Le demolizioni di case raggiungono un picco prima dell’annessione

Maureen Clare Murphy

7 luglio 2020 – Electronic Intifada

L’annessione formale di territori occupati da parte di Israele potrebbe essere stata accantonata, ma prosegue l’espulsione forzata di palestinesi in Cisgiordania.

Secondo l’associazione [israeliana] per i diritti umani B’Tselem, il mese scorso le demolizioni israeliane di case palestinesi nei territori sono aumentate.

In Cisgiordania, compresa Gerusalemme est – che Israele ha già annesso in violazione delle leggi internazionali – sono state distrutte circa 45 case.

B’Tselem afferma che otto delle case distrutte a Gerusalemme “sono state demolite dai loro proprietari, dopo che essi hanno ricevuto un ordine di demolizione dalla Municipalità e desideravano evitare di pagare il costo della demolizione e le multe del Comune.”

A Gerusalemme est più di 50 persone, tra cui circa 30 minorenni, sono state cacciate in seguito alle demolizioni. Nel resto della Cisgiordania 100 persone, metà delle quali minorenni, sono state lasciate senza casa. Oltre alla distruzione delle case, il mese scorso le forze di occupazione israeliane hanno raso al suolo più di 35 strutture non abitative.

B’Tselem ha pubblicato il video dell’Amministrazione Civile israeliana – in realtà un’unità del suo esercito – che il 3 giugno ha demolito cinque stalle di proprietà della famiglia Abu Dahuk nei pressi di Gerico nella Valle del Giordano.

Le forze di occupazione hanno anche confiscato pannelli solari, frigoriferi e contenitori per l’acqua. In gennaio, con il pretesto della vicinanza di una zona militare israeliana, la famiglia Abu Dahuk è stata espulsa da un’area attigua in cui aveva vissuto per 30 anni.

Israele ha dichiarato zona militare chiusa più di metà della Valle del Giordano della Cisgiordania. Ai palestinesi che vivono in queste zone, molti dei quali in comunità di pastori, è stato ordinato di evacuare le loro case quando Israele compie esercitazioni militari di combattimento.

Ma il vero scopo della dichiarazione di zone militari chiuse è l’espropriazione delle terre palestinesi per poi annetterle ad Israele.

L’utilizzo di macchinari edili delle ditte Caterpillar e JCB

All’inizio di giugno l’Amministrazione Civile israeliana si è occupata della distruzione di sei case nelle colline meridionali di Hebron, in Cisgiordania.

Per mettere in atto questi crimini ha utilizzato macchinari della Caterpillar e della JCB.

Entrambe le imprese, rispettivamente americana e britannica, sono state contestate per il loro perdurante coinvolgimento nella distruzione delle case palestinesi.

In seguito, nello stesso mese l’amministrazione civile ha smantellato e confiscato un recinto per allevamento del bestiame in un’altra zona delle colline meridionali di Hebron.

Le forze di occupazione hanno sparato granate stordenti contro abitanti e attivisti che protestavano contro la confisca.>

Così, anche se l’annessione di Israele non è stata formalizzata, i palestinesi continuano ad essere espulsi per farvi posto.

Come ha detto recentemente Hagai El-Ad, direttore di B’Tselem, la mancanza di iniziative internazionali riguardo all’annessione di fatto delle terre della Cisgiordania invia ad Israele un messaggio di accondiscendenza:

“Fai quello che vuoi con milioni di palestinesi per tutto il tempo che vuoi. È permesso quasi tutto finché non vengano ufficialmente formalizzati certi aspetti, in modo che noi tutti possiamo continuare a guardare da un’altra parte rispetto a questa ingiustizia e facciamo finta che sia temporanea.”

Finora nel corso di quest’anno in Cisgiordania sono state demolite circa 325 strutture di proprietà di palestinesi, con conseguente espulsione di circa 370 persone.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Annettere gli acquiferi: Israele e la crisi idrica nella Palestina occupata

Fareed Taamallah

28 maggio 2020 – Palestine Chronicle

La scorsa settimana la Palestinian Water Authority [Autorità Palestinese per l’Acqua] ha duramente criticato Israele per aver ridotto in modo significativo la quantità di acqua destinata alla Cisgiordania. “Stiamo affrontando questa crisi mentre sta cominciando l’estate, un periodo dell’anno in cui la gente in genere ha bisogno di più acqua, non di meno,” secondo una citazione di quanto ha detto il capo della PWA Mazen Ghneim.

Nel mio quartiere a Ramallah ogni anno durante i mesi estivi non abbiamo quasi mai acqua nelle tubature. L’acqua scorre solo un giorno alla settimana. Quindi tutte le famiglie devono fare attenzione all’orario di distribuzione dell’acqua per pianificare le attività domestiche come fare il bucato e pulire la casa. Alcune comunità palestinesi in Cisgiordania sono collegale a reti idriche “allacciate” che riforniscono gli illegali coloni israeliani. Durante i mesi secchi estivi le valvole dell’acqua che portano alle vicine comunità palestinesi vengono normalmente chiuse dalle autorità israeliane in modo che i coloni non soffrano per la mancanza di acqua.

Nei territori palestinesi la carenza di acqua non è una crisi di carattere naturale, ma piuttosto il risultato dell’occupazione israeliana che sfrutta oltre l’85% delle risorse idriche.

Fatti e dati

Israele controlla i tre principali acquiferi transfrontalieri nei territori palestinesi occupati. Il primo e più grande è l’acquifero (montano) della Cisgiordania, che è alimentato dalle piogge e genera 679 milioni di m3 di acqua all’anno. Il secondo è il fiume Giordano, che fornisce a Israele circa 450 milioni di m3 all’anno. Ai palestinesi viene negato l’accesso e la fornitura delle loro acque. Il terzo è l’acquifero costiero, che produce 450 milioni di m3 d’acqua a Israele e 55 milioni di m3 a Gaza.

La Palestina ha un buon livello di precipitazioni. Ramallah, per esempio, ha un livello medio di piogge annuali di 615 millimetri, che è quasi tanto quanto i 620 mm di Londra.

Secondo il rapporto della Palestinian Water Authority del 2012, si stima che circa 784 milioni di m3 di piogge abbiano ricaricato le falde freatiche in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Tuttavia ai palestinesi vengono destinati solo 375 milioni di m3 di queste acque sotterranee, mentre Israele ne consuma annualmente 2.346 milioni di m3.

Gli accordi di Oslo

Il problema idrico è cominciato fin dall’inizio dell’occupazione israeliana della Palestina, ma è stato esacerbato nel 1995 dall’accordo provvisorio Oslo II tra l’OLP e il governo israeliano. Gli accordi di Oslo prevedevano “l’uso equo delle risorse idriche comuni da mettere in pratica durante e dopo il periodo transitorio.” Ma in realtà ciò non è mai avvenuto.

L’accordo che avrebbe dovuto essere di un periodo temporaneo di cinque anni limitò lo sviluppo delle risorse idriche palestinesi, e venne inquadrato nell’assunto che le necessità idriche palestinesi fossero di 70-80 milioni di m3 all’anno e che lo sviluppo provvisorio delle risorse idriche dovesse essere gestito da un meccanismo palestinese-israeliano. Gli argomenti riguardo agli “interessi comuni” (uno dei quali era l’acqua) sarebbero stati ulteriormente definiti in base ai negoziati per lo status permanente.

Il fallimento nel raggiungere un accordo definitivo ha significato l’iniqua distribuzione degli acquiferi della Cisgiordania, con il 15% destinato ai palestinesi e l’85% a Israele.

Come specificato negli accordi di Oslo, venne creata un Joint Water Committee [Comitato Congiunto per l’Acqua] (JWC) per sovrintendere a tutti i progetti relativi all’acqua e alle acque reflue in Cisgiordania. Il JWC è composto da un pari numero di rappresentanti rispettivamente di Israele e dell’Autorità Nazionale Palestinese, e le decisioni vengono prese di comune accordo. Ciò ha concesso ad Israele il potere di veto su tutti i progetti riguardanti le risorse idriche palestinesi e bloccato ogni richiesta dei palestinesi di scavare nuovi pozzi.

Pozzi costruiti o risistemati senza permessi rilasciati da Israele sono sistematicamente distrutti dalle forze di occupazione israeliane.

Apartheid idrico

Mentre le comunità palestinesi stanno affrontando la siccità e la carenza di acqua, le colonie israeliane – situate nella stessa area geografica – godono di abbondanti forniture idriche, consentendo ai coloni di riempire le loro piscine e di irrigare i loro prati e giardini. Il mancato accesso ad adeguate quantità d’acqua necessarie per l’allevamento di bestiame e per la produzione di alimenti rende beduini, allevatori e contadini particolarmente vulnerabili.

Le colonie agricole israeliane in Cisgiordania, soprattutto quelle della valle del Giordano, godono di una quantità di acqua fino a 6 volte superiore rispetto alle comunità palestinesi vicine. Nella città palestinese di Tubas il consumo quotidiano di acqua è di 30 litri a persona. Tuttavia secondo B’Tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndtr.] gli abitanti della vicina colonia illegale israeliana di Beda’ot consumano circa 401 litri al giorno.

Mentre la popolazione palestinese è raddoppiata, la disponibilità di acqua è diminuita. Secondo il rapporto 2018 della Banca Mondiale, “con una popolazione della Cisgiordania e di Gaza di circa 4,8 milioni, che aumenta a un tasso medio annuale del 2,8%, si prevede che la differenza di forniture per uso domestico sia rispettivamente circa di 152 e di 135 milioni di m3.”

