Cosa sono peggio, le menzogne di Israele su Gaza o i suoi sostenitori occidentali che le ripetono?

Mehdi Hasan

2 maggio 2024 – The Guardian

Gli utili idioti continuano a ripetere a pappagallo le false argomentazioni israeliane. La prima volta che mi inganni la colpa è tua, la seconda volta la colpa è mia…

Gli italiani hanno un proverbio,” ha scritto nel XVII secolo il cortigiano britannico Anthony Weldon: “Chi mi inganna una volta è per colpa sua, ma la seconda la colpa è mia.”

Oggi riassumiamo comunemente quell’antico proverbio italiano con “la prima volta che mi inganni la colpa è tua, la seconda la colpa è mia.”

Dall’orribile attacco del 7 ottobre il governo israeliano di estrema destra e il suo esercito di propagandisti hanno ingannato e preso in giro politici e giornalisti occidentali non una volta o due, ma molte volte.

Ci sono troppe menzogne, distorsioni e falsità di cui tener conto. Quaranta bambini decapitati da Hamas? Non è mai successo. Bambini cotti nei forni o appesi sui fili della biancheria? Falso. Un nascondiglio in stile James Bond sotto l’ospedale al-Shifa? Macché. I palestinesi di Gaza ripresi da una telecamera che fingono di essere feriti? Una totale invenzione. La lista degli ostaggi presi da Hamas trovata su un muro dell’ospedale pediatrico al-Rantisi? Spiacenti, erano solo i giorni della settimana su un calendario in arabo.

Che dire delle atrocità di cui sono credibilmente accusate le forze israeliane, che poi hanno sonoramente negato, e di cui in seguito… sono state ritenute responsabili? Il massacro della farina a febbraio? Il bombardamento di un convoglio di profughi lo scorso ottobre? L’attacco con il fosforo bianco nel sud del Libano, sempre in ottobre?

Come ha elencato il mio amico, l’analista palestinese-americano Omar Baddar, in un tweet diventato virale:

Cronologia che si ripete continuamente:

Israele commette un massacro
Israele nega il massacro
I media dicono di non sapere chi ha commesso un massacro
Indagini rivelano che Israele ha commesso un massacro
Il ciclo delle notizie va avanti
Le persone comuni non sanno che Israele sta sistematicamente commettendo massacri.
Eppure gli israeliani continuano a raccontare menzogne e i nostri politici e media in Occidente continuano a farsi prendere in giro. Che siano loro a vergognarsi.

Tuttavia nessuna bugia israeliana è stata tanto dannosa, distruttiva e mortale dell’affermazione che l’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Sostegno e il Lavoro per i Profughi palestinesi in Medio Oriente, la principale organizzazione responsabile di fornire aiuti a Gaza, è collusa con Hamas, e, peggio ancora, che 12 dipendenti dell’UNRWA hanno partecipato all’attacco terroristico del 7 ottobre. Perché? Perché è stata una menzogna così grave che ha contribuito a creare le basi di una devastante, continua carestia creata dall’uomo all’interno della Striscia di Gaza.

A fine gennaio, dopo un’incessante campagna contro l’UNRWA da parte di Israele e dei suoi alleati in Occidente, culminata con l’accusa senza prove che alcuni dipendenti dell’UNRWA avevano partecipato alle atrocità del 7 ottobre, 16 Paesi donatori, tra cui gli Stati Uniti, il principale finanziatore dell’UNRWA, hanno sospeso circa 450 milioni di dollari di fondi per l’agenzia.

Questi Paesi sono stati avvertiti che danneggiare l’UNRWA, la principale organizzazione umanitaria a Gaza, avrebbe rischiato di “accelerare la carestia”. Sono stati avvertiti che il tanto decantato dossier dell’intelligence israeliana sull’UNRWA conteneva solo “inconsistenti accuse senza prove.”

Ma hanno creduto a Israele.

Negli ultimi 3 mesi, mentre i bambini palestinesi stavano letteralmente morendo di fame, molti di quei Paesi, compreso il governo tedesco, che è la seconda principale fonte di finanziamento dell’agenzia, hanno tardivamente ripreso a finanziare l’UNRWA.

Perché? La scorsa settimana una verifica indipendente del lavoro dell’UNRWA, guidata dall’ex ministra degli Esteri francese Catherine Colonna, ha concluso che l’agenzia “rimane fondamentale nel fornire aiuto umanitario salvavita e servizi sociali essenziali” e “come tale, l’UNRWA è insostituibile e indispensabile per lo sviluppo umano ed economico dei palestinesi.”

Soprattutto, in riferimento all’esplosiva denuncia del governo israeliano secondo cui dipendenti dell’UNRWA erano stati coinvolti negli attacchi di Hamas, il rapporto di Colonna afferma che “Israele deve ancora fornire prove a sostegno” di quelle affermazioni. Ha anche evidenziato come di fatto ogni anno l’UNRWA “condivide la lista del suo personale” sia con Israele che con gli Stati Uniti e ha rivelato che “dal 2011 il governo israeliano non ha informato l’UNRWA di alcuna perplessità riguardante alcun dipendente dell’UNRWA in quella lista del personale.”

Dal 2011. Quindi era tutta una menzogna. Da parte di Israele. Di nuovo.

Ora, per chiarezza, come ha informato Julian Borges del Guardian, “è in corso un controllo separato su specifiche accuse secondo cui dipendenti dell’UNRWA avrebbero preso parte all’attacco del 7 ottobre”, ma “l’ultima volta che c’è stato un rapporto di valutazione… Israele ha negato la collaborazione” anche con quella verifica (persino nell’improbabile caso in cui quest’altro controllo concludesse che una dozzina di dipendenti vi abbia preso parte, si tratterebbe di 12 su 13.000 dipendenti dell’UNRWA a Gaza, ovvero circa lo 0,1% della forza lavoro totale!).

Ciononostante gli Stati Uniti si sono rifiutati di tornare a sostenere l’UNRWA: infatti il Congresso ha approvato una legge che vieta di finanziare l’agenzia almeno fino al marzo 2025.

Ingannami una volta… o decine di volte? Prendete in considerazione i politici ed editorialisti creduloni che si sono schierati ed hanno ripetutamente sostenuto la falsa narrazione di Israele sull’UNRWA.

Il senatore repubblicano Ted Cruz, per esempio, ha twittato sei volte sull’UNRWA tra gennaio e marzo, sostenendo che l’agenzia “appoggia il terrorismo”, è “complice di Hamas” ed ha “almeno 12 dipendenti… coinvolti nell’attacco terroristico del 7 ottobre.”

David Frum, che scriveva i discorsi di George W Bush, ha affermato che è “ormai tempo di chiudere l’UNRWA,” e l’ha accusata di “fornire appoggio materiale a un’organizzazione terroristica.”

L’UNRWA, ha scritto l’opinionista neoconservatore Bret Stephens sul New York Times, “pare essere infestata da terroristi e loro simpatizzanti” e “dovrebbe essere chiusa”.

Sono tutti in errore, tutti diffondono menzogne, tutti spacciano propaganda israeliana.

E, tristemente, non si è trattato solo di repubblicani e persone di destra. C’è stato anche un certo numero di democratici della Camera che hanno ripetuto ciecamente le affermazioni infondate del governo Netanyahu sull’UNRWA.

Per esempio il parlamentare democratico Josh Gottheimer, come Ted Cruz, tra gennaio e marzo ha pubblicato una mezza dozzina di tweet che attaccano l’UNRWA, dichiarando che “le prove sono chiare: il 7 ottobre dipendenti dell’@UNRWA hanno appoggiato Hamas.” Il deputato democratico Brad Sherman ha detto di aver applaudito la decisione dell’amministrazione Biden di sospendere i finanziamenti all’UNRWA e ha affermato che il personale dell’agenzia è stato “denunciato come terrorista”. Il parlamentare Ritchie Torres ha twittato che l’UNRWA ha “governato Gaza su richiesta di Hamas.”

Da quando è stato reso noto il rapporto indipendente la scorsa settimana nessuno di questi importanti democratici ha ritrattato queste false affermazioni sul proprio account twitter, né ha mai menzionato i risultati di quel rapporto.

Tuttavia ancora peggio è stata la dichiarazione fatta il 29 gennaio da Antony Blinken, il segretario di stato democratico, quando ha ammesso che gli Stati Uniti non hanno avuto “la capacità di indagare [sulle accuse] da soli”, ma poi ha continuato definendo quelle accuse israeliane non verificate “molto, molto credibili.”

Eppure solo qualche settimana dopo lo stesso Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli USA ha affermato di ritenere “poco convincente” che personale dell’UNRWA abbia partecipato all’attacco del 7 ottobre. (La comunità dei servizi di informazione USA definisce “poco convincente” come “inadeguato, discutibile o molto approssimativo”, l’esatto contrario di “molto, molto credibile”).

Blinken deve ancora scusarsi, o persino ritrattare, le sue false affermazioni.

Ci chiediamo: cos’è peggio? Le menzogne israeliane o le persone in Occidente che continuano a crederle e le diffondono? Le accuse senza fondamento del governo israeliano contro l’UNRWA o i governi occidentali che poi le hanno accolte come un dato di fatto e hanno immediatamente tagliato i fondi alla principale agenzia umanitaria a Gaza?
Israele ha affamato la gente di Gaza. Che la vergogna ricada sugli sciocchi che hanno contribuito a giustificarlo.

