di Israele) con cui lui parla: “La gente vuole dirlo chiaramente: o noi o loro.” 

  • L’ex deputato Moshe Feiglin ha esortato alla completa distruzione di Gaza, come Hiroshima (senza armi nucleari)  

  • L’ex ambasciatore israeliano all’ONU Dan Gillerman ha definito i palestinesi “orribili animali disumani”

  • Un gruppo di esperti del governo israeliano ha recentemente delineato un piano per la completa pulizia etnica di Gaza.

Personaggi o organizzazioni pubbliche:

  • Eyal Golan, un popolare cantante israeliano, ha ribadito alla televisione israeliana la connotazione della popolazione di Gaza come “animali umani”, aggiungendo: “Dobbiamo cancellare Gaza e non lasciarvi nessuno vivo.”

  • Una propaganda distribuita sui social media da un movimento di destra dal titolo “Questa volta vinceremo – Eliminare Gaza” esplicita i suoi obbiettivi per la Striscia di Gaza: “Radere al suolo, Occupare, Colonizzare.”

Un opuscolo con “Codice Etico” fatto circolare ampiamente tra civili e soldati dalla “organizzazione per i diritti umani” di destra israeliana “Btsalmo” auspica il genocidio:

Codice etico per l’esercito di Israele”:

. Desidero offrire la mia anima per salvare il popolo ebraico.

. Il nemico deve essere eliminato piuttosto che neutralizzato.

. Una popolazione che appoggia il terrore è il nemico

. Un ordine di mettere a rischio le vite di civili o soldati allo scopo di

proteggere il nemico è manifestamente illegale.

. Lo sradicamento del male è un precetto morale ed è per il bene

dell’Umanità. Perseguiterò i miei nemici, li raggiungerò e non tornerò

prima della loro morte.

Firmato: Israeliani Contro l’Apartheid.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La giustizia non è negoziabile: perché Israele non può distruggere la resistenza palestinese

Ramzy Baroud

1 novemebre 2023 Palestine Chronicle

È tempo di parlare di giustizia, vera giustizia, il cui risultato non è negoziabile: uguaglianza, pieni diritti politici, libertà e il diritto al ritorno.

Gaza ha modificato l’equazione politica in Palestina.

Anzi, è probabile che le ripercussioni di questa guerra devastante cambino l’equazione politica di tutto il Medioriente e rimettano al centro la Palestina come la crisi politica più urgente al mondo nei prossimi anni.

Dalla fondazione di Israele, agevolata dalla Gran Bretagna e protetta dagli Stati Uniti e da altri Paesi occidentali, le priorità sono state interamente quelle di Israele.

“Sicurezza” di Israele, “superiorità militare” di Israele, “il diritto a difendersi” di Israele, e molto altro hanno definito il discorso politico dell’Occidente sull’occupazione e l’apartheid di Israele in Palestina.

Questa bizzarra concezione del cosiddetto conflitto da parte di USA e Occidente, secondo cui un oppressore ha “diritti” sull’oppresso, ha consentito a Israele di mantenere un’occupazione militare sui territori palestinesi che è durata oltre 56 anni.

Ha anche permesso a Israele di ignorare le radici di questo “conflitto”, cioè la pulizia etnica della Palestina nel 1948 e il diritto al ritorno a lungo negato ai profughi palestinesi.

All’interno di questo contesto ogni disponibilità alla pace dei palestinesi e degli arabi è stata rifiutata, ogni presunto “processo di pace”, cioè gli accordi di Oslo, trasformato in un’opportunità per Tel Aviv di rafforzare la sua occupazione militare, espandere le colonie e rinchiudere i palestinesi in spazi simili a Bantustan [le aree riservate ai nativi africani nel Sudafrica dell’apartheid, ndt.], umiliati e segregati su base razziale.

Alcuni palestinesi, sedotti dall’elemosina americana o distrutti da una persistente sensazione di sconfitta, si sono messi in fila per ricevere i dividendi della pace statunitense-israeliana, misere briciole di falso prestigio, titoli vuoti e potere limitato, concessi e negati da Israele stesso.

Tuttavia la guerra israeliana contro Gaza sta già cambiando molto di questo penoso status quo.

La costante enfasi israeliana sul fatto che la sua guerra letale sia contro Hamas, contro il “terrorismo”, contro il fondamentalismo islamico e tutto il resto, potrebbe aver convinto quelli che sono già pronti ad accettare per oro colato la versione israeliana degli eventi.

Ma, mentre i corpi di migliaia di civili palestinesi, migliaia dei quali sono minori, iniziano a accumularsi nelle sale mortuarie degli ospedali e tragicamente nelle strade di Gaza, la narrazione inizia a cambiare.

I corpi fatti a pezzi di minori palestinesi, le cui famiglie sono morte insieme a loro, testimoniano della brutalità di Israele, dell’appoggio immorale dei suoi alleati, della disumanità di un ordine internazionale che premia l’assassino e reprime la vittima.

Di tutte le dichiarazioni di parte fatte dal presidente USA Joe Biden quella in cui ha suggerito che i palestinesi mentono riguardo al conto dei loro morti è stata forse la più inumana.