L’egemonia idrica israeliana ha lasciato i palestinesi con un disavanzo nell’allocazione idrica. Per compensare questo deficit sono stati obbligati a procurarsi da Israele circa un quarto delle forniture di acqua per uso domestico.

Secondo l’Ufficio palestinese di statistica il consumo quotidiano di acqua pro capite è attorno agli 88 litri. In confronto il consumo quotidiano di acqua pro capite in Israele è di 257 litri. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda almeno 100 litri di acqua a persona al giorno. Il consumo palestinese è inferiore al minimo.

Nella Striscia di Gaza la situazione idrica è persino peggiore. La gravissima carenza di acqua provocata dal 2007 dal brutale blocco israeliano ha portato a un pesante ricorso alla parte dell’acquifero costiero sottostante come unica fonte di rifornimento idrico di Gaza.

I due milioni di abitanti hanno estratto circa 180 milioni di m3 nel 2017, ma questa quantità è ottenuta con il pompaggio non sicuro che danneggia l’eco-sostenibilità della falda acquifera, mentre il ricarico totale è solo di un terzo di quanto viene estratto. Le conseguenze dirette dell’eccessivo pompaggio sono l’infiltrazione di acqua di mare e l’affioramento dell’acqua salmastra profonda. Di conseguenza il 97% dell’acqua non è potabile e non risponde agli standard di qualità delle linee guida riconosciute dell’OMS per le sorgenti di acqua potabile.

Piano di annessione

Israele controlla le due principali fonti idriche palestinesi in Cisgiordania (il bacino del fiume Giordano a est e l’acquifero montano occidentale) che forniscono annualmente a Israele circa 900 milioni di m3 di acqua.

Attraverso l’annessione delle zone della Cisgiordania prevista quest’anno, Israele intende impossessarsi degli acquiferi della Cisgiordania al di là dei nuovi confini israeliani conservando il controllo dei blocchi di colonie adiacenti ai bacini, in particolare la valle del Giordano e l’area di Salfit, dove si trova la mia città di origine, Qira.

Questa annessione perpetuerà gli alti livelli di consumo dell’acqua da parte di Israele negando le necessità fondamentali dei palestinesi e obbligandoli a dipendere da Israele per l’acqua, preservando così lo status quo di una drammaticamente ingiusta divisione delle risorse idriche, spegnendo ogni speranza di uno Stato palestinese e di una pace sostenibili nella regione.

Fareed Taamallah è un giornalista, agricoltore e attivista politico palestinese che vive a Ramallah. Ha fornito questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Lo Stato d’Israele contro gli ebrei

Cypel S., L’État d’Israël contre les juifs, La Découverte, Paris, 2020.

Recensione di Amedeo Rossi

16 aprile 2020

Sylvain Cypel è un giornalista ed intellettuale francese, a lungo inviato di Le Monde negli USA ed autore nel 2006 di un altro importante libro sul conflitto israelo-palestinese: “Les emmurés : la société israélienne dans l’impasse” [I murati vivi: la società israeliana nel vicolo cieco], non tradotto in italiano. Attualmente collabora con il sito Orient XXI di Alain Gresh.

Avendo vissuto a lungo durante la giovinezza in Israele e con un padre sionista, l’autore conosce bene la società e la politica di quel Paese. Non a caso il libro inizia con un ricordo familiare: nel 1990 l’ottantenne genitore gli disse: “Vedi, alla fine abbiamo vinto”, riferendosi al sionismo. “Mi ricordo”, scrive Cypel, “di essere rimasto zitto. E di aver tristemente pensato che quella storia non era finita e che dentro di lui mio padre lo sapesse.”

È proprio di questa riflessione iniziale che parla il libro. Chi segue assiduamente le vicende israelo-palestinesi vi troverà spesso cose già note. Molti degli articoli citati si trovano sul sito di Zeitun. Tuttavia, sia per la qualità letteraria che per la profondità di analisi il lettore non rimane deluso. Ogni capitolo è introdotto da un titolo ricavato da una citazione significativa da articoli o interviste che ne sintetizza molto efficacemente il contenuto: dal molto esplicito “Orinare nella piscina dall’alto del trampolino”, per evocare la sfacciataggine di Israele nel violare leggi e regole internazionali, a “Non capiscono che questo Paese appartiene all’uomo bianco”, riguardo al razzismo che domina la politica e l’opinione pubblica israeliane, fino a “Sono stremato da Israele, questo Paese lontano ed estraneo”, in cui l’autore descrive il sentimento di molti ebrei della diaspora nei confronti dello “Stato ebraico”.

Da questi esempi si intuisce che gli argomenti toccati nelle 323 pagine del libro sono molto vari e concorrono ad una descrizione desolante della situazione, sia in Israele che all’estero, ma con qualche spiraglio di speranza.

Cypel denuncia l’incapacità dell’opinione pubblica e ancor più della politica israeliane di invertire la deriva nazionalista e etnocratica del Paese. Ne fanno le spese non solo i palestinesi e gli immigrati africani, stigmatizzati da ministri e politici di ogni colore con epiteti che farebbero impallidire Salvini, ma anche gli stessi ebrei israeliani. Non a caso uno dei capitoli si intitola “Siamo allo Stato dello Shin Bet”, il servizio di intelligence interno. Sono colpiti i dissidenti israeliani, come Ong e giornalisti, le voci che si oppongono alle politiche nei confronti dei palestinesi e delle minoranze in generale, e quelli all’estero, come i sostenitori a vario titolo del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele). Quest’ultimo viene indicato nel libro come una reale ed efficace minaccia allo strapotere internazionale della Destra, termine che include quasi tutto il quadro politico israeliano. Varie leggi proibiscono l’ingresso e cercano di impedire il finanziamento di queste voci dissidenti, mentre Israele promuove anche i gruppi più esplicitamente violenti e razzisti, tanto che Cypel parla di un “Ku Klux Klan” ebraico. A proposito di un episodio di censura a danno di B’Tselem da parte della ministra della Cultura Miri Regev, l’autore cita la presa di posizione critica persino dell’ex-capo dello Shin Bet Ami Ayalon: “La tirannia progressiva è un processo nel quale uno vive in democrazia e, un giorno, constata che non è più una democrazia.”

Ciò non intacca minimamente l’incondizionato sostegno degli USA di Trump come quello, anche se meno esplicito, dell’UE. Questa corsa verso l’estrema destra è dimostrata anche dagli ottimi rapporti tra il governo israeliano e gli esponenti più in vista del cosiddetto “sovranismo”: oltre a Trump, il libro cita altri presidenti delle ormai molte “democrazie autoritarie” in tutto il mondo. Ancora peggio avviene in Europa, dove i migliori amici di Netanyahu sono anche esplicitamente antisemiti: Orban in Ungheria e il governo polacco, persino Alternative für Deutchland, partito tedesco con tendenze esplicitamente nazistoidi, oltre a Salvini e all’estrema destra francese, hanno ottimi rapporti con i governanti israeliani. Questi personaggi sono stati accolti al Museo dell’Olocausto per mondarsi dall’accusa di antisemitismo e poter continuare a sostenere posizioni xenofobe e razziste. Non è solo l’islamofobia a cementare questa alleanza. È il comune richiamo al suprematismo etnico-religioso che fa di Israele un modello per questi movimenti di estrema destra, ed al contempo lo “Stato ebraico” ne rappresenta la legittimazione: se può disumanizzare palestinesi e immigrati e può opprimerli impunemente, violando le norme internazionali che dovrebbero impedirlo, perché non potremmo fare altrettanto in Europa e altrove contro immigrati, musulmani, nativi? Riguardo alle giustificazioni di questa imbarazzante alleanza, Cypel cita quanto affermato da una deputata del Likud: “Forse sono antisemiti, ma stanno dalla nostra parte.” “Ovviamente”, aggiunge l’autore, costei è “una militante attiva della campagna per rendere reato l’antisionismo come la forma contemporanea dell’antisemitismo.”

A queste posizioni si adeguano le comunità ebraiche europee, in particolare in Francia, Paese in cui risiede la comunità della diaspora ebraica più numerosa dopo quella statunitense. Il Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche di Francia (CRIF) “formalmente rappresenta l’ebraismo francese; de facto, è in primo luogo il gruppo lobbysta di uno Stato estero e si vive come tale,” afferma il libro. Cypel attribuisce questo fenomeno alla mediocrità della vita culturale ebraica in Francia ed alla tendenza a rinchiudersi in quartieri ghetto, sfuggendo alla convivenza con le altre componenti della popolazione. Inoltre la tendenza al conformismo deriva anche dalla paura di venire isolati dal resto della comunità: “Le persone preferiscono non esprimere il proprio disaccordo, per timore di essere accusate di tradimento.” L’autore cita vari episodi di censura, persino il tentativo fallito da parte dell’ambasciata israeliana a Parigi e del CRIF di impedire la messa in onda su una rete nazionale di un documentario (peraltro senza neppure averlo visto) sui giovani gazawi mutilati dai cecchini israeliani. La motivazione? “Avrebbe potuto alimentare l’antisemitismo,” ha sostenuto l’ambasciata. Purtroppo lo stesso atteggiamento caratterizza le istituzioni della comunità ebraica italiana, o di quella britannica, come dimostrato dalla campagna di diffamazione contro Corbyn. Quindi sembra trattarsi di una posizione che riguarda buona parte dell’ebraismo europeo.