Mehdi Hasan è capo-redazione di Zeteo [organizzazione di monitoraggio sull’accuratezza dell’informazione, negli USA ndt.] ed editorialista del Guardian negli USA.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 

 

 




Netanyahu promette di combattere le sanzioni USA contro un’unità dell’IDF accusata di violazioni in Cisgiordania

Peter Beaumont da Gerusalemme

22 aprile 2024 – The Guardian

Le sanzioni previste riguardano la legge Leahy e sono contro il battaglione Netzah Yehuda, accusato di violazioni dei diritti umani contro i palestinesi.

Benjamin Netanyahu ha affermato che lotterà contro ogni tentativo di imporre sanzioni contro unità dell’esercito israeliano dopo notizie secondo cui un battaglione delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndt.] sta per subire sanzioni USA per come tratta i palestinesi nella Cisgiordania occupata.

Sabato il sito di notizie statunitense Axios ha informato che funzionari del dipartimento di Stato USA hanno confermato che stanno per imporre sanzioni contro il battaglione Netzah Yehuda dell’IDF, che è stato accusato di gravi violazioni dei diritti umani contro i palestinesi. Domenica il giornale israeliano Haaretz ha scritto che gli USA stanno prendendo in considerazione iniziative simili anche contro altre unità della polizia e dell’esercito.

La mossa particolarmente significativa, che rappresenterebbe la prima volta che un governo statunitense prende di mira un’unità dell’IDF, giunge mentre il congresso USA ha approvato 26 miliardi di nuovi aiuti d’emergenza a Israele.

Se qualcuno pensa di poter imporre sanzioni contro un’unità dell’IDF, io mi opporrò con tutte le mie forze,” ha affermato il primo ministro israeliano in un comunicato. “Nelle scorse settimane ho lavorato contro le sanzioni a cittadini israeliani, anche nelle mie conversazioni con l’amministrazione americana,” ha scritto Netanyahu su X.

Nel momento in cui i nostri soldati stanno combattendo mostruosi terroristi l’intenzione di emanare sanzioni contro un’unità dell’IDF è il colmo dell’assurdità e di bassezza morale,” ha aggiunto.

L’IDF ha sostenuto di non essere al corrente di sanzioni in atto contro una sua unità ed ha aggiunto: “Se verrà presa una decisione in materia essa sarà presa in esame.”

Le sanzioni, che sarebbero imposte in base alla legge Leahy del 1997, vieterebbero il trasferimento di aiuti militari statunitensi all’unità e impedirebbero ai soldati e agli ufficiali di partecipare all’addestramento con l’esercito statunitense o a programmi che ricevano finanziamenti USA.

Secondo fonti ufficiali del ministero della Sanità di Gaza sabato notte bombardamenti israeliani sulla città meridionale di Rafah nella Striscia hanno ucciso 22 persone, tra cui 18 minori.

In base ai dati dell’ospedale la maggioranza sembra essere stata vittima del secondo di due attacchi aerei, che ha ucciso 17 minorenni e due donne della stessa famiglia estesa.
Mohammed al-Beheiri ha affermato che sua figlia Rasha e i suoi sei figli, di età compresa tra i 18 mesi e i 16 anni, sono stati tra le vittime. La seconda moglie del marito e i suoi tre figli sono ancora sotto le macerie, ha detto al-Beheiri.

Venerdì il segretario di Stato USA Antony Blinken ha affermato di aver preso “decisioni” riguardo alle denunce secondo cui Israele ha violato la legge Leahy, che vieta la fornitura di assistenza militare a polizia o forze di sicurezza che commettano gravi violazioni dei diritti umani.

Dalla promulgazione della legge l’aiuto USA è stato bloccato a centinaia di unità in tutto il mondo accusate di violazioni dei diritti.

Il dipartimento di Stato ha indagato un certo numero di unità della sicurezza israeliana, anche della polizia e dell’esercito, per presunte violazioni, mentre importanti funzionari israeliani affermano di aver fatto pressione contro l’imposizione di qualsiasi sanzione.

Il battaglione Netzah Yehuda, che fa parte della brigata Kfir, è stato originariamente creato nel 1999 per soddisfare le convinzioni religiose di reclute delle comunità ultraortodosse e nazional-religiose, comprese quelle delle colonie estremiste, e storicamente è stato principalmente schierato in Cisgiordania.

Soldati dell’unità sono stati accusati della morte del settantottenne cittadino statunitense Omar Assad, morto di infarto nel 2022 dopo essere stato arrestato, legato, imbavagliato e poi abbandonato da membri dell’unità. È stato uno dei numerosi incidenti gravi che hanno incluso accuse di torture e maltrattamenti.

Quel caso ha suscitato l’attenzione da parte del dipartimento di Stato che ha chiesto un’inchiesta penale.

In seguito dalla Cisgiordania l’unità è stata schierata al nord di Israele e anche a Gaza.

Secondo ProPublica [organizzazione USA no profit che si occupa di giornalismo investigativo, ndt.] della scorsa settimana il dipartimento di Stato ha ricevuto a dicembre un dossier sulle violazioni della legge Leahy.

Le notizie secondo cui un battaglione dell’IDF sta per affrontare imminenti sanzioni ha provocato una dura risposta da altre importanti personalità israeliane.

Il battaglione Netza Yehuda è una parte inseparabile delle Forze di Difesa Israeliane,” ha affermato Benny Gantz, importante membro del gabinetto di guerra di Netanyahu ed ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano.

È soggetto alla legge militare ed è responsabile di operare in pieno accordo con le leggi internazionali. Lo Stato di Israele ha un sistema giudiziario forte e indipendente che valuta meticolosamente ogni denuncia di violazione o deviazione dagli ordini e dal codice di condotta dell’IDF, e continuerà a farlo.”

Tuttavia organizzazioni per i diritti umani hanno a lungo sostenuto che il sistema investigativo dell’IDF non indaga in modo corretto né persegue le violazioni dei diritti umani commesse dai soldati.

Il citato piano per imporre sanzioni contro l’unità è venuto alla luce tra crescenti campagne per sanzioni internazionali contro israeliani coinvolti in violenze contro palestinesi nella Cisgiordania occupata, che hanno portato a nuovi annunci che prendono di mira individui e organizzazioni quasi ogni mese.

Venerdì gli USA e l’UE hanno annunciato separatamente nuove sanzioni contro gruppi e ong israeliani di estrema destra legati alle violenze dei coloni, così come a noti personaggi, tra cui Bentzi Gopstein, politico molto legato al ministro di estrema destra della Sicurezza Nazionale israeliano Itamar Ben Gvir.

Il complesso e contraddittorio balletto di aiuti e sanzioni a Israele, estremamente evidente in questa settimana e durante l’attacco dell’Iran contro Israele una settimana fa, sembra inteso a dimostrare che, mentre i suoi alleati appoggeranno quella che viene vista come la difesa di Israele, essi sono determinati a punire la crescente violenza estremista contro la Cisgiordania.

In particolare l’amministrazione Biden è sembrata più propensa a condannare le azioni e politiche israeliane in Cisgiordania che a Gaza, dove Israele sta combattendo Hamas in un conflitto durato sei mesi che ha cacciato più dell’85% della popolazione della striscia costiera e ha ucciso 34.000 palestinesi, molti dei quali civili.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele deve ancora fornire prove dei legami terroristici del personale dell’UNRWA, afferma il rapporto Colonna

Julian Borger, New York

lunedì 22 aprile 2024 – The Guardian

Esclusiva: l’indagine rileva che il governo non ha ancora comprovato le affermazioni secondo cui il personale dell’agenzia di soccorso dell’ONU avrebbe legami con Hamas o con la Jihad islamica

Israele deve ancora fornire prove a sostegno delle affermazioni secondo cui dei dipendenti dell‘UNRWA, l’agenzia umanitaria dell’ONU UNRWA sarebbero membri di organizzazioni terroristiche, ha affermato un’indagine indipendente guidata dall’ex ministra degli Esteri francese Catherine Colonna.

Il rapporto Colonna, commissionato dalle Nazioni Unite sulla scia delle accuse israeliane, ha rilevato che lUNRWA aveva regolarmente fornito a Israele gli elenchi dei suoi dipendenti da sottoporre a controllo, e che sulla base di questi elenchi, dal 2011 il governo israeliano non ha notificato all’UNRWA alcuna preoccupazione relativa ad alcun membro del personale”.

Le accuse di coinvolgimento del personale dellUNRWA nellattacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre hanno fatto sì che a gennaio i principali donatori tagliassero i loro finanziamenti allagenzia, il principale canale di sostegno umanitario non solo per i palestinesi di Gaza, ma per le comunità di rifugiati palestinesi in tutta la regione.

I finanziamenti sono stati tagliati nonostante le terribili necessità di 2,3 milioni di persone a Gaza, la maggior parte delle quali dal 7 ottobre è stata costretta a lasciare le proprie case a causa delloffensiva israeliana incontrando gravi difficoltà nella ricerca di acqua, cibo, riparo o assistenza medica.

Nelle ultime settimane la maggior parte dei Paesi donatori ha ripreso a fornire i finanziamenti. I ministri britannici avevano affermato che avrebbero aspettato il rapporto Colonna per prendere una decisione sulla ripresa dei finanziamenti. In seguito alle accuse il sostegno finanziario degli Stati Uniti all’UNRWA è stato bloccato dal Congresso per almeno un anno.

Lunedì il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Oren Marmorstein, ha accusato più di 2.135 lavoratori dell’UNRWA di essere membri di Hamas o della Jihad islamica palestinese. Secondo lui l’indagine Colonna sarebbe insufficiente e rappresenterebbe un tentativo di evitare il problema e di non affrontarlo di petto”.

Il rapporto Colonna ignora la gravità del problema e offre soluzioni cosmetiche che non affrontano lenorme portata dellinfiltrazione di Hamas nellUNRWA”, ha affermato.