Washington potrebbe non averlo ancora capito, ma le ripercussioni dell’appoggio incondizionato a Israele in futuro si dimostreranno disastrose, soprattutto in una regione che ne ha abbastanza di guerre, egemonia, doppio standard, divisioni settarie e conflitto senza fine.

Ma il maggior impatto si farà sentire nello stesso Israele.

Quando il 26 ottobre l’ambasciatore palestinese all’ONU Riyad Mansour ha fatto un potente ed emotivo discorso, non ha potuto trattenere le lacrime. Delegazioni internazionali all’Assemblea Generale dell’ONU hanno continuato ad applaudire, riflettendo il crescente appoggio alla Palestina, non solo all’ONU ma in centinaia di città e cittadine e in innumerevoli angoli di strada in tutto il mondo.

Quando ha parlato l’ambasciatore israeliano all’ONU Gilad Erdan, che ha ispirato la maggior parte delle menzogne comunicate da Tel Aviv, soprattutto nei primi giorni di guerra, nessuno ha applaudito.

La narrazione israeliana si è chiaramente sbriciolata in mille pezzi. In effetti Israele non è mai stato così isolato. Questo non è affatto il “Nuovo Medio Oriente” che Netanyahu aveva profetizzato nel suo discorso all’Assemblea Generale dell’ONU il 22 settembre.

Incapace di capire come mai l’iniziale simpatia con Israele si sia rapidamente trasformata in vero e proprio sdegno, Israele ha fatto ricorso alle vecchie tattiche.

Il 25 ottobre Erdan ha chiesto le dimissioni del segretario generale dell’ONU António Guterres in quanto “inadeguato a guidare l’ONU”. Il presunto imperdonabile delitto di Guterres è il fatto di aver affermato che “gli attacchi di Hamas non sono avvenuti dal nulla.”

Per Israele e i suoi benefattori americani nessun contesto è permesso di macchiare l’immagine perfetta che Israele ha creato per il suo genocidio a Gaza. In questo mondo perfetto israeliano a nessuno è consentito parlare di occupazione militare, di assedio, di mancanza di prospettive politiche, dell’assenza di una pace giusta per i palestinesi.

Benché nella sua dichiarazione Amnesty International abbia detto che entrambe le parti hanno commesso “gravi violazioni delle leggi umanitarie internazionali, compresi crimini di guerra”, Israele lo attacca ancora, accusando l’organizzazione di essere “antisemita”.

Perché, secondo Israele, neppure alla principale associazione internazionale per i diritti umani al mondo è permesso contestualizzare le atrocità a Gaza o di avere il coraggio di suggerire che una delle “cause alla radice del conflitto” è “il sistema israeliano di apartheid imposto ai palestinesi”.

Israele non è più onnipotente, come vuole farci credere. Gli ultimi eventi hanno dimostrato che “l’invincibile esercito” israeliano, un’etichetta che ha consentito a Israele di diventare nel 2022 il decimo principale esportatore di armi al mondo, si è dimostrato una tigre di carta.

Questo è ciò che ha fatto infuriare di più Israele. “I musulmani non hanno più paura di noi,” ha detto l’ex- parlamentare della Knesset Moshe Feiglin in un’intervista ad Arutz Sheva-Israel National News [Canale 7-Notizie Nazionali Israeliane, rete israeliana di estrema destra, ndt.]. Per ripristinare questa paura il politico estremista israeliano ha chiesto di “ridurre immediatamente in cenere Gaza.”

Ma niente ridurrà in cenere Gaza, anche se, secondo l’ufficio umanitario dell’ONU, le oltre 12.000 tonnellate di esplosivo lanciate contro la Striscia nelle prime due settimane di guerra hanno già ridotto in cenere almeno il 45% delle abitazioni nella Striscia.

Gaza non morirà perché è un’idea potente profondamente radicata nei cuori e nelle menti di ogni arabo, di ogni musulmano e di milioni di persone in tutto il mondo.

Questa nuova idea sta sfidando la convinzione a lungo coltivata che il mondo debba provvedere alle priorità, alla sicurezza, alla definizione egocentrica di pace e ad altre illusioni di Israele.

Il dibattito dovrebbe ora tornare a quello che avrebbe sempre dovuto essere: le priorità dell’oppresso e non dell’oppressore.

È giunto il tempo in cui si parli dei diritti dei palestinesi, della sicurezza dei palestinesi e del diritto del popolo palestinese, di fatto un obbligo, di difendere se stesso.

È tempo per noi di parlare di giustizia, vera giustizia, il cui risultato non è negoziabile: uguaglianza, pieni diritti politici, libertà e diritto al ritorno.

Gaza ci ha detto tutto questo e molto altro. Ed è tempo che noi le diamo ascolto.

Ramzy Baroud è giornalista, autore ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. L’ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappé, è Our Vision for Liberation: Engaged Palestines Leaders and Intellectuals Speak out [La nostra visione della liberazione: parlano i leader e gli intellettuali impegnati della Palestina]. Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)