L’unico spiraglio di speranza all’interno del mondo ebraico viene invece dagli USA. Non solo, sostiene Cypel, non vi si è perso il tradizionale progressismo moderato, ma anzi l’occupazione e gli stretti legami tra Trump (legato a suprematisti, razzisti e fanatici religiosi) e Netanyahu hanno allontanato molti ebrei, soprattutto tra i giovani, dal sostegno incondizionato a Israele. Nei campus, afferma l’autore, circa metà dei militanti del BDS sono ebrei. Molti intellettuali ebrei si sono dichiarati contrari alla legge sullo “Stato-Nazione”, e, dopo l’approvazione di una norma che vieta l’ingresso in Israele ai sostenitori del BDS, più di 100 personalità importanti, tra cui alcuni esplicitamente filosionisti, hanno firmato una petizione di denuncia. Questo allontanamento si manifesta anche in un sostanziale disinteresse nei confronti dello “Stato ebraico”, oppure nella dissidenza religiosa da parte degli ebrei riformati, in maggioranza negli USA, secondo i quali il ruolo del popolo ebraico è quello di migliorare il mondo e l’umanità. Un obiettivo ben lontano da quello della supremazia etnico-religiosa rivendicata da ortodossi ed ultraortodossi in Israele.

Nonostante la sua superiorità incontrastata, secondo Cypel la società israeliana è in preda all’inquietudine e al pessimismo rispetto al futuro, all’“impotenza della potenza”. L’ha espressa chiaramente lo storico Benny Morris sostenendo una tesi apparentemente paradossale: “Tra trenta o cinquant’anni [i palestinesi] ci avranno sconfitti.” È la vaga percezione di vivere una situazione segnata dalla mistificazione, che fa provare a molti israeliani un senso di precarietà e di timore per il futuro, che però al momento gioca a favore di una destra sempre più estrema.

Il libro si chiude con un omaggio a Tony Judt, il primo importante intellettuale ebreo americano a sostenere l’opzione di uno Stato unico per ebrei e palestinesi. Nell’ottobre 2003 definì Israele uno Stato anacronistico, nel suo nazionalismo etnico religioso ottocentesco, di fronte alla sfida della mondializzazione.

Cypel conclude con un auspicio che non si può che condividere: “Quello che si può augurare agli ebrei, che siano o meno israeliani, è che prendano coscienza di questa realtà e ne traggano le conseguenze, invece di continuare a nascondere la testa sotto la sabbia.” Questo libro contribuisce a questo svelamento, e c’è da augurarsi che venga pubblicato anche in Italia.

(Le citazioni tratte dal libro sono state tradotte in italiano dal recensore)




In mezzo alla pandemia aumentano del 78% le aggressioni dei coloni

Tamara Nassar

11 aprile 2020 electronicintifada

In piena pandemia di COVID-19 nella Cisgiordania occupata si registra un forte aumento della violenza dei coloni israeliani contro i palestinesi.

Anche dopo che il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha chiesto un cessate il fuoco globale per ostacolare la diffusione della pandemia, Israele ha ucciso due palestinesi, incluso un bambino, e incrementato gli attacchi.

Israele ha continuato i suoi “raid militari in Cisgiordania, condotto arresti diffusi e detenzioni amministrative, ha permesso gravi accessi di violenza da parte dei coloni e ha continuato la sua draconiana chiusura della Striscia di Gaza”, ha affermato l’organizzazione per i diritti palestinesi Al Haq.

Nelle ultime due settimane di marzo, il numero di aggressioni dei coloni contro i palestinesi è stato del 78% superiore al solito, secondo il gruppo di monitoraggio dell’ONU OCHA.

Durante questo periodo, “almeno 16 assalti di coloni israeliani hanno ferito cinque palestinesi e causato gravi danni materiali”, ha riferito l’OCHA.

Anche se Mohammad Shtayyeh, primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha ordinato un isolamento di due settimane a tutti i residenti palestinesi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, la sua decisione non ha avuto alcun impatto sui circa 800.000 israeliani che vivono negli insediamenti illegali.

Quei coloni condividono strade, negozi di alimentari e distributori di benzina con i palestinesi, sottoponendoli spesso a molestie verbali, aggressioni fisiche e danni materiali.

Le forze israeliane “non sono intervenute per prevenire i comportamenti illeciti, fornendo invece sostegno e protezione ai coloni, garantendo che tali individui non venissero chiamati a rispondere dei loro atti e consolidando l’attuale regime di impunità”, ha affermato Al Haq.

I coloni godono di un’impunità pressoché totale per le violenze che commettono contro i palestinesi, il che li incoraggia ad aumentare le aggressioni.

Oggetto di continui assalti, i palestinesi si stanno sforzando di prendere tutte le precauzioni sanitarie contro la pandemia di coronavirus. In effetti, i coloni stanno sfruttando l’isolamento per aumentare le loro violenze con poche resistenze da parte dei residenti palestinesi.

Assalto a un cimitero

Giovedì i coloni israeliani hanno vandalizzato le lapidi del cimitero palestinese nel villaggio di Burqa in Cisgiordania.

Ghassan Daghlas, che controlla le attività dei coloni nella Cisgiordania settentrionale, ha riferito all’agenzia di stampa palestinese WAFA che i coloni sono entrati nel villaggio attraverso l’adiacente e già evacuato insediamento israeliano di Homesh.

Homesh è stata liberata dai suoi residenti israeliani nel 2005 come parte del presunto “disimpegno” israeliano a Gaza e in diversi villaggi della Cisgiordania. La terra, che apparteneva al villaggio di Burqa, fu dichiarata zona militare e chiusa negli anni ’70.

Il mese scorso i coloni hanno picchiato e lanciato pietre contro un contadino che lavorava la propria terra nella zona di Homesh.

“Uno di loro aveva in mano una pistola”, ha detto ad Al Haq Ali Mustafa Mohammad Zubi, 55 anni.

“Ogni volta che provavo ad alzarmi e correre via mi buttavano a terra, mi picchiavano e mi aggredivano verbalmente.”

Colpito con un’ascia

Inoltre, un palestinese è stato ricoverato in ospedale dopo che i coloni israeliani lo hanno assalito con un’ascia il 24 marzo nel villaggio cisgiordano di Umm Safa, a ovest di Ramallah.

Un colono stava entrando con una mandria di 50 mucche in un uliveto a ovest del villaggio.

Otto residenti del villaggio, accompagnati dal vice capo del consiglio locale, Naji Tanatrah, sono andati a chiedergli di lasciare il villaggio. Mentre stava per ritirarsi, cinque coloni armati sono arrivati su due veicoli con asce e almeno un fucile e hanno preso ad aggredire Tanatrah, riferisce B’Tselem.

Un colono ha colpito Tanatrah alla testa con l’ascia, facendolo cadere a terra sanguinante. I coloni hanno continuato a picchiare il 45enne che giaceva sanguinante a terra.

Alcuni abitanti sono riusciti a recuperare Tanatrah e spostarlo in un ospedale di Ramallah, dove è stato operato e gli è stata diagnosticata una frattura al cranio.

“Ho trascorso cinque giorni in ospedale e me ne sono andato appena ho potuto, temendo di contrarre il coronavirus” avrebbe detto Tanatrah, come riferisce il quotidiano israeliano Haaretz.

Il giorno successivo, decine di coloni hanno tentato di entrare nel villaggio di Einabus, sempre nella zona di Nablus.

Contemporaneamente i coloni attaccavano un pastore nel villaggio di al-Tuwani, nelle colline a sud di Hebron. Il 27 marzo sei coloni, alcuni armati, hanno attaccato il pastore mentre stava pascolando il suo gregge, riferisce B’Tselem. Uno dei cani dei coloni lo ha morso al braccio e all’addome; è stato portato in una clinica medica dove l’hanno vaccinato contro la rabbia.

Il giorno seguente i coloni hanno lanciato pietre contro tre abitanti che tornavano ad al-Tuwani.

Altri abitanti del villaggio sono arrivati per aiutarli finché sono giunti i militari israeliani e hanno lanciato candelotti di gas lacrimogeno contro gli abitanti del villaggio.

Le forze israeliane hanno arrestato tre abitanti del villaggio, rilasciandone due su cauzione.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La battaglia dell’acqua in Palestina (I parte)

Francesca Merz

24 marzo 2020 Nena News

Da sempre un punto centrale del conflitto arabo-israeliano, l’approvvigionamento idrico è una delle principali sfide che le autorità palestinesi in Cisgiordania e a Gaza devono affrontare. Una questione complessa dato che l’85% delle acque palestinesi è sotto il controllo israeliano

Il 22 marzo è stata la giornata dell’acqua, il 23 la Giornata mondiale del clima, l’intima connessione che lega il primo elemento con ciò che accadrà al nostro pianeta in futuro, è oramai nota, tanto che anche le Nazioni Unite si sono poste l’obiettivo di unificare il dibattito, esaltando l’interdipendenza tra questi due temi.