Ha aggiunto che Israele invita i donatori a non dare soldi all’UNRWA di Gaza e a finanziare invece altre organizzazioni umanitarie nel territorio.

Colonna ha detto ai giornalisti di avere avuto durante l’indagine buoni rapporti con Israele, ma non è rimasta sorpresa dalla risposta. Ha detto di aver fatto appello a Israele affinché “per favore, lo accetti, qualunque cosa raccomandiamo – se implementata – porterà del bene”.

Louis Charbonneau, direttore dell’ONU presso Human Rights Watch, ha dichiarato: Non credo che i risultati del rapporto Colonna siano particolarmente sorprendenti. I governi che non lo hanno fatto dovrebbero ripristinare immediatamente tutti i finanziamenti allUNRWA in modo che possa fornire aiuti ai civili disperati. Molti palestinesi si trovano ad affrontare la carestia a causa delluso della fame come arma di guerra da parte di Israele”.

Sullattacco del 7 ottobre è in corso unindagine separata da parte dellUfficio dei servizi di supervisione interna delle Nazioni Unite. L’ONU ha affermato che l’inchiesta non è ancora stata completata.

L’indagine Colonna, una valutazione della neutralità dell’UNRWA redatta con l’aiuto di tre istituti di ricerca nordici e che sarà pubblicata lunedì, chiarisce che Israele non ha ancora suffragato alcuna delle sue vaste accuse sul coinvolgimento del personale dell’UNRWA con Hamas o la Jihad islamica.

Vi si rileva che a marzo Israele ha reso pubbliche affermazioni secondo cui un numero significativo di dipendenti dell’UNRWA sarebbero membri di organizzazioni terroristiche”. Tuttavia, Israele deve ancora fornire prove a sostegno di ciò”, afferma il rapporto.

Oltre al rapporto Colonna, una valutazione più dettagliata è stata inviata all’ONU da tre organismi di ricerca nordici: lIstituto Raoul Wallenberg per i diritti umani e la legislazione umanitaria con sede in Svezia, lIstituto norvegese Chr Michelsen e lIstituto danese per i diritti umani.

Il loro rapporto afferma: Le autorità israeliane fino ad oggi non hanno fornito alcuna prova a sostegno né hanno risposto alle lettere dellUNRWA a marzo, e di nuovo ad aprile, che chiedevano i nomi e gli elementi di prova che avrebbero consentito allagenzia di aprire unindagine”.

Il segretario generale dell’ONU, António Guterres, ha dichiarato lunedì di accettare le raccomandazioni del rapporto Colonna sui modi per migliorare la capacità dellUNRWA di monitorare e affrontare le questioni sulla neutralità.

D’ora in avanti, il segretario generale fa appello a tutte le parti interessate affinché sostengano attivamente lUNRWA, poiché è unancora di salvezza per i rifugiati palestinesi nella regione”, ha affermato in una nota il portavoce capo dell’ONU, Stéphane Dujarric.

L’indagine Colonna chiarisce che lUNRWA è “indispensabile” per i palestinesi di tutta la regione.

In assenza di una soluzione politica tra Israele e palestinesi, lUNRWA rimane fondamentale nel fornire aiuti umanitari salvavita e servizi sociali essenziali, in particolare nel campo della sanità e dellistruzione, ai rifugiati palestinesi a Gaza, Giordania, Libano, Siria e Cisgiordania”, dice il rapporto. In quanto tale, lUNRWA è insostituibile e indispensabile per lo sviluppo umano ed economico dei palestinesi. Inoltre, molti vedono lUnrwa come unancora di salvezza umanitaria”.

Lindagine Colonna suggerisce diversi modi in cui si potrebbero migliorare le garanzie di neutralità per gli oltre 32.000 dipendenti dellUNRWA, ad esempio potenziando il servizio di supervisione interna, fornendo maggiore formazione diretta e maggiore sostegno da parte dei Paesi donatori. Ma si rileva che tali parametri sono già più rigorosi rispetto alla maggior parte delle altre istituzioni analoghe.

“L’indagine ha rivelato che l’UNRWA ha istituito un numero significativo di meccanismi e procedure per garantire il rispetto dei principi umanitari, con particolare attenzione al principio di neutralità, e che possiede un approccio alla neutralità più sviluppato rispetto ad altre entità simili delle Nazioni Unite o ONG”, si legge nel documento.

Una delle critiche israeliane più frequenti allUNRWA è che le sue scuole in tutta la regione utilizzerebbero libri di testo dellAutorità Nazionale Palestinese con contenuti antisemiti. Tuttavia la relazione tecnica fornita dalle istituzioni nordiche ha trovato prove molto limitate a sostegno di tali affermazioni.

Negli ultimi anni tre valutazioni internazionali dei libri di testo dellANP hanno fornito un quadro sfumato”, afferma il rapporto. Due hanno identificato la presenza di pregiudizi e contenuti antagonisti, ma non hanno fornito prove di contenuti antisemiti. La terza valutazione, condotta dallIstituto Georg Eckert, [con sede in Germania], ha studiato 156 libri di testo dellAutorità Nazionale Palestinese e ha identificato due esempi che mostravano tematiche antisemiti, ma ha notato che uno di essi era già stato rimosso, laltro era stato corretto”.

Lassenza finora di prove a sostegno delle accuse di Israele ha sollevato interrogativi sulla decisione improvvisa dei Paesi donatori di tagliare milioni di dollari di finanziamenti allUNRWA, in concomitanza con un aumento vertiginoso del bilancio delle vittime a Gaza, il crollo del sistema sanitario e l’incombenza della carestia a Gaza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Un nuovo abisso”: Gaza e la guerra dei cento anni contro la Palestina

Rashid Khalidi

Giovedì 11 aprile 2024 – The Guardian

Sebbene molte cose siano cambiate dal 7 ottobre, gli eventi terribili degli ultimi sei mesi non sono unici e non esulano dalla storia

Per le persone di tutto il mondo, me compreso, le immagini terribili che giungono da Gaza e da Israele dal 7 ottobre 2023 sono ineludibili. Questa guerra incombe su di noi come un’immobile nuvola nera che diventa sempre più oscura e inquietante con il passare delle interminabili settimane di orrore che si succedono davanti ai nostri occhi. Avere amici e parenti lì rende tutto questo molto più difficile da sopportare per molti di noi che vivono lontano.

Alcuni hanno sostenuto che questi eventi rappresentano una rottura, uno sconvolgimento, che questo sia stato “l’11 settembre di Israele” o che si tratti di una nuova Nakba, un genocidio senza precedenti. Certamente, la portata di questi eventi, le riprese quasi in tempo reale di atrocità e devastazioni insopportabili – in gran parte catturate sui telefoni e diffuse sui social media – e l’intensità della risposta globale non hanno precedenti. Sembra di trovarsi in una nuova fase, dove l’esecrabile “processo di Oslo” è morto e sepolto, dove l’occupazione, la colonizzazione e la violenza si stanno intensificando, il diritto internazionale viene calpestato e le placche tettoniche da tempo immobili si stanno lentamente muovendo.

Ma anche se molto è cambiato negli ultimi sei mesi, gli orrori di cui siamo testimoni possono essere veramente compresi solo come una nuova fase catastrofica di una guerra che va avanti da diverse generazioni. Questa è la tesi del mio libro The Hundred YearsWar on Palestine [La Guerra dei Cent’anni contro la Palestina, ndt.]: che gli eventi succedutisi in Palestina a partire dal 1917 sono il risultato di una guerra in più fasi condotta contro la popolazione indigena palestinese da grandi potenti mecenati del movimento sionista – un movimento allo stesso tempo colonialista e nazionalista, che mirava a sostituire il popolo palestinese nella sua patria ancestrale. Queste potenze si sono successivamente alleate con lo Stato-Nazione israeliano nato da quel movimento. Nel corso di questa lunga guerra i palestinesi hanno resistito strenuamente all’usurpazione del loro Paese. Questo quadro è indispensabile per spiegare non solo la storia del secolo scorso e oltre, ma anche la brutalità a cui abbiamo assistito dal 7 ottobre.

Sotto questa luce, è chiaro che non si tratta di una lotta secolare tra arabi ed ebrei che va avanti da tempo immemorabile, e non è semplicemente un conflitto tra due popoli. È un prodotto recente dell’irruzione dell’imperialismo in Medio Oriente e dell’ascesa dei moderni nazionalismi degli Stati-Nazione, sia arabi che ebrei; è un prodotto dei violenti metodi di insediamento coloniale europei impiegati dal sionismo per “trasformare la Palestina nella terra di Israele”, secondo le parole di uno dei primi leader sionisti, Ze’ev Jabotinsky; ed è un prodotto della resistenza palestinese a questi metodi.

Inoltre questa non è mai stata solo una guerra tra il sionismo e Israele da una parte e i palestinesi dall’altra, occasionalmente sostenuta da attori arabi e di altro tipo. Ha sempre comportato l’intervento massiccio delle più grandi potenze dell’epoca dalla parte del movimento sionista e di Israele: la Gran Bretagna fino alla seconda guerra mondiale e da allora gli Stati Uniti e altri. Queste grandi potenze non sono mai state mediatori neutrali o onesti, ma hanno sempre partecipato attivamente a questa guerra a sostegno di Israele. In questa guerra tra colonizzatori e colonizzati, oppressori e oppressi, non c’è stato nulla che si avvicinasse lontanamente all’equivalenza tra le due parti, ma piuttosto un vasto squilibrio a favore del sionismo e di Israele.