L’ufficio centrale palestinese di statistica, l’Autorità palestinese per l’acqua e l’Amministrazione generale sul clima palestinesi hanno rilasciato una dichiarazione stampa congiunta, venerdì, proprio in tal senso, con un messaggio univoco che mettesse in luce la correlazione tra queste due giornate “Acqua e cambiamenti climatici” appunto. 
L’obiettivo di unificare lo slogan per questi due giorni globali è arrivato, secondo la dichiarazione, proprio per sancire e sottolineare la grande interdipendenza tra acqua e clima, e con la volontà di coordinare gli sforzi di gestione dei due settori, per garantire la sostenibilità idrica e contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici, soprattutto perché entrambi sono essenziali per raggiungere obiettivi di sviluppo sostenibile e per ridurre disastri naturali in modo proattivo.

Secondo gli ultimi dati, il consumo medio pro capite di acqua per la popolazione ha raggiunto 87,3 litri al giorno di acqua in Palestina. Questo tasso ha raggiunto i 90,5 litri al giorno in Cisgiordania e un miglioramento rispetto agli anni precedenti grazie ai progetti idrici completati, che sono stati in grado di sviluppare le risorse disponibili e ridurre gli sprechi.
La quota pro capite a Gaza oggi ha raggiunto 83,1 litricon il rilevamento di una diminuzione di 5,2 litri rispetto allo scorso anno, a causa dell’aumento della popolazione. Con un ulteriore calcolo però a causa dell’ elevato tasso di inquinamento dell’acqua a Gaza, se si considerano solo le quantità di acqua idonee all’uso per gli esseri umani, la quota pro capite di acqua dolce raggiunge solo i 22,4 litri al giorno. Partendo proprio dalla differenza tra le singole quote tra i governatorati, ottenere un equilibrio nella distribuzione tra i centri abitati è una delle principali sfide che l’Autorità Palestinese deve affrontareVale la pena notare che il consumo medio di acqua palestinese per persona è ancora inferiore al minimo raccomandato a livello globale, il che non può non farci pensare al controllo israeliano di oltre l’85% delle risorse idriche palestinesi.

A Gaza, vedremo dopo il perchè, oltre il 97% della qualità dell’acqua pompata dal bacino costiero non soddisfa gli standard dell’OMS. 
In linea generale, secondo gli ultimi dati, il 77% dell’acqua disponibile proviene da acque sotterranee, ancora una volta il motivo principale dell’uso limitato delle acque superficiali è il controllo dell’occupazione israeliana sulle acque del fiume Giordano che impedisce anche ai palestinesi di usare l’acqua delle valli.
Secondo i dati del 2018, la Palestina ha iniziato a produrre quantità di acqua desalinizzata, che dovrebbe aumentare la percentuale di risorsa disponibile nei prossimi anni, con l’avvio di impianti di desalinizzazione specie a Gaza. Ad oggi, secondo quel principio di colonizzazione e dipendenza solidamente costruito dall’occupazione, il 22% dell’acqua disponibile in Palestina viene acquistata dalla compagnia idrica israeliana Mecorot, come sempre il controllo economico si cela sotto le sembianze di un libero mercato che toglie il diritto all’acqua e costringe un popolo a pagare per dei servizi dei quali non avrebbe bisogno se non fosse schiacciato da un colonialismo estremo, che vede proprio il controllo economico sulle risorse di base come sua prima arma.

Gli ultimi rapporti sui territori palestinesi, in relazione alla quantità di acqua piovana annuale e al potenziale aumento delle risorse idriche, ci dicono che, se da una parte piove di più, dall’altra lo fa in periodi dell’anno altamente circoscritti, con bombe d’acqua che non riescono ad aumentare le falde, e che, dall’altra, l’innalzamento della temperatura globale, porta ad una sempre più veloce evaporazione delle risorse, il cambiamento climatico è dunque un importante dato che andrà proprio ad intaccare in maniera forte le acque sotterranee e superficiali. Attualmente, l’Autorità per l’acqua e il Dipartimento sul clima, in collaborazione con un certo numero di autorità locali competenti, stanno implementando una serie di programmi volti a monitorare e valutare gli effetti dei cambiamenti climatici, pubblicando le relazioni necessarie a tale proposito, oltre a preparare i piani necessari per adattarsi agli effetti dei cambiamenti.

A Gaza, in particolare, la situazione è sempre più disastrosa, come certificato dalle stesse autorità israeliane. Il 3 giugno dello scorso anno ricercatori delle università israeliane di Tel Aviv e Ben Gurion hanno presentato un rapporto, commissionato dall’organizzazione ambientalista ‘EcoPeace Middle East’, in cui avvertono che “il deterioramento delle infrastrutture idriche, elettriche e fognarie nella Striscia di Gaza costituisce un sostanziale pericolo per le acque terrestri e marine, le spiagge e gli impianti di desalinizzazione di Israele”. Ma ciò che Israele ha identificato come un “problema di sicurezza nazionale” è in realtà un disastro causato da proprie responsabilità. Innumerevoli rapporti delle Nazioni Unite hanno infatti documentato dettagliatamente come e perché la principale causa del disastro sia l’occupazione israeliana. Il motivo per cui le acque reflue a Gaza vengono smaltite in questo modo definito dagli israeliani “irresponsabile” è che gli impianti per il trattamento delle acque non funzionano; sono stati colpiti nell’attacco israeliano alla Striscia del 2014 [operazione “Margine protettivo, ndtr.] e non sono mai stati ricostruiti perché l’assedio israeliano non consente di importare materiali da costruzione e pezzi di ricambio (vedi articolo sul Protocollo di Parigi).

Ma non solo a Gaza il tema dell’acqua è di profonda urgenza, anche in tutta la Cisgiordania, affollata da nuovi insediamenti israeliani, risulta chiarissima l’interconnessione tra la gestione dell’acqua da parte di Israele, e le innumerevoli questioni legate all’impatto ambientale che il colonialismo impone. Gli insediamenti israeliani incombono in numero sempre maggiore (dopo il piano Trump è stato dato il via libera alla costruzione di 122 nuovi insediamenti), producendo un flusso di liquami che scorre costantemente sotto di loro. Il terrificante impatto delle colonie sull’ambiente è visibile ovunque. Nelle valli Matwa e al-Atrash – situate nel distretto di Salfit della Cisgiordania occupata tra le città palestinesi di Ramallah e Nablus si raccolgono le acque reflue mal gestite da residenti palestinesi a Salfit e soprattutto da residenti israeliani nei vicini insediamenti illegali di Ariel e Barkan.

Secondo un rapporto del 2009 dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, i palestinesi che vivono in queste valli sono esposti a “acque reflue non trattate [che] contengono virus, batteri, parassiti e metalli pesanti e tossici [che] sono pericolosi per la salute umana e per gli animali”. Le acque reflue non trattate hanno un grave impatto sulla salute pubblica ma le sostanze chimiche riversate dalle fabbriche vicine rappresentano se possibile una minaccia ben peggiore. Secondo un report di B’Tselem del 2017, lo Stato di Israele stava sfruttando la terra palestinese per il trattamento di vari rifiuti creati non solo negli insediamenti illegali ma dall’interno della linea verde. Nel rapporto, si dice che le zone industriali dell’insediamento di Ariel e Barkan contengono due dei 14 impianti di trattamento dei rifiuti gestiti da Israele nella Cisgiordania occupata e nella Gerusalemme est.

Come si può immaginare, in un territorio composto da territori montuosi e aridi l’impatto di un’ agricoltura intensiva e aggressiva, e uno sviluppo industriale ai danni degli occupati, sono i fattori che fanno dell’acqua potabile, già di natura scarsa, una risorsa sempre più critica. Secondo l’Autorità Nazionale Palestinese, Israele possiede il controllo di quasi tutte le sorgenti e un terzo degli abitanti della West Bank riceve acqua a intermittenza. I dati sul consumo dell’acqua confermano ciò. Per i palestinesi, infatti, sono disponibili un quinto delle risorse idriche rispetto a quelle dei coloni. Entrambe le parti in causa attingono acqua dal bacino idrico delle montagne della West Bank.
Anche le altre due risorse della zona, il Mar di Galilea ed il bacino idrico costiero, sono condivise dalle due parti in causa che le sfruttano, vista l’aridità della zona, in maniera eccessiva. Tutti i bacini idrici si trovano dunque in territorio palestinese, e questo già ci dice molto di quanto “la guerra dell’acqua” sia risultata fondamentale sin dai tempi della nascita dello stato ebraico, come vedremo di seguito. Sempre B’Tselem, in un rapporto dichiara che oltre 215mila palestinesi in più di 150 villaggi non sono connessi alla rete idrica e che lo stato d’Israele alloca le risorse idriche in maniera discriminatoria.

L’esistenza di una doppia rete idrica nei territori occupati, una efficiente per gli insediamenti dei coloni e una priva della necessaria manutenzione da oltre 40 anni e con perdite di oltre l’11 per cento dell’acqua destinata ai palestinesi, sembra confermare l’ipotesi.

«Nei mesi estivi la Mekorot Israeli Water Company riduce i rifornimenti d’acqua alle aree palestinesi in maniera considerevole. – ha dichiarato al giornale israeliano Haaretz, Tashir Nasir Eldin, direttore generale dell’Autorità Palestinese per l’Acqua in Cisgiordania.

A Hebron, per esempio, i 300mila abitanti avrebbero bisogno di circa 25mila metri cubi d’acqua al giorno, ma dalla Mekorot ne arrivano solamente 5.500. Analogo discorso a Betlemme, dove i metri cubi necessari sarebbero 18mila, ma ne arrivano solamente 8mila.

Occorre a questo punto fare un passo indietro, per capire anche storicamente il grande valore che ha da sempre rivestito l’acqua all’interno di questi territori e del conflitto. Nel 1919, Chaim Weizman, alla testa dell’Organizzazione Sionista Mondiale, scrive al Primo Ministro inglese Lloyd George esprimendosi così « il futuro economico della Palestina, nel suo complesso, dipende dal suo approvvigionamento di acqua, per l’irrigazione e per la produzione di energia elettrica». Le frontiere che allora venivano richieste per la nascita dello Stato Ebraico, inglobavano, oltre alla Palestina, il Golan e i Monti Ermon in Siria, il sud del Libano e la riva est del Giordano, proprio per questo scopo. Nel 1941, David Ben Gurion dichiara «Noi dobbiamo ricordarci che, per pervenire al radicamento dello Stato ebraico, sarà necessario che le acque del Giordano e del Litani siano incluse all’interno delle nostre frontiere ». Inizia così una campagna massiccia tesa all’approvvigionamento di acque per il nuovo stato: già dal 1953, Israele comincia a deviare le acque del Lago di Tiberiade per irrigare il litorale e il Negev, portando alla attuale terrificante condizione del Lago, che descriverò a conclusione di questo articolo. Dal 1964 risulta attivo il National Water Carrier, (Trasporto dell’Acqua attraverso canalizzazioni), Siria e Giordania, preoccupate, intraprendono così la costruzione di dighe sullo Yarmouk e la deviazione del Baniyas, per riuscire a trattenere l’acqua a monte del Lago di Tiberiade e quindi impedire ad Israele di prelevare l’acqua dal Lago. Israele li accusa di essere aggressori e bombarda i lavori, fino allo scatenare la guerra dei Sei Giorni.

Con la guerra del 1967 Israele si accaparra anche parte delle risorse d’acqua di Gaza, della Cisgiordania e del Golan, sino ad arrivare al 1978, con l’invasione del Libano, dove si procede a deviare per pompaggio una parte del Litani, deviazione che rimane in atto fino al 2000, quando Hezbollah si è installata in questa regione. L’annessione del Golan, soprannominato il «castello dell’acqua », permette il controllo del bacino di alimentazione a monte del Giordano, e si traduce nell’espulsione della maggioranza della popolazione, circa 100.000 persone, cosa che, con un’unica mossa, permette ad Israele anche di recuperare l’acqua che non viene più consumata dai locali.




Il blocco di Israele contro il coronavirus intralcia il lavoro per i diritti umani, ma non i soprusi

Judith Sudilovsky

31 marzo 2020 – +972

Le associazioni per i diritti umani segnalano che le direttive per l’emergenza di Israele stanno rendendo più difficile monitorare e proteggere i diritti dei palestinesi durante la pandemia

Alcune associazioni per i diritti umani palestinesi ed israeliane affermano che le direttive d’emergenza emanate dalle autorità israeliane, che con la scusa del coronavirus vietano la libertà di movimento e altre attività, stanno rendendo più difficile monitorare, documentare violazioni israeliane dei diritti umani palestinesi e difendere da esse in vari aspetti della vita.

Stiamo ancora monitorando casi, ma le nostre ricerche non sono in grado di essere presenti e documentare nel suo complesso l’area,” dice Rania Muhareb, ricercatrice giuridica e responsabile della sensibilizzazione presso Al-Haq, un’organizzazione palestinese per i diritti umani con sede a Ramallah. “È molto difficile dire se ci sono più o meno incidenti, per la semplice ragione che in questa situazione è più complicato avere tutte le informazioni con la rapidità di sempre.”

Le violazioni, spiega Muhareb, includono la continua confisca di terre e i progetti di costruzione di colonie israeliane e della barriera di separazione nella Cisgiordania occupata; la violenza contro i contadini palestinesi; incursioni e arresti in città e villaggi palestinesi; demolizioni di case.

Inizio modulo

Fine modulo

Queste violazioni evidenziano un tentativo diffuso e sistematico di compromettere i diritti dei palestinesi durante un’emergenza sanitaria pubblica di portata internazionale,” afferma. Nonostante la grave crisi, “Israele continua ad avere il tempo di portare avanti queste azioni illegali.”

Muhareb evidenzia un incidente del 19 marzo nel villaggio di Sawahra Al-Sharqiya, a Gerusalemme est, in cui i bulldozer israeliani hanno distrutto una serie di edifici, compreso un recinto per le pecore, ma che non si può documentare a causa del divieto di muoversi.

Aggiunge che nella zona attorno a Nablus è continuata anche la violenza dei coloni. Il 17 marzo un gruppo di coloni ha attaccato una casa palestinese nel villaggio di Burin; secondo le persone che hanno seguito l’incidente, invece di bloccare i coloni i soldati israeliani hanno sparato proiettili ricoperti di gomma, bombe assordanti e lacrimogeni contro i palestinesi. Tre giorni dopo, il 20 marzo, a sud di Jenin i coloni hanno gravemente ferito il contadino Ali Musafa Zouabi.

Allo stesso modo l’associazione israeliana per i diritti umani Yesh Din ha riferito di violenti attacchi dei coloni che la scorsa settimana hanno ferito gravemente contadini e pastori palestinesi. I coloni sono arrivati da Halamish, Homesh (una ex-colonia che è stata demolita, ma in cui gli israeliani sono rimasti illegalmente), e Kochav Ha Shahar. Nessuno dei coloni è stato arrestato.

Muhareb afferma che i soldati delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] non hanno l’autorità di arrestare i cittadini israeliani in Cisgiordania. Al contrario, la scorsa settimana l’esercito ha arrestato parecchi palestinesi nella città vecchia di Jenin, a Qalqiliya e nei pressi di Nablus.

In un comunicato l’ufficio del portavoce delle IDF ha detto che le IDF “continuano l ‘attività operativa, che include l’interruzione di sospette attività terroristiche in base alle necessità operative e alle valutazioni aggiornate della situazione. Durante gli arresti i militari, così come i detenuti, sono protetti secondo le necessità operative.”

Non si può passare sopra diritti fondamentali”

In base alle nuove regole riguardanti la pandemia entrate in vigore il 15 marzo, questi prigionieri devono essere tenuti in quarantena per 14 giorni prima di poter essere interrogati. Il ministero israeliano della Sicurezza Pubblica ora può vietare le visite dei familiari per arrestati e detenuti e limitare i colloqui dei prigionieri con un avvocato solo a conversazioni telefoniche, afferma Sahar Francis, direttrice dell’ONG palestinese Addameer – Associazione per l’Appoggio e i Diritti Umani dei Detenuti.

L’esercito israeliano sta ancora arrestando persone pur sapendo che non le può interrogare, per cui le mette in isolamento per 14 giorni. È una violazione dei diritti fondamentali dei detenuti,” afferma.

Da due settimane o più hanno completamente chiuso tutte le prigioni e le strutture per la detenzione. (I prigionieri) non hanno contatti con i loro familiari e gli avvocati possono parlare con loro solo quando è prevista un’udienza in tribunale sul loro caso. Ci sono 5.000 prigionieri totalmente isolati dal mondo esterno.”

La portavoce del servizio carcerario israeliano ha fatto notare che le nuove regole sono state applicate in tutte le prigioni israeliane, indipendentemente dalle ragioni per cui i prigionieri vi sono reclusi.

Mantenerli in salute, tenere lontano il coronavirus, ora questo è il nostro unico obiettivo,” afferma. “Si spera che in breve tempo, quando ciò sarà finito, le cose torneranno come prima. Mantenerli in salute è nel nostro interesse più di qualunque altra cosa.”

La portavoce sostiene che le prigioni hanno fornito informazioni a tutti i detenuti in varie lingue, compreso l’arabo, ed hanno disinfettato le loro strutture. Stanno anche seguendo le direttive del ministero della Sanità di incrementare i turni di lavoro del personale carcerario fino a 96 ore, in modo che possano ridurre gli spostamenti dentro e fuori le prigioni.

Finora non abbiamo alcun prigioniero con il coronavirus, e speriamo che così continui ad essere fino alla fine della crisi,” afferma. “Non sappiamo se sia possibile, ma stiamo facendo del nostro meglio.”

Eppure, dice Francis di Addameer, ci sono preoccupazioni per la salute dei prigionieri palestinesi a causa delle loro condizioni di sovraffollamento. I prigionieri hanno anche raccontato che non gli è stato fornito alcun materiale sanitario speciale e che non è stata presa nessun’altra precauzione da parte delle autorità carcerarie.

Il 26 marzo Addameer, insieme ad Adalah – il Centro Giuridico per i Diritti delle Minoranze in Israele – e l’avvocato Abeer Baker hanno chiesto a nome del detenuto Kafri Mansour alla Corte Suprema israeliana di annullare le direttive d’emergenza nelle prigioni.

Pur riconoscendo la necessità di proteggere la salute dei reclusi, il ricorso sostiene che il governo israeliano non ha l’autorità giuridica di imporre il divieto alle visite di avvocati e familiari, che “violano in modo pesante e sproporzionato i diritti dei prigionieri”, in particolare dei minorenni. I ricorrenti accusano anche il fatto che le restrizioni impediscono anche ai prigionieri di riferire di qualunque violazione dei diritti nella prigione.