Questa tesi è stata crudamente confermata dagli eventi successivi al 7 ottobre, con lo squilibrio di potere evidente nella sproporzione delle dimensioni di morte, distruzione e sfollamento: il rapporto tra palestinesi e israeliani uccisi finora è di circa 25 a 1. Ciò è ulteriormente rafforzato dallo straordinario livello di sostegno politico, diplomatico e militare degli Stati Uniti a Israele, combinato con quello del Regno Unito e di altri Paesi occidentali, in contrasto con il relativamente limitato sostegno militare e finanziario ai palestinesi da parte dell’Iran e di diversi attori non statali.

Sebbene molte cose siano cambiate dal 7 ottobre, gli eventi degli ultimi sei mesi non sono unici e non esulano dalla storia. Possiamo comprenderli correttamente solo nel contesto della guerra secolare intrapresa contro la Palestina, nonostante gli sforzi di Israele di negare la rilevanza del contesto e di spiegarli nei termini della “barbarie” caratteristica dei suoi nemici. Anche se le azioni di Hamas e Israele a partire dal 7 ottobre potrebbero sembrare un cambiamento o una svolta, esse sono coerenti con decenni di pulizia etnica israeliana, occupazione militare e furto della terra palestinese, con anni di assedio e deprivazione della Striscia di Gaza, e con una risposta palestinese a queste azioni spesso violenta.

Comunque vada a finire, questo episodio della lunga guerra contro la Palestina ha chiaramente avuto un profondo impatto traumatico sia sui palestinesi che sugli israeliani. Ciò è vero in termini di numero eccezionale di persone uccise, ferite, disperse, catturate o detenute; distruzione senza precedenti di case e infrastrutture nella Striscia di Gaza; l’enorme numero di famiglie colpite, soprattutto tra i palestinesi; e l’intenso impatto psicologico di questi eventi.

In un breve periodo sono stati arrecati danni immensi alle popolazioni civili palestinesi e israeliane. Il bilancio palestinese di oltre 33.000 morti, insieme a forse 8.000 dispersi e presumibilmente morti, la stragrande maggioranza dei quali civili, è di gran lunga il più alto mai registrato in qualsiasi fase di questa guerra lunga un secolo. Nella guerra del 1947-49 furono uccisi circa 15.000 civili e combattenti palestinesi; nel 1982, durante l’invasione del Libano e l’assedio di Beirut, Israele uccise più di 19.000 civili e combattenti palestinesi e libanesi. Nei sei mesi trascorsi dal 7 ottobre il numero di morti e feriti – circa 120.000 – corrisponde a circa il 5% della popolazione della Striscia di Gaza di 2,3 milioni.

Il bilancio di oltre 800 vittime civili in Israele è il più alto dalla guerra del 1948. Finora sono stati uccisi più di 685 soldati, poliziotti e personale di sicurezza israeliani – più del numero di soldati uccisi nella guerra del Sinai del 1956, nell’invasione del Libano del 1982, nella seconda Intifada e nella guerra del Libano del 2006. Il totale delle vittime israeliane, compresi soldati e civili uccisi e feriti, ha superato quello della guerra del 1967. Inoltre, nell’ottobre dello scorso anno sono stati fatti prigionieri circa 250 civili e soldati israeliani e cittadini stranieri, e più di 100 sono ancora tenuti in ostaggio.

Durante l’intero corso di questa lunga guerra, un numero così elevato di palestinesi e israeliani non era mai stato cacciato dalle proprie case. Mentre tra il 1947 e il 1949 circa 750.000 palestinesi – più della metà della popolazione palestinese dell’epoca – furono sottoposti alla pulizia etnica da quello che divenne Israele, e circa 300.000 nella Cisgiordania e la Striscia di Gaza dopo l’occupazione del 1967, questi numeri sono stati oscurati dalla cifra di circa 1,7 milioni di abitanti di Gaza che Israele ha sfollato dal 7 ottobre. Nel frattempo, almeno 250.000 israeliani sono stati sfollati dagli insediamenti coloniali e dalle città nelle aree al confine con la Striscia di Gaza e il Libano.

Questi shock traumatici hanno avuto un impatto enorme su entrambe le società. In Israele, la violenza del 7 ottobre, in particolare l’elevato numero di civili uccisi, feriti e catturati, con i raccapriccianti risultati diffusi in diretta streaming tramite i social media e ripetutamente trasmessi in televisione, ha avuto un impatto viscerale sull’intero Paese. Gli attacchi hanno evocato ricordi storici di violenza e persecuzione e hanno distrutto il senso di sicurezza che Israele riteneva di aver fornito ai suoi cittadini. Sembra quasi che, nella coscienza pubblica israeliana, dal 7 ottobre il tempo si sia fermato mentre l’effetto bruciante di questo trauma collettivo si ripete come in un ciclo senza fine. Il risultato è stato quello di accelerare lo spostamento verso destra in atto nella società israeliana, con i politici e il discorso pubblico diventati ancora più aggressivi e intransigenti. Gli attacchi hanno provocato un’intensa sete di vendetta, evidente dal modo brutale in cui è stata condotta la guerra di Israele, e il senso di perpetuo vittimismo della nazione è stato rafforzato, nonostante l’immenso squilibrio di potere tra Israele e palestinesi.

Il flusso infinito di immagini della devastazione di Gaza, dell’enorme numero di vittime, delle decine di famiglie completamente spazzate via dagli attacchi dell’intelligenza artificiale israeliana, e della fame e delle malattie causate dalle paralizzanti restrizioni israeliane sul transito di acqua, cibo, medicine, carburante ed elettricità nella Striscia di Gaza – palesi violazioni del diritto internazionale umanitario – hanno traumatizzato i palestinesi ovunque. Genitori e nonni avevano raccontato loro della Nakba e di altri tragici episodi della storia del loro popolo. Ma guardando il paesaggio lunare in cui Israele ha trasformato Gaza, i palestinesi sono comunque rimasti scioccati dallo spietato omicidio di migliaia di civili e dalla vasta distruzione di case, ospedali, scuole, luoghi di culto e infrastrutture, in quello che è stato descritto da un rapporto statunitense storico militare come “una delle più intense campagne di punizione sui civili della storia”. Oltre a dover affrontare per mesi queste orribili realtà i palestinesi sono ossessionati dai ricordi storici della Nakba e dalla domanda su quando e se questa guerra finirà e su come gli abitanti di Gaza potranno mai avere di nuovo una vita normale.

Questi eventi scioccanti hanno avuto eco in tutto il mondo, poiché la serie apparentemente infinita di atrocità che Israele ha inflitto agli abitanti di Gaza è stata vista in tempo reale sui media tradizionali, alternativi e sui social media. Questa è la prima volta che una generazione di giovani in tutto il mondo guarda da mesi tali immagini di carneficina. A gennaio un sondaggio ha rilevato che quasi la metà degli americani tra i 18 e i 29 anni crede che Israele stia commettendo un genocidio. La Palestina è diventata una causa fondamentale per attivisti giovani e meno giovani, unendo varie correnti di opposizione allo status quo globale. Allo stesso tempo, ha diviso le famiglie lungo linee generazionali, mandando in frantumi il compiacente consenso tra i liberali occidentali secondo cui, nonostante i suoi difetti, Israele sarebbe una forza positiva.

Israele è stato accusato dal Sudafrica del genocidio di Gaza davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, che con un voto schiacciante ha accettato di esaminare il caso e ha ordinato misure provvisorie. Questa non è la prima volta che Israele viene accusato di violare il diritto internazionale, accuse che disprezza, ma durante questa guerra il processo ha subito un’accelerazione infliggendo un danno crescente all’immagine internazionale sempre più offuscata di Israele.

La sofferenza che Israele sta provocando a Gaza ha ulteriormente diminuito la sua legittimità, già gravemente compromessa, a livello globale. Al di là della possibilità di una maggiore escalation della guerra in altre parti del Medio Oriente, le scosse di assestamento potrebbero avere conseguenze a lungo termine per la politica interna di Israele, dei palestinesi e degli Stati arabi e regionali, nonché sul futuro di Israele nella regione, e forse anche sull’esito delle elezioni presidenziali americane.

Questa guerra produrrà senza dubbio cambiamenti nella strategia a lungo termine di Israele nei confronti dei palestinesi. L’attacco a sorpresa del 7 ottobre e i successivi fallimenti sul campo di battaglia hanno messo in luce le debolezze della pianificazione militare, dell’intelligence e della sua decantata tecnologia di sorveglianza. Questi fallimenti hanno portato all’uccisione o alla cattura di più di 1.000 soldati e civili israeliani e all’invasione di numerosi insediamenti coloniali di confine, alcuni dei quali non sono stati riconquistati fino al 10 ottobre. Questa è stata una delle peggiori sconfitte nella storia militare di Israele. Questa è anche la prima volta dal 1948 che una guerra viene condotta con un tale grado di ferocia all’interno di Israele. Con la parziale eccezione della Seconda Intifada, in 75 anni Israele non è stato esposto a nulla di paragonabile a questo attacco diretto alla popolazione civile sul suo territorio.

Scosso da questa catastrofica sconfitta, il governo israeliano ha asserito che manterrà a lungo termine il controllo di sicurezza sulla Striscia di Gaza, rifiutandosi di ritirare completamente le sue truppe; il che in pratica equivarrebbe ad una estesa rioccupazione totale o parziale. Considerata la storia dell’enclave, che dal 1948 rappresenta il luogo di più intensa resistenza dei palestinesi all’espropriazione e al dominio da parte di Israele, potrebbe non esserci nel prossimo futuro un termine definito di questa nuova fase del conflitto.