Il ricorso descrive anche come una conversazione tra l’avvocato Abeer Baker e un prigioniero sia stata trasmessa da altoparlanti in presenza delle guardie della prigione e di altri detenuti, violando la riservatezza tra avvocato e cliente.

Le sfide che questo stato d’emergenza pone alle autorità israeliane non possono consentire loro di passare sopra fondamentali diritti umani,” afferma l’avvocato di Adalah Aiah Haj Odeh. “Le leggi internazionali impongono che Israele debba riconoscere il diritto dei prigionieri e dei detenuti alle visite con i familiari, a consultarsi con gli avvocati e a rivolgersi ai tribunali.”

Arrestano come al solito i minorenni, come se non ci fosse il virus”

Nel contempo nel villaggio di Issawiya, a Gerusalemme est, gli abitanti affermano di aver sperato che l’attenzione sulla pandemia riducesse le incursioni e i pattugliamenti della polizia israeliana messi in atto in modo aggressivo nei loro quartieri dalla scorsa estate.

Invece, sostengono, tali azioni sono continuate. Blocchi stradali della polizia stanno ancora provocando lunghi ingorghi del traffico; scontri con i giovani comportano l’uso di lacrimogeni, granate assordanti e proiettili ricoperti di gomma, e vengono effettuati arresti nella totale inosservanza delle norme del governo sul coronavirus, mettendo in pericolo gli abitanti palestinesi.

Pensavamo che il coronavirus avrebbe contribuito a fermare le cose, ma non è cambiato niente,” dice Muhammad Abu Hummus, un attivista politico di Issawiya. “Al solito, arrestano minorenni come se non ci fosse nessun virus. Ogni giorno (la polizia) va in giro senza mascherine e senza guanti. Altrove forse aiutano la gente, ma a Issawiya portano solo lacrimogeni e balagan (disordine o confusione).”

Il portavoce della polizia Micky Rosenfeld sostiene che la presenza della polizia nel villaggio fa parte del normale pattugliamento in tutti i quartieri di Gerusalemme intrapreso specificamente nel contesto dell’epidemia di coronavirus, inteso a garantire che gli abitanti rimangano in casa.

Non vengono effettuate incursioni, solo normali attività di polizia,” dice. “Se gli abitanti vogliono protestare e fare ritorsioni contro la polizia israeliana è un loro problema. La polizia sta pattugliando tutti i quartieri e mettendo in atto le nuove norme per tenere per quanto possibile le persone al sicuro in casa, per il loro stesso bene e la loro salute.”

Tuttavia in un rapporto del 19 marzo l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha chiesto perché la polizia abbia scelto questo momento per incrementare quella che descrive come una punizione collettiva degli abitanti del villaggio, nonostante “una crisi senza precedenti che richiede…misure estreme di isolamento sociale.”

La presenza della polizia nel villaggio provoca scontri, dice B’Tselem, che sono già abbastanza problematici durante periodi normali, ma ancor più durante la pandemia, quando riunirsi in gruppo può diffondere il virus.

La violenza della polizia contro i palestinesi a (Issawiya), ormai una caratteristica nella vita del quartiere, è illegale e non può essere giustificata neppure come usuale routine dell’occupazione,” dice B’Tselem nel suo rapporto. “La condotta della polizia danneggia la sicurezza pubblica (compresa la salute dei poliziotti) e viola le linee guida sanitarie sull’isolamento sociale.”

B’Tselem aggiunge: “Il fatto che le autorità israeliane siano indifferenti alla vita degli abitanti (di Issawiya), compresi bambini ed adolescenti, non è affatto una novità. Eppure continuare e persino accentuare simile comportamento durante una pandemia è una manifestazione particolarmente vergognosa di questa politica.”

Un altro attivista del villaggio, che ha chiesto di rimanere anonimo per la sua sicurezza personale, ha detto a +972 di aver dovuto portare urgentemente la scorsa settimana sua figlia di sette mesi all’ambulatorio medico del villaggio dopo che la polizia durante uno scontro con giovani palestinesi ha utilizzato lacrimogeni che sono penetrati in casa sua.

La situazione è terribile,” afferma. “Ovviamente ho paura. Perché mettermi in una situazione per cui devo portare mia figlia all’ambulatorio in tempi di coronavirus?”

Judith Sudilovsky è una giornalista indipendente che da 25 anni si occupa di Israele e dei Territori Palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




B’Tselem: “Durante la crisi del coronavirus Israele confisca tende destinate a una clinica nel nord della Cisigordania

27 marzo 2020 – International Middle East Media Center

Il Centro Israeliano di Informazione per i Diritti Umani nei Territori Occupati (B’Tselem): Comunità che devono affrontare l’espulsione. Giovedì 26 marzo verso le 7,30 funzionari dell’Amministrazione Civile Israeliana in Cisgiordania sono arrivati con la scorta di una jeep militare, un bulldozer e due autocarri a pianale con gru nella comunità palestinese di Khirbet Ibziq, nel nord della Valle del Giordano.

Hanno confiscato pali e teli che destinati all’installazione di otto tende, due per un ospedale da campo, quattro per abitazioni d’emergenza per abitanti evacuati dalle loro case e due come moschee di fortuna.

La polizia ha anche confiscato una baracca di lamiera che si trovava sul posto da più di due anni, così come un generatore e sacchi di sabbia e di cemento. Sono stati portati via quattro bancali di mattoni di cemento per pavimentare le tende e altri quattro sono stati demoliti.

Mentre tutto il mondo lotta contro una crisi senza precedenti che paralizza il sistema sanitario, l’esercito israeliano dedica tempo e risorse ad angariare le comunità palestinesi più vulnerabili in Cisgiordania, che per decenni Israele ha cercato di cacciare dalla zona.

Impedire un’iniziativa comunitaria di primo soccorso durante una crisi sanitaria è un esempio particolarmente crudele dei costanti soprusi inflitti a queste comunità, e va contro principi umani e umanitari basilari durante un’emergenza. A differenza delle politiche di Israele, questa pandemia non discrimina in base alla nazionalità, all’etnia o alla religione.

È giunto il momento che il governo e l’esercito riconoscano che ora più che mai Israele è responsabile della salute e del benessere dei cinque milioni di palestinesi che vivono sotto il suo controllo nei Territori Occupati.

Oltre alla sconvolgente distruzione dell’ospedale in costruzione, l’Amministrazione Civile sta continuando la sua solita opera di demolizione. Oggi nel villaggio di ‘Ein a-Duyuk a-Tahta, ad est di Gerico, ha distrutto tre case stagionali di contadini che risiedono a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I palestinesi di fronte a due nemici: l’occupazione e la pandemia

Tamara Nassar

26 marzo 2020 – Electronic Intifada

Nonostante la pandemia globale, nulla è cambiato riguardo all’occupazione militare israeliana in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Il numero di casi confermati di COVID-19, la malattia respiratoria causata dal nuovo coronavirus, è salito a quasi 2.700 in Israele, a circa 80 nella Cisgiordania occupata e a nove nella Striscia di Gaza assediata.

Finora la malattia ha causato la morte di otto israeliani e di una donna palestinese nella Cisgiordania occupata.

Mentre il coronavirus infetta sempre più persone, i palestinesi affrontano contemporaneamente un nemico più vecchio: l’occupazione militare israeliana.

Gaza, sotto assedio e con un’alta densità di popolazione, è particolarmente esposta al rischio di una diffusa epidemia.

“Israele non potrà scaricare su qualcun altro le sue colpe se questo scenario da incubo dovesse divenire una situazione che ha determinato senza fare alcuno sforzo per evitarla”, ha ammonito questa settimana l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem .

Distanziamento fisico, permanenza a casa e cura dell’igiene sono precauzioni che i palestinesi si sforzano di adottare mentre Israele continua a demolire strutture, a condurre raid notturni, ad arrestare arbitrariamente bambini e ad angariare regolarmente i civili.

Confiscate le strutture per un ospedale da campo

Giovedì mattina le forze israeliane hanno demolito e confiscato strutture destinate a un ospedale da campo e ad alloggi di emergenza a Ibziq, un villaggio nella valle del Giordano settentrionale nella Cisgiordania occupata.

Ciò è stato fatto con la supervisione dell’Amministrazione Civile, il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana.

Le forze israeliane hanno confiscato tende, un generatore e materiali da costruzione.

“Chiudere un’attività di primo soccorso per la comunità durante una crisi sanitaria è un esempio particolarmente crudele dei regolari abusi inflitti a queste comunità”, ha affermato questa settimana l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.

Secondo il capo del consiglio del villaggio Abdul Majid Khdeirat, ciò è stato fatto con il pretesto che la costruzione si trovava in una zona militare interdetta.

Israele dichiara abitualmente le terre della Cisgiordania aree di tiro o zone militari e successivamente confisca il territorio a favore delle colonie israeliane illegali.

Le forze israeliane hanno anche demolito le case di tre famiglie palestinesi nel villaggio di al-Duyuk, vicino a Gerico.

Un bulldozer militare israeliano ha distrutto le case di Muayad Abu Obaida, Thaer al-Sharif e Yasir Alayan, perché sarebbero state costruite senza [quei] permessi che Israele non concede quasi mai ai palestinesi. Ciò non lascia loro altra scelta che costruire le case senza il permesso dell’occupante.

Tutti e tre gli agricoltori risiedono a Gerusalemme.

Decine di migliaia in condizioni di isolamento

Nel frattempo Israele sta valutando di isolare diversi quartieri della Gerusalemme est occupata, tagliando fuori decine di migliaia di palestinesi dal resto della città.

Quasi il 70% delle 100.000 persone del campo profughi di Shuafat ha un documento di residenza israeliano che consente loro di entrare a Gerusalemme.

“In caso di blocco questi abitanti saranno completamente isolati rispetto alla loro città, a cui si rivolgono per tutti i servizi di base, e ciò probabilmente porterà panico e disordini diffusi”, avverte Ir Amim, un’organizzazione israeliana impegnata per l’uguaglianza a Gerusalemme.

“Tale misura sarebbe un ulteriore passo avanti nella realizzazione dei piani israeliani di lunga data volti a ridisegnare i confini municipali di Gerusalemme, per separare formalmente quei quartieri da Gerusalemme”.

Israele userebbe il coronavirus come pretesto per tagliar fuori quei quartieri dal resto di Gerusalemme, nonostante in quei quartieri il numero di casi confermati sia considerevolmente più basso rispetto a Israele.

La popolazione più vulnerabile al mondo”

Le organizzazioni per i diritti umani mettono in guardia a proposito di un incombente disastro nel caso di una diffusa epidemia di COVID-19 a Gaza. Spesso definita la più grande prigione a cielo aperto del mondo, l’enclave costiera è sotto assedio israeliano dal 2007. Israele controlla lo spazio aereo e marittimo di Gaza e, insieme all’Egitto, i suoi confini terrestri.

Gaza è ancora sconvolta per le tre pesanti offensive militari israeliane [a partire] dal 2008.

Gli abitanti di Gaza [sono] tra le persone più vulnerabili del mondo alla pandemia globale di COVID-19”, ha dichiarato il gruppo palestinese per i diritti umani Al-Haq.

La crisi idrica e sanitaria causata dal prolungato blocco israeliano di Gaza mina “la capacità dei palestinesi di prevenire e mitigare adeguatamente gli effetti dell’epidemia di COVID-19”, ha aggiunto al-Haq.

Meno del 4% dell’acqua del territorio è adatto al consumo umano.

I moderni sistemi sanitari in Paesi come l’Italia e la Spagna stanno collassando sotto la pressione della pandemia.

Un’epidemia del nuovo coronavirus a Gaza, dove le infrastrutture sanitarie sono già sull’orlo del collasso, condurrebbe a “un disastro umanitario, interamente costruito da Israele”, ha affermato B’Tselem.

Israele abitualmente ritarda o nega a molti palestinesi i permessi per ricevere trattamenti sanitari fuori Gaza, concedendoli solo a una piccola parte delle persone che necessitano di cure mediche.”

“Ora non ci sarà più neanche questa minima possibilità”, ha detto B’Tselem.

La dott.ssa Mona El-Farra, responsabile sanitaria della Mezzaluna Rossa palestinese a Gaza, ha dichiarato a The Electronic Intifada che mancano letti, equipaggiamento protettivo e kit per i test.

“Non abbiamo abbastanza kit, finora abbiamo solo circa 200 kit per la diagnosi. Al momento abbiamo 2.500 persone in quarantena. Tutti hanno bisogno di essere testati.”

Il Qatar ha promesso 150 milioni di dollari [136 milioni di euro, ndtr.] nei prossimi sei mesi per aiutare gli sforzi delle Nazioni Unite contro il coronavirus a Gaza.

Sebbene questo possa aiutare a breve termine, solleva anche Israele dalle sue responsabilità di potenza occupante.

Nessun accesso ai servizi di emergenza

Adalah, un’organizzazione che sostiene i diritti dei palestinesi in Israele, afferma che i beduini palestinesi della regione meridionale del Naqab non hanno accesso ai servizi medici di emergenza.

Il Ministero della Salute israeliano impedisce a coloro che soffrono di febbre e sintomi respiratori di lasciare la propria casa. Se la loro salute peggiora, l’MDA, il servizio di ambulanza [corrispettivo israeliano della Croce Rossa, ndtr.], può prescrivere una visita domiciliare o l’invio in ospedale.

Tuttavia quei villaggi non hanno accesso alla MDA.

Domenica l’associazione ha inviato una lettera alle autorità israeliane chiedendo di fornire quei servizi ai 70.000 cittadini palestinesi di Israele che vivono in villaggi non riconosciuti.

“Per anni Israele ha mantenuto una politica di abbandono e discriminazione quando si trattava di fornire i normali servizi sanitari, così come servizi medici di emergenza, ai beduini con cittadinanza israeliana,” ha detto Adalah.

“In presenza della crisi coronavirus questa politica statale comporta ora un pericolo immediato per gli abitanti del posto e per il pubblico in generale.”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




B’Tselem sul piano di “pace”di Trump: nessuna pace, apartheid

28 gennaio 2020 B’Tselem

Il piano dell’amministrazione americana, definito “l’accordo del secolo” è più simile al formaggio svizzero:il formaggio offerto agli israeliani e i buchi ai palestinesi.Esistono molti modi per porre fine all’occupazione, ma le uniche opzioni legittime sono quelle basate sull’uguaglianza e sui diritti umani per tutti. Questo è il motivo per cui l’attuale piano che legittima, consolida e addirittura amplia la portata delle violazioni dei diritti umani di Israele, perpetuate ormai da oltre 52 anni, è assolutamente inaccettabile.

Il piano di Trump svuota di qualsiasi significato i principi del diritto internazionale e ignora del tutto il concetto di responsabilità a causa delle loro violazioni. Trump propone di premiare Israele per le pratiche illegali e immorali in cui [Israele] si è impegnato sin da quando ha conquistato i Territori. Israele sarà in grado di continuare a saccheggiare terra e risorse palestinesi; riuscirà anche a mantenere le sue colonie e persino ad annettere più territorio, il tutto in totale spregio del diritto internazionale. I cittadini israeliani che vivono nei Territori continueranno a godere di tutti i diritti concessi ad altri cittadini israeliani, compresi i diritti politici e la libertà di movimento, come se non vivessero affatto all’interno di un’area occupata.

I palestinesi, d’altra parte, saranno relegati in piccole enclave chiuse, isolate, senza alcun controllo sulla loro vita poiché il piano rende eterna la frammentazione dell’area palestinese in porzioni di territorio non connesse tra loro e circondate dal controllo israeliano, non diversamente dai bantustan del regime di apartheid sudafricano. Senza contiguità territoriale, i palestinesi non saranno in grado di esercitare il loro diritto all’autodeterminazione e continueranno a dipendere completamente dalla buona volontà di Israele riguardo alla loro vita quotidiana, senza diritti politici e senza alcun modo di gestire il loro futuro.

Continueranno a essere alla mercé del rigido regime israeliano di permessi e avranno bisogno della sua approvazione per qualsiasi attività produttiva o sviluppo. In questo senso, non solo il piano non riesce a migliorare in alcun modo la situazione dei palestinesi, ma di fatto aggrava ancora la loro condizione perché la perpetua e la legittima. Questo piano rivela una visione del mondo che concepisce i palestinesi come eternamente sottomessi piuttosto che come esseri umani liberi e autonomi. Una “soluzione” di questo tipo, che non garantisce i diritti umani, la libertà e l’uguaglianza di tutte le persone che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo e perpetua invece l’oppressione e l’espropriazione di una parte – non è una soluzione valida. Di fatto, non è per niente una soluzione, ma solo una ricetta per ulteriore oppressione, ingiustizia e violenza.

(Traduzione dall’inglese di Carlo Tagliacozzo)




Palestina. Colonialismo israeliano tra lavoro minorile e disastro ambientale

Francesca Merz

26 novembre Nena News

Nella Valle del Giordano bambini e adulti palestinesi lavorano per pochi dollari al giorno e senza contratto né sicurezza. Si infortunano e si ammalano, come i residenti vicino alle colonie israeliane che ospitano fabbriche chimiche, spiegano diversi rapporti internazionali

Abbiamo avuto modo in un precedente articolo di raccontare l’insostenibilità ambientale dello sviluppo delle colonie israeliane. Occorre fare un ulteriore passo per meglio comprendere che cosa sono le colonie e quale impatto abbiano sul territorio e sull’economia.

E’ necessario, oltre all’analisi molto problematica degli impatti ambientali delle colonie, sottolineare quali sono i motivi per i quali le monocolture delle colonie israeliane nella Valle del Giordano prosperino, spesso indipendentemente dall’utilizzo di tecnologie all’avanguardia per cui Israele è noto in tutto il mondo: come sottolinea un recente rapporto di Human Rights Watch, la nota organizzazione internazionale impegnata per i diritti umani, le colonie prosperano grazie al lavoro sottopagato dei palestinesi e al lavoro minorile.

A questo si sommano ulteriori illegalità: le colonie israeliane sono costruite in Cisgiordania, occupata in violazione del diritto internazionale. In merito invece alla consuetudine di utilizzare lavoro minorile riportiamo un breve passaggio tratto dalle interviste di Hrw: la maggior parte dei bambini intervistati afferma di lavorare con i pesticidi. “Non sanno molto delle sostanze chimiche che trattano, ma degli effetti sì. Soffrono di giramenti di testa, nausea, irritazioni agli occhi ed eruzioni cutanee”.