Un altro cambiamento radicato nel fiasco militare del 7 ottobre è che esso rappresenta il temporaneo collasso della dottrina sulla sicurezza di Israele. Questa è spesso chiamata erroneamente “deterrenza”, ma in realtà deriva dall’approccio aggressivo insegnato per la prima volta ai fondatori delle forze armate israeliane – ufficiali come Moshe Dayan, Yigal Allon e Yitzhak Sadeh, membri scelti delle milizie Haganah e Palmach, addestrati alla fine degli anni ’30 da esperti veterani della contro-insurrezione coloniale britannica. La dottrina sostiene che attaccando preventivamente o attraverso una ritorsione con una forza schiacciante e colpendo direttamente le popolazioni civili considerate favorevoli agli insorti il nemico può essere sconfitto in modo decisivo, intimidito in modo permanente e costretto ad accettare le condizioni del colonizzatore. In passato, per quanto riguardava Gaza, questa dottrina – descritta dagli analisti israeliani come “falciare il prato” – prevedeva di colpire periodicamente la popolazione e ucciderne un gran numero per costringerla ad accettare uno status quo di assedio e blocco che durava da 17 anni.

Chiamo questo un crollo temporaneo della dottrina, perché mentre gli eventi del 7 ottobre hanno messo in luce nel fallimento di un approccio basato sulla forza l’esistenza di un problema essenzialmente politico, è chiaro che la leadership israeliana non ha imparato nulla. Invece ha raddoppiato le pratiche precedenti, in linea con l’adagio israeliano: “Se la forza non funziona, usa più forza”. I leader israeliani sembrano aver dimenticato la massima di Clausewitz secondo cui la guerra è una continuazione della politica con altri mezzi.

Nelle parole del sociologo politico israeliano Yagil Levy, nella sua guerra contro Gaza il “quadro politico di Israele è un quadro militare. Netanyahu modella la politica all’interno di un mondo di concetti militari. Non esiste una strategia di uscita politica né una visione politica, che sono l’abc di ogni guerra”. Spinta dal desiderio di vendetta per l’umiliante sconfitta militare e dalla cieca adesione all’antiquata dottrina israeliana sulla sicurezza basata sulla forza, una leadership divisa non ha alcun comune obiettivo politico in questa campagna. Al contrario, brandisce il vuoto slogan della “vittoria completa” e l’idea di ripristinare un atteggiamento aggressivo di “deterrenza”, che è inutile perché manifestamente non è riuscito a scoraggiare gli attacchi in passato, e probabilmente sarà altrettanto inefficace in futuro.

Ci sono ampie prove che il governo israeliano originariamente desiderasse sfruttare l’opportunità offerta dalla guerra per effettuare un’ulteriore pulizia etnica dei palestinesi, sia con la loro espulsione in Egitto che in Giordania, e che, vergognosamente, gli Stati Uniti hanno cercato di persuadere entrambi i Paesi ad accettare questa soluzione, cosa che si si sono rifiutati categoricamente di fare. La forte fazione di coloni all’interno del governo sostiene ancora questo, e spera anche nella possibilità di reinsediarsi nella Striscia di Gaza.

Invece di definire un obiettivo politico preciso un governo israeliano privo di consenso sulla politica ha dichiarato che il suo obiettivo è la completa distruzione di Hamas, un’entità politico-militare-ideologica con diramazioni in tutta la Palestina e nella diaspora palestinese – una missione manifestamente impossibile. Potrebbe essere o meno fattibile per l’esercito israeliano sconfiggere in modo decisivo le forze militari di Hamas nella Striscia di Gaza. Tuttavia, se Hamas riuscisse a mantenere anche solo una frazione delle sue capacità militari dopo molti mesi di combattimenti [Israele] potrebbe rivendicare una vittoria di Pirro. Come scrisse una volta Henry Kissinger: “La guerriglia vince se non perde. L’esercito convenzionale perde se non vince”. Qualunque sia l’esito militare, Hamas non sarà distrutta come forza politica né ideologica.

Alla luce dell’impatto devastante su Israele dell’attacco di ottobre, e nonostante il bilancio feroce della sua risposta, è improbabile che la filosofia della resistenza armata di Hamas scompaia finché non ci sarà la prospettiva di porre fine all’occupazione militare, alla colonizzazione e all’oppressione del popolo palestinese, o di un orizzonte politico che prometta una vera autodeterminazione e uguaglianza palestinese. Pertanto, uno sconvolgimento che avrebbe potuto essere un catalizzatore di cambiamento potrebbe di fatto produrre la continuità della colonizzazione e dell’occupazione, dell’affidamento esclusivo sulla forza da parte della classe dirigente israeliana e della resistenza palestinese armata.

Se le prospettive israeliane sono poco chiare, anche l’orizzonte politico postbellico per i palestinesi è nebuloso. In termini puramente militari, l’entità e la portata dell’attacco di Hamas a ottobre non hanno precedenti. Eppure, facendo ancora riferimento a Clausewitz, è difficile scorgere gli obiettivi politici di Hamas. Nel passato, in vari momenti, Hamas ha proclamato la sua disponibilità ad accettare uno Stato palestinese accanto a Israele, come nella sua dichiarazione di principi del 2017 che considerava “una formula di consenso nazionale la fondazione di uno Stato palestinese indipendente pienamente sovrano e con Gerusalemme come sua capitale sui confini del 4 giugno 1967, con il ritorno di rifugiati e sfollati alle loro case da cui erano stati espulsi.”

D’altro canto, nello stesso documento, Hamas aveva chiesto “la piena e completa liberazione della Palestina, dal fiume al mare,” e ha sistematicamente rifiutato di accettare la legittimità di Israele o di rinunciare alla violenza. Entrambe le tendenze sono state presenti in dichiarazioni contraddittorie fatte dai leader di Hamas da ottobre e in iniziative, precedenti e attuali, rivolte ad unirsi all’OLP e ad altre forze politiche palestinesi, o, alternativamente, a trattarle come rivali di cui prendere il posto.

Dal 7 ottobre entrambe queste tendenze si sono rafforzate fra differenti segmenti del popolo palestinese, con la resistenza armata che trova nuovi sostenitori, specialmente fra i giovani, e altri che cautamente sperano in una svolta nella direzione di uno Stato palestinese, sebbene l’Autorità Palestinese a Ramallah sia disprezzata dalla maggioranza dei palestinesi in quanto appaltatrice della sicurezza per conto dell’occupazione israeliana.

Una constante nei 100 anni di questa guerra è che ai palestinesi non è stato permesso di scegliere chi li rappresenta. Come nel passato, le loro preferenze possono risultare inaccettabili alle potenze, che siano Israele, gli stati occidentali o i loro clienti arabi. Queste potenze stanno probabilmente ancora cercando di imporre la loro scelta su chi rappresenti i palestinesi e chi non sia autorizzato a farlo, con i palestinesi stessi senza una voce in questa decisione. In mancanza di un accordo palestinese su una voce politica unificata e credibile che rappresentanti un consenso nazionale, questo significherebbe che la cruciale decisione sul futuro del loro popolo sarà presa da potenze esterne come è successo molte volte nel passato.

Israele ha presentato questa guerra come mirata esclusivamente contro Hamas, affermando di aver scrupolosamente obbedito al diritto umanitario internazionale, usando una forza “proporzionale” e discriminata e che le morti civili erano “danni collaterali” involontari perché Hamas ha usato i civili come “scudi umani”. I governi occidentali e i media mainstream hanno ripetuto queste affermazioni essenzialmente false, sebbene smentiti dalla morte di oltre 33.000 civili, fra cui, secondo l’Unicef, 13.000 minori, la cacciata di 1,7 milioni di persone e la distruzione, ovviamente intenzionale, della maggior parte delle infrastrutture della Striscia di Gaza con ospedali, impianti di purificazione dell’acqua, fogne, centrali elettriche, sistemi di telefonia e internet, scuole, università, moschee e chiese come obiettivi. Dopo sei mesi di guerra, le dimensioni di questa devastazione e del massacro e la fame di massa causati da Israele sembrano penetrare attraverso la nebbia del pensiero di gruppo perpetuato dai governi occidentali e la maggior parte dei media mainstream che precedentemente avevano ripetuto a pappagallo i punti salienti israeliani anche se ovviamente falsi.

Molti osservatori non accecati da questa fasulla narrazione israeliana vedono correttamente questa guerra come diretta contro la popolazione di Gaza nella forma di punizione collettiva, se non di genocidio. La risultante reazione sdegnata è stata quasi universale nel mondo arabo, in quasi tutti i Paesi musulmani e nella maggioranza dei Paesi del sud globale. In aumento sono le fasce delle popolazioni americane ed europee che hanno risposto in modo simile. Fino a tempi recentissimi questa reazione ha avuto uno scarso effetto sulle politiche di totale sostegno a Israele dell’amministrazione Biden, che vanno poco oltre deboli e palesemente insinceri rimproveri retorici. Per molti osservatori le consegne di armi e munizioni americane che bypassano le garanzie del congresso, la protezione diplomatica di Israele all’ONU, ripetizioni meccaniche dei punti chiave israeliani e la durezza di Biden e dei suoi funzionari verso le sofferenze palestinesi sono viste come elementi dell’attiva partecipazione nel commettere crimini di guerra e genocidio, guadagnando a Biden l’epiteto di “Genocida Joe”.