I ragazzi che lavorano nei vigneti dove si usa il pesticida Alzodef, vietato in Europa dal 2008, si riconoscono dalle desquamazioni dell’epidermide. I bambini palestinesi lavorano 6-7 giorni alla settimana, per 8 ore al giorno, anche nelle serre a temperature che si avvicinano ai 50 gradi. Portano carichi pesanti e usano macchine pericolose. Secondo uno studio del 2014 sugli infortuni tra i minori palestinesi che lavorano il 79% aveva subito un infortunio sul lavoro nei precedenti 12 mesi. E tutto questo per una paga di meno della metà di quella minima garantita dalla legge israeliana e senza assicurazione sanitaria e altri benefit, assicurando così maggiori guadagni alle aziende agricole delle colonie.

E’ esattamente da queste colonie e da questi metodi produttivi che deriva la più ampia percentuale di avocado presenti sulle nostre tavole, a scanso di equivoci sull’eticità dell’utilizzo nelle nostre diete di questo tipo di prodotto. Il rapporto di Hrw si incentra sulla Valle del Giordano, noto come il granaio della Palestina, dove le grandi estensioni di piantagioni e coltivazioni delle colonie contrastano con i campi aridi dei palestinesi, evidenziando l’iniqua distribuzione delle risorse idriche.

I palestinesi che ci vivono, scesi da circa 300mila nel 1967 agli 80mila di oggi, hanno accesso solo al 6% dell’area, il restante 94% è riservato ai 9.500 coloni e alle loro piantagioni, oppure chiuso in zone militari. I palestinesi che ci vivono devono ottenere permessi dalle autorità militari israeliane per qualsiasi costruzione che siano case, stalle, strade, pozzi o cisterne, ma anche per coltivare la terra o pascolare il bestiame.

I permessi approvati sono una rarità. Guadagnarsi da vivere dall’agricoltura, senza terra e senza acqua e con una serie di check-point tra i campi e i mercati, diventa impossibile, i minori sono costretti a lavorare per aiutare le famiglie e non hanno altra scelta che l’agricoltura delle colonie. In alcuni casi, i bambini finiscono addirittura per lavorare le terre che sono state confiscate alle proprie famiglie.

Nell’ong israeliana Kav LaOved Hanna Zohar è incaricata della tutela di questi lavoratori. Questo quanto dichiara: “Il diritto del lavoro israeliano prevede tutele sociali per questi palestinesi, ma tali misure vengono poco applicate. Gli abusi attecchiscono sulla debolezza dei lavoratori che, ricordiamolo, vivono sotto occupazione: taluni temono di perdere il posto di lavoro se avanzano lamentele, altri hanno finito per convincersi che non meritano di ricevere più soldi”.

Fondata in Cisgiordania nel 1968 Argaman, secondo il diritto internazionale, è un insediamento illegale che nel 2017 contava 128 coloni. Per la fondazione della colonia le autorità israeliane confiscarono 120 ettari di terra dai villaggi palestinesi circostanti. Qui si coltivano datteri e altri prodotti, lo stipendio giornaliero dato ai palestinesi che lavorano in queste terre è di 60 shekel (17 dollari), infinitamente inferiore al salario minimo israeliano.

La frutta e la verdura raccolte da vengono esportati principalmente in Europa. Rashid Khardiri, project manager dell’ong Jordan Valley Solidarity, ha spiegato che il più grande settore economico della Valle del Giordano, l’agricoltura, impiega molti bambini. Le prospettive economiche e le infrastrutture di quest’area sono fortemente limitate, la costruzione di scuole o di strutture di base richiede un permesso da parte delle autorità israeliane; nel settembre 2018 furono richiesti 102 permessi di costruzione da parte dei palestinesi, di cui solo cinque furono approvati, rendendo le possibilità di ricevere un permesso di costruzione incredibilmente basse.

Queste limitazioni sull’economia dei villaggi creano una sostanziale dipendenza economica degli abitanti verso gli insediamenti di coloni, circa il 30 per cento della popolazione palestinese nella Valle del Giordano lavora nelle fattorie dei coloni. Lati Swafta ha trascorso cinque anni a raccogliere pomodori e cetrioli nell’insediamento di Mehola, nel nord della valle del Giordano. Questo palestinese dagli occhi chiari, oggi ha 23 anni e allora non cercava neppure di cambiare lavoro. “Sapevo che non ne avrei trovato un altro”, osserva. Poi un incontro casuale ha cambiato le carte in tavola: Rashid, un attivista dell’associazione Jordan Valley Solidarity, voleva mettere in scena un lavoro teatrale; vi si raccontava la vita nella Valle del Giordano: l’istruzione, la salute e, certamente, il lavoro nelle colonie.

Lafi è stato interpellato per partecipare a questo progetto e ha accettato. Ora recita il ruolo di un palestinese che procura lavoro ai suoi connazionali nelle colonie. “È un personaggio che conosco nella vita reale – sorride Lafi -, quindi è stato facile interpretarlo”. Da un anno a questa parte, la rappresentazione teatrale va in scena nella Valle del Giordano, ma anche nelle principali città di Palestina e Giordania. Lafi dedica otto ore al mese a questo progetto, per un compenso di 100 shekel (circa 23 euro) al giorno. Il resto del tempo, lavora nei campi di suo padre.

Gli insediamenti israeliani così costituiti, incombono sulla valle dei colli, un flusso di liquami scorre costantemente sotto. Il terrificante impatto delle colonie sull’ambiente è visibile ovunque. Nelle valli Matwa e al-Atrash – situate nel distretto di Salfit della Cisgiordania occupata tra le città palestinesi di Ramallah e Nablus si raccolgono le acque reflue mal gestite da residenti palestinesi a Salfit e soprattutto da residenti israeliani nei vicini insediamenti illegali di Ariel e Barkan.

Secondo un rapporto del 2009 dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, i palestinesi che vivono in queste valli sono esposti a “acque reflue non trattate [che] contengono virus, batteri, parassiti e metalli pesanti e tossici [che] sono pericolosi per la salute umana e per gli animali”. Le acque reflue non trattate hanno un grave impatto sulla salute pubblica ma le sostanze chimiche riversate dalle fabbriche vicine rappresentano se possibile una minaccia ben peggiore.

Secondo un report di B’Tselem del 2017, lo Stato di Israele stava sfruttando la terra palestinese per il trattamento di vari rifiuti creati non solo negli insediamenti illegali ma dall’interno della linea verde. Nel rapporto, si dice che le zone industriali dell’insediamento di Ariel e Barkan contengono due dei 14 impianti di trattamento dei rifiuti gestiti da Israele nella Cisgiordania occupata e nella Gerusalemme est.

Le zone industriali di Ariel e Barkan trattano il petrolio usato e i rifiuti elettronici pericolosi, rifiuti ritenuti troppo pericolosi per essere trattati all’interno di Israele ai sensi delle sue leggi sulla protezione ambientale e quindi trasferiti nel territorio palestinese occupato dove tali regolamenti israeliani non vengono applicati. Molte persone dei villaggi circostanti hanno accusato malori, e soprattutto sono state colpite da cancro, per Abdulrahman Tamimi, medico dell’unico ospedale di Salfit, la correlazione è chiara. “Le persone di questi villaggi particolari [vicino agli insediamenti industriali] hanno le stesse caratteristiche, le stesse malattie”, ha spiegato.

“Puoi concludere che c’è qualche problema laggiù. Vediamo che molte persone arrivano di recente con il cancro che è davvero raro in giovane età, tra i 20 ei 25 anni”, ha continuato Tamimi. I casi che vede variano da cancro ai polmoni a quelli alle ossa, ma ogni caso è aggressivo. Per una varietà di fattori sociali ed economici, Tamimi vede spesso i suoi pazienti quando è troppo tardi. “Temiamo che la raccolta delle olive quest’anno non sarà commestibile perché anche le acque reflue contengono sostanze chimiche provenienti dagli insediamenti”, ha dichiarato Abdulrahman a Middle East Eye.

In una dichiarazione ufficiale a Meeil comune di Ariel ha negato che l’insediamento israeliano avesse alcuna responsabilità per la crisi ecologica e sanitaria nell’area di Salfit. “Tutte le acque reflue della città di Ariel passano attraverso un impianto di depurazione e tutto il deflusso che proviene da Ariel è acqua che è già stata trattata”, si legge nella nota. B’Tselem, tuttavia, ha dichiarato che l’impianto di trattamento delle acque reflue nell’insediamento di Ariel “ha smesso di funzionare del tutto nel 2008”.

Anche due progetti separati sostenuti da finanziamenti europei nel 2000 e nel 2009, atti al ripristino dell’impianto di depurazione, sono falliti perché le autorità israeliane hanno rifiutato di rilasciare permessi di costruzione per costruire la struttura sulla terra di Matwa, trovandosi nell’Area C della Cisgiordania sotto il completo controllo militare israeliano.

Il dottor Mazin Qumsiyeh, professore di genetica e biologia molecolare e cellulare all’Università di Betlemme e noto attivista, ha aperto la strada alla ricerca sugli effetti intergenerazionali a lungo termine dell’esposizione ai rifiuti tossici. Lo studio ha rilevato un numero significativo di rotture cromosomiche nelle cellule dei residenti vicino alle zone delle colonie israeliane industriali rispetto al gruppo di controllo. Le rotture cromosomiche o il danno al Dna aumentano la possibilità di infertilità, difetti congeniti alla nascita e cancro. Nena News