Dal 7 ottobre la forte simpatia per i palestinesi da parte dei popoli dei Paesi arabi e il loro pubblico sostegno per la loro causa (ove tali espressioni sono permesse e spesso anche dove non lo sono) hanno svelato la deliberata ignoranza dei decisori politici e commentatori occidentali e israeliani che hanno sostenuto che la causa palestinese non è importante per gli arabi e che può essere ignorata. In risposta agli attacchi israeliani contro Gaza ci sono stati mesi con le più vaste manifestazioni popolari mai viste da una decina di anni in numerose città arabe, fra cui Il Cairo, Amman, Manama e Rabat, capitali di Paesi che hanno relazioni diplomatiche con Israele. Alla fine i regimi autocratici che rovinano la regione potrebbero riuscire a reprimere la simpatia dei loro cittadini per i palestinesi e l’ostilità verso Israele. Ciononostante, in futuro, questi governi saranno obbligati a prendere più attentamente in considerazione l’appassionato senso di identificazione del loro popolo con la causa palestinese e ad adattare di conseguenza le loro politiche.

Da ottobre un altro elemento è emerso con grande rilevanza: il valore diseguale che le élite occidentali attribuiscono da un lato alle vite israeliane (identificate come “bianche”) e dall’altro a quelle arabe (identificate come “di colore”). Questo vergognoso doppio standard ha prodotto un’atmosfera tossica, repressiva negli spazi dominati da queste élite negli USA e un po’ meno Europa, specialmente nell’ambito politico, corporativo, dei media e nei campus universitari. L’ondata risultante di caccia alle streghe nei parlamenti, fra imprenditori, nel mondo di cultura e università si è concentrata sulle accuse che sostenere la libertà per i palestinesi e criticare le politiche israeliane o il sionismo sia in un qualche modo antisemita.

Queste asserzioni accettano l’affermazione che Israele e sionismo siano sinonimi di ebraismo, mentre ignorano il posto di rilievo di ebrei più progressisti e giovani che sostengono i diritti dei palestinesi e si oppongono alle azioni del governo israeliano. È totalmente assurdo affermare che l’opposizione al sionismo o al colonialismo israeliano sia per principio antisemita. Se coloro che si sono insediati in Palestina fossero stati scandinavi cristiani perseguitati che si percepissero come missionari mandati da dio per sottrarre il Paese alla sua popolazione indigena non ci sarebbe stato nulla di “anticristiano” nel resistere ai loro sforzi.

Le élite occidentali fra i politici, i media e in altri ambienti che promuovono questa atmosfera maccartista di repressione hanno dimostrato che considerano l’uccisione di civili israeliani più degna di attenzione di quella della morte di 25 volte tanto di civili palestinesi. Perciò, con qualche eccezione, in generale i media mainstream individuano in dettaglio le morti di civili israeliani, descritte come il risultato di atrocità perpetrate da Hamas. In contrasto, molto più frequentemente si descrive il grandissimo numero di morti civili palestinesi collettivamente e in termini passivi e senza nominare l’autore israeliano delle loro uccisioni, come se la causa fosse sconosciuta o un fenomeno naturale. Quindi Israele non uccide: i palestinesi muoiono, Israele non affama i palestinesi, loro soffrono la fame.

Questo approccio palesemente di parte è un’arma a doppio taglio: se nel breve periodo potrà servire a Israele per puntellare un pubblico di riferimento in diminuzione per il suo ritratto distorto della realtà in Palestina, il doppio standard inerente è trasparente alla maggior parte del mondo. È anche ovvio a segmenti crescenti di opinione pubblica in occidente, specialmente i più giovani. Invece di ottenere le loro informazioni dalle offerte dei media tradizionali che presentano le notizie in gran parte attraverso le lenti israeliane queste audience più giovani hanno una gamma variegata di fonti, a cui accedono principalmente tramite media alternativi e i social che offrono un panorama di immagini della morte, distruzione e miseria che Israele infligge sui gazawi. Di conseguenza capiscono perfettamente che un alto grado di censura di queste realtà è imposto dalla faziosità dei media tradizionali per i quali giustamente nutrono un totale disprezzo.

Nonostante una feroce ondata di repressione del sostegno ai palestinesi nella sfera pubblica, fra i giovani la maggiore disponibilità di una più ampia varietà di informazioni ha cominciato ad aver un effetto politico negli USA, particolarmente dopo che l’iniziale impennata di simpatia per Israele in risposta agli attacchi di Hamas è stata sostituita dalla simpatia per i civili palestinesi massacrati e affamati. In un sondaggio oltre il 68% degli americani sostiene un cessate il fuoco permanente a Gaza. Un altro ha mostrato che il 57% degli intervistati disapprovava la gestione della guerra a Gaza di Joe Biden, una cifra che sale a circa il 75% nella fascia di elettori fra i 18 e i 29 anni.

Sin dalla sua elezione a senatore nel 1972, Biden si è votato ai miti su Israele e Palestina che sono prevalenti nella conversazione politica e nei media americani. La sua amministrazione non ha ribaltato nessuna delle politiche che chiaramente favoriscono Israele promulgate dall’amministrazione Trump. Biden ha quindi mantenuto una serie di deviazioni significative dalle precedenti politiche USA, incluso il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, la chiusura del consolato USA a Gerusalemme Est e della missione palestinese a Washington DC, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele e riconoscendo l’annessione israeliana delle Alture di Golan.

Oltre a ciò e ben lontano dall’abbandonare l’approccio distintivo dell’amministrazione di Trump, detto “gli accordi di Abramo”, di ridurre l’importanza della questione palestinese e concentrarsi sulla normalizzazione delle relazioni fra Israele e gli Stati arabi, l’amministrazione Biden ha elogiato queste misure che hanno portato ad aprire le relazioni diplomatiche fra Israele e Emirati Arabi Uniti, Marocco e Bahrain, facendo infuriare i palestinesi. Biden e il suo team sono andati persino oltre. Hanno posto forti pressioni per un accordo di normalizzazione fra sauditi e israeliani che avrebbe schierato lo Stato arabo più influente con Israele, indebolendo ulteriormente i palestinesi e diminuendo ancora di più la prospettiva del loro raggiungimento di qualcuno dei loro obiettivi nazionali.

Sebbene la chimera di un accordo di normalizzazione saudita si scontri potentemente con la realtà dopo il 7 ottobre, rivelando le difficoltà che i regimi arabi avrebbero davanti se entrassero in relazione con un Paese che la vasta maggioranza del loro popolo pensa stia commettendo un genocidio, l’amministrazione Biden non ha mai oscillato nella sua promozione aggressiva dell’idea. L’ha fatto mentre indeboliva i suoi clienti arabi con un sostegno illimitato del selvaggio attacco di Israele contro la Striscia di Gaza, che ha con fermezza appoggiato come “autodifesa”. Questo sostegno include il rifiuto categorico di un cessate il fuoco permanente e la consegna di emergenza di aerei pieni di munizioni e armi, senza le quali Israele non avrebbe potuto sostenere la sua campagna militare. Recentemente sono stati promessi altri cacciabombardieri F-15 e F-35.

Con queste azioni e la sua costante ripetizione della retorica israeliana, Biden ha rafforzato la sensazione che gli USA siano visceralmente ostili verso i palestinesi. Anche quando, mesi dopo, ha finalmente insistito che Israele ponga fine alla fame di massa dei gazawi, questa è stata la risposta non alle immagini di neonati palestinesi emaciati ma alle morti dei volontari stranieri bianchi.

Anche la richiesta dell’amministrazione per la “soluzione a due Stati” suona falsa. Non ci sono segni che gli USA richiedano l’implementazione dei prerequisiti essenziali per una tale soluzione: una fine rapida e completa dell’occupazione militare israeliana durata quasi 57 anni e dell’usurpazione e colonizzazione delle terre palestinesi, che ha portato circa 750.000 coloni illegali sul 60% della Cisgiordania e Gerusalemme Est. L’amministrazione non ha neppure indicato se accetterebbe che i palestinesi scelgano democraticamente i propri rappresentanti.

Senza una decisa applicazione di queste misure la richiesta della “soluzione dei due Stati” è sempre stata priva di significato, una crudele truffa orwelliana. Invece di autodeterminazione, Stato e sovranità palestinesi, manterrebbe in effetti lo status quo in Palestina sotto forma diversa, con una “Autorità Palestinese” collaborazionista e controllata esternamente e mancante di reale giurisdizione o autorità rimpiazzata da uno “Stato palestinese” collaborazionista ugualmente privo di sovranità e indipendenza connessi a un autentico State. Sarebbe una farsa: un arcipelago spezzettato di bantustan sotto il controllo finale di Israele, con supervisione finanziaria e di sicurezza degli USA, dell’Europa occidentale e dei suoi alleati arabi.

Guardando indietro agli ultimi sei mesi, al crudele massacro di civili su scala senza precedenti, con milioni di persone che hanno perso la casa, la fame di massa e le malattie causate da Israele è chiaro che questo segna un nuovo abisso in cui è sprofondata la lotta per la Palestina. Se questa fase riflette gli aspetti di fondo delle precedenti in questi 100 anni di guerra, la sua intensità è unica, e ha creato nuovi e profondi traumi. Non solo non si vede la fine di questa carneficina, sembriamo più lontani che mai da una risoluzione duratura e sostenibile, basata sullo smantellamento delle strutture di oppressione e supremazia e giustizia, uguaglianza totale dei diritti e mutuo riconoscimento.

Rashid Khalidi è autore di libri come The Hundred Years’ War on Palestine: A History of Settler-Colonialism and Resistance (La guerra dei cent’anni contro la Palestina: una storia dell’insediamento dei coloni e della resistenza) (Profile, 2020) e docente di studi arabi moderni presso la Columbia University

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio e Aldo Lotta)




Sette operatori umanitari a Gaza, compresi cittadini del Regno Unito, degli Stati Uniti e dell’Australia, uccisi in un attacco israeliano, afferma l’organizzazione benefica

Bethan McKernan, a Gerusalemme, e Ben Doherty

2 aprile 2024 – The Guardian

L’esercito israeliano indaga in seguito al fatto che in un convoglio colpito nel centro di Gaza si trovavano degli operatori di World Central Kitchen 

Sette persone che lavoravano per World Central Kitchen [ONG americana, ndt.], un’organizzazione benefica che promuove sforzi per alleviare l’incombente carestia a Gaza, sono rimaste uccise in un attacco aereo israeliano, dice l’organizzazione, gettando nel caos gli sforzi di soccorso umanitario nel territorio palestinese, in quanto l’organizzazione ha detto che avrebbe sospeso le operazioni.

Secondo una dichiarazione rilasciata giovedì mattina gli operatori facevano parte di un gruppo che viaggiava su tre veicoli corazzati che riportavano il logo dell’organizzazione umanitaria. World Central Kitchen (WCK) ha detto che gli uccisi erano originari di Regno Unito, Australia, Polonia e Palestina e uno aveva doppia cittadinanza USA e canadese.

Secondo un giornalista dell’Associated Press che si trovava nella struttura, i corpi degli operatori umanitari sono stati portati in un ospedale della città di Rafah nel sud di Gaza, sul confine egiziano. Le registrazioni dell’ospedale hanno riportato che tre cittadini del Regno Unito erano morti.

L’organizzazione ha affermato: “Nonostante i movimenti fossero stati concordati con l’esercito israeliano il convoglio è stato colpito alla partenza dal deposito di Deir al-Balah, dove la squadra aveva scaricato più di 100 tonnellate di aiuti umanitari in cibo portati a Gaza via mare.”

Erin Gore, presidente di WCK, ha detto: “Questo non è solo un attacco contro WCK, è un attacco alle organizzazioni umanitarie che avviene nella più tremenda delle situazioni in cui il cibo viene usato come arma di guerra. Questo è imperdonabile.”

L’organizzazione interromperà le operazioni nella regione e dice che prenderà una decisione sul futuro della sua attività, sollevando timori che il recente corridoio marittimo da Cipro per la consegna di aiuti disperatamente necessari a Gaza possa fallire a fronte dei ripetuti ostacoli da parte israeliana.

Giovedì pomeriggio Cipro ha detto che le navi recentemente giunte a Gaza stanno tornando indietro con 240 tonnellate di aiuti non consegnati.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha deplorato le uccisioni, che ha detto essere state provocate da un attacco aereo israeliano. Ha decritto l’incidente come tragico e non intenzionale.

Succede in tempi di guerra. Stiamo indagando accuratamente sui fatti, siamo in contatto con i governi (delle vittime straniere) e faremo di tutto per garantire che non avvenga di nuovo”, ha detto in una videodichiarazione.

L’esercito israeliano ha espresso “sincero dispiacere” per le morti mentre non ha ammesso del tutto di accettarne la responsabilità, aggiungendo che è in corso un’indagine.

Una dichiarazione dell’esercito afferma: “Le IDF (esercito) compiono molti sforzi per rendere possibile la consegna sicura di aiuti umanitari e hanno lavorato a stretto contatto con WCK nei suoi sforzi vitali per fornire cibo e aiuto umanitario alla popolazione di Gaza.”

I tentativi delle agenzie umanitarie di fornire assistenza dove c’è più necessità a Gaza sono stati gravemente ostacolati da un insieme di impedimenti logistici, da un collasso dell’ordine pubblico e dalla farraginosa burocrazia imposta da Israele. Il numero di camion di aiuti entrati nel territorio via terra negli ultimi cinque mesi è stato molto al di sotto dei 500 al giorno che entravano prima della guerra.

A febbraio più di 100 persone sono state uccise quando le forze israeliane hanno aperto il fuoco in un punto di distribuzione degli aiuti a Gaza City. L’esercito israeliano ha detto che per la maggior parte sono morti nella calca, ma funzionari palestinesi e testimoni lo hanno smentito dicendo che la maggioranza di quelli portati in ospedale presentava ferite da proiettili.

L’ONU ha detto che nel territorio costiero almeno 576.000 persone– un quarto della popolazione – sono sulla soglia della carestia ed è aumentata la pressione su Israele perché accresca il flusso di aiuti.

Le navi con gli aiuti arrivate lunedì trasportavano 400 tonnellate di cibo e prodotti – sufficienti per un mese di pasti – in una spedizione finanziata dagli Emirati Arabi Uniti e organizzata da WCK, ma gli operatori avevano scaricato solo 100 tonnellate prima che l’attacco costringesse l’organizzazione ad ordinare che le imbarcazioni tornassero a Cipro.

Il mese scorso un’altra nave di WCK ha consegnato 200 tonnellate di aiuti in un’esperienza pilota resa possibile da volontari di WCK e da altri a Gaza che hanno costruito un molo con le macerie di edifici distrutti dai bombardamenti israeliani negli scorsi cinque mesi. L’esercito israeliano è stato coinvolto nel coordinamento di entrambe le consegne.

Washington, il principale alleato di Israele, ha caldeggiato la via marittima come nuovo modo per fornire aiuti disperatamente necessari al nord di Gaza, che è ampiamente separato dal resto del territorio dalle forze israeliane.

Israele ha impedito all’UNRWA, la principale agenzia dell’ONU a Gaza, di effettuare consegne nel nord dopo aver sostenuto che molti dei suoi dipendenti erano coinvolti nell’attacco di Hamas che ha scatenato la guerra, ora nel suo sesto mese. Altre organizzazioni umanitarie dicono che spedire convogli di camion al nord è troppo pericoloso a causa delle mancate garanzie da parte dell’esercito di un passaggio sicuro.

In base ai dati israeliani il 7 ottobre circa 1.200 israeliani sono stati uccisi e altri 250 presi in ostaggio, mentre più di 32.000 palestinesi sono stati uccisi nella successiva offensiva israeliana, secondo il locale Ministero della Salute nel territorio governato da Hamas.

José Andrés, il fondatore di WCK, ha dichiarato a X che l’organizzazione umanitaria “ha perso parecchie nostre sorelle e fratelli in un attacco aereo delle IDF a Gaza.”

Ha scritto: “Ho il cuore spezzato e sono addolorato per le loro famiglie ed amici e per l’intera nostra famiglia di WCK. Queste sono persone…sono angeli…Ho lavorato al loro fianco in Ucraina, a Gaza, in Turchia, in Marocco, alle Bahamas, in Indonesia. Hanno un volto…hanno un nome.”

Ha detto che il governo israeliano avrebbe dovuto “fermare queste uccisioni indiscriminate.”

Il Primo Ministro australiano, Anthony Albanese, ha identificato la persona uccisa di nazionalità australiana come Zomi Frankcom e ha definito il suo lavoro “straordinariamente importante.”

Albanese ha detto che il suo governo avrebbe convocato l’ambasciatore israeliano riguardo ad un incidente che ha detto essere “al di là di ogni ragionevole circostanza”, aggiungendo: “l’Australia si attende una piena assunzione di responsabilità per la morte di operatori umanitari, che è assolutamente inaccettabile.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Secondo un articolo l’intelligence statunitense mette in dubbio le affermazioni israeliane riguardo ai rapporti tra l’UNRWA e Hamas.

Redazione di The Guardian

22 febbraio 2024 – The Guardian

Un rapporto dell’intelligence afferma che alcune accuse secondo cui collaboratori umanitari avrebbero partecipato agli attacchi di Hamas sono credibili ma non potrebbero essere verificate in modo indipendente.

Una verifica da parte dell’intelligence USA delle affermazioni di Israele secondo cui membri del personale di un’agenzia umanitaria dell’ONU avrebbero partecipato il 7 ottobre all’attacco di Hamas afferma che alcune delle accuse sono credibili, benché non potrebbero essere verificate in modo indipendente, mettendo nel contempo in dubbio denunce di rapporti più ampi con gruppi di miliziani.

L’attacco ha provocato un’invasione su vasta scala di Gaza che ha ucciso fino a 30.000 palestinesi. All’inizio dell’anno Israele ha accusato 12 dipendenti della United Nations Reliefs and Works Agency [agenzia ONU che si occupa dei profughi palestinesi, ndt.] (UNRWA) di aver partecipato agli attacchi del 7 ottobre insieme ad Hamas. Ha anche sostenuto che il 10% di tutti i lavoratori dell’UNRWA è affiliato ad Hamas.

La clamorosa accusa ha portato molti Paesi, tra cui gli USA, a tagliare i finanziamenti all’agenzia, che è stato un mezzo fondamentale per inviare aiuti a Gaza in quella che è stata ampiamente descritta come una crisi umanitaria.

Secondo il Wall Street Journal [importante quotidiano statunitense, ndt.] il rapporto dell’intelligence reso noto la scorsa settimana afferma con “scarsa fiducia” che un pugno di impiegati hanno partecipato agli attacchi, indicando di considerare le accuse credibili, pur non potendo confermare in modo indipendente la loro veridicità.

Tuttavia solleva dubbi sulle accuse secondo cui l’agenzia dell’ONU ha collaborato con Hamas in modo più complessivo. Secondo il Journal il rapporto sostiene che, benché l’UNRWA si coordini con Hamas per consegnare aiuti e operare nella zona, mancano prove che suggeriscano una collaborazione con il gruppo.

Aggiunge che Israele non ha “condiviso con gli USA i documenti di intelligence che stanno dietro le sue affermazioni.”

Inoltre il rapporto nota l’avversione di Israele nei confronti dell’UNRWA, hanno affermato al Journal due fonti informate: “C’è un paragrafo specifico che menziona come la tendenziosità israeliana sia funzionale a travisare molte delle affermazioni sull’UNRWA e dice che ciò ha dato come risultato delle distorsioni,” avrebbe affermato una fonte.

Secondo il Journal la scorsa settimana il rapporto di quattro pagine del National Intelligence Council ha circolato tra i funzionari del governo USA. Fondato nel 1979, il NIC include importanti analisti ed esperti dell’intelligence che lavorano insieme a parlamentari USA sulla politica statunitense.

A gennaio il segretario di stato Antony Blinken aveva affermato che le accuse di Israele sono “molto, molto credibili”. Nove dei dipendenti accusati sono stati licenziati dal capo dell’agenzia, che ha affermato di aver seguito così facendo “il contrario di un giusto processo”. In una conferenza stampa a Gerusalemme il commissario generale dell’UNRWA Philippe Lazzarini all’inizio di febbraio ha detto di non aver verificato le prove prima del licenziamento.

“Avrei potuto sospenderli, ma li ho licenziati. E ora ho avviato un’indagine e se l’inchiesta ci dirà che è stato un errore, in quel caso all’ONU prenderemo una decisione su come compensarli correttamente,” ha affermato.

Mercoledì Lazzarini ha detto ad Haaretz [quotidiano israeliano di centro-sinistra, ndt.] che l’agenzia sta chiedendo a Israele la “massima collaborazione per fornire le prove agli inquirenti.”

Riguardo alle affermazioni israeliane secondo cui circa il 10% dei lavoratori dell’UNRWA sarebbe affiliato ad Hamas, Lazzarini ha detto al giornale: “Ho letto sul giornale di 190 o 1.200 (dipendenti), ma non siamo stati informati (al riguardo) … Non abbiamo queste informazioni, non sappiamo da dove vengano queste informazioni, non sappiamo se si tratta di una stima. Non sappiamo se si tratta solo di una congettura.”

Con circa 2 milioni di palestinesi sfollati con la forza dagli attacchi di Israele contro Gaza dal 7 ottobre, la maggioranza dei sopravvissuti ha cercato rifugio a Rafah. Mentre i palestinesi devono fare i conti con gravi carenze di cibo, acqua, carburante e servizi medici, l’ONU ha avvertito di un incombente disastro della sanità pubblica.

Solo quattro degli ambulatori e centri medici dell’UNRWA nella Striscia sono ancora in funzione.

“Ci siamo totalmente riorientati da quelli che chiamerei i tradizionali servizi di tipo pubblico forniti ai rifugiati palestinesi e dalle attività per lo sviluppo umano verso un tipo di risposta emergenziale che è prioritariamente salvavita, come aiutare la gente a trovare un rifugio,” ha detto Lazzarini ad Haaretz.

“Stiamo cercando di tenere in piedi per quanto possibile il nostro sistema sanitario di base in modo che la gente non sovraffolli gli ospedali, che sono travolti da quella che definirei chirurgia di guerra di base.”

Nel contempo un rapporto separato dell’ONU di un gruppo di esperti dell’ONU reso pubblico lunedì ha manifestato allarme riguardo a “denunce credibili” di donne e ragazze sottoposte a “molteplici forme di aggressioni sessuali … da parte di soldati maschi dell’esercito israeliano.”

Le denunce includono stupri e detenzioni di donne palestinesi in gabbie, oltre a “foto di donne detenute in condizioni degradanti… che sarebbero state prese dall’esercito israeliano e pubblicate in rete.”

“Ricordiamo al governo israeliano i suoi obblighi di tutelare il diritto alla vita, alla sicurezza, alla salute e alla dignità delle donne e ragazze palestinesi e di garantire che nessuna sia sottoposta a violenza, tortura, sevizie o trattamenti degradanti, comprese violenze sessuali,” affermano gli esperti dell’ONU.

(traduzione dall’inglese Amedeo Rossi)




La redazione della CNN afferma che la tendenza filoisraeliana della rete rappresenta una “pratica giornalistica scorretta”

Chris McGreal

4 febbraio 2024 – The Guardian

Voci interne affermano che le pressioni dall’alto portano a reportage che accreditano le affermazioni israeliane e mettono a tacere il punto di vista palestinese.

La CNN sta affrontando una reazione da parte della sua stessa redazione riguardo a politiche editoriali che avrebbero portato a una ripetizione a pappagallo della propaganda israeliana e alla censura del punto di vista palestinese nella copertura della rete sulla guerra a Gaza.

Giornalisti della redazione CNN negli USA e all’estero affermano che le trasmissioni sono state distorte da imposizioni della direzione e da un procedimento di approvazione dei reportage che si è tradotto in una copertura molto parziale del massacro di Hamas del 7 ottobre e dell’attacco per rappresaglia contro Gaza.

“Da quando è iniziata la guerra, all’interno della rete la maggioranza delle notizie, indipendentemente da quanto siano stati accurati i primi reportage, è stata distorta da una tendenziosità sistematica e istituzionalizzata a favore di Israele,” afferma un redattore della CNN. “In sostanza, la copertura della CNN sulla guerra tra Israele e Gaza rappresenta una pratica giornalistica scorretta”.

Secondo i racconti di sei giornalisti della CNN in differenti redazioni e più di una decina di note ed email ottenute da The Guardian, le decisioni sulle notizie giornaliere sono condizionate da un flusso di direttive del quartier generale della CNN ad Atlanta che hanno stabilito rigide linee guida sulle notizie da dare.

Includono severe restrizioni alle citazioni di Hamas e alla presentazione di altre prospettive dei palestinesi, mentre le dichiarazioni del governo israeliano sono prese per oro colato. Inoltre, prima della messa in onda o della pubblicazione, ogni reportage sul conflitto deve essere autorizzato dall’ufficio di Gerusalemme.

I giornalisti della CNN affermano che il tono della copertura è stabilito dall’alto dal nuovo direttore e amministratore delegato, Mark Thompson, che ha assunto l’incarico due giorni dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Alcuni membri del personale sono preoccupati dell’effettiva volontà di Thompson di opporsi ai tentativi di influenzare le notizie dall’esterno, dato che nel suo precedente ruolo di direttore generale della BBC era stato accusato di aver ceduto in varie occasioni alle pressioni del governo israeliano, compresa la richiesta nel 2005 di rimuovere una delle inviate più importanti dell’azienda dal suo posto a Gerusalemme.

Fonti interne alla CNN affermano che ciò ha portato, soprattutto nelle prime settimane di guerra, a un’attenzione molto maggiore sulla sofferenza degli israeliani e sulla narrazione israeliana della guerra come una caccia ad Hamas e ai suoi tunnel e a un’insufficiente attenzione nei confronti del livello di morti civili palestinesi e distruzioni a Gaza.

Un giornalista descrive una “frattura” all’interno della rete riguardo alla copertura che a quanto afferma ricorda talvolta il tifo conformista che seguì l’11 settembre.

“Ci sono parecchi conflitti e dissensi interni. Alcuni stanno cercando di andarsene,” afferma.

Un giornalista di un altro ufficio dice che anche lì c’è stata opposizione.

“Importanti redattori che dissentono dallo status quo si sono scontrati con il fatto che i dirigenti diano ordini, mettendo in discussione come si possa effettivamente raccontare quello che accade con le indicazioni restrittive vigenti” afferma.

“Molti hanno spinto perché vengano segnalati e trasmessi più contenuti da Gaza. Al momento questi reportage passano attraverso Gerusalemme e arrivano in TV o in prima pagina, con modifiche importanti, dall’inserimento di un linguaggio impreciso a ignorando vicende cruciali, che garantiscono che quasi ogni servizio, per quanto accusatorio, assolva Israele da azioni illecite.”

La redazione della CNN afferma che alcuni giornalisti con esperienza di reportage sul conflitto o sulla regione hanno rifiutato di essere inviati in Israele perché pensano che non sarebbero liberi di raccontare tutto quello che avviene. Altri ipotizzano di esserne stati tenuti fuori dai capi della redazione.

“È evidente che alcuni che non sono esperti stanno coprendo la guerra e altri che lo sono non lo stanno facendo,” afferma una fonte interna.

Imposizioni dai piani alti

Nella prima riunione di redazione di Thompson, due giorni dopo l’attacco di Hamas il 7 ottobre, il nuovo direttore della rete ha descritto la copertura del rapido sviluppo degli avvenimenti da parte della CNN come “fondamentalmente molto buono”.

Poi Thompson ha detto di volere che il pubblico capisse cosa sia Hamas, che cosa voglia e cosa abbia cercato di ottenere con l’attacco. Qualcuno dei presenti ha pensato che fosse un lodevole obiettivo giornalistico. Ma affermano che col tempo è diventato chiaro che egli aveva aspettative più specifiche su come i giornalisti dovessero sull’organizzazione.

Alla fine di ottobre, mentre il bilancio dei palestinesi uccisi cresceva notevolmente a causa dei bombardamenti israeliani, con più di 2.700 minori uccisi secondo il ministero della Sanità di Gaza, e mentre Israele si preparava all’invasione di terra, nelle caselle di posta della redazione CNN è arrivata una serie di linee guida.

Una nota all’inizio della comunicazione di due pagine indicava un’istruzione “da Mark” perché si facesse attenzione a un particolare paragrafo intitolato “guida sulla copertura”. Il paragrafo diceva che, mentre la CNN avrebbe riportato le conseguenze umane dell’attacco israeliano e il contesto storico della vicenda, “dobbiamo continuare sempre a ricordare al nostro pubblico la causa immediata dell’attuale conflitto, cioè l’attacco di Hamas e l’uccisione di massa e il rapimento di civili” (corsivo nell’originale).

I membri della redazione della CNN affermano che la comunicazione ha consolidato un contesto di servizi in cui il massacro di Hamas è stato usato per giustificare implicitamente le azioni di Israele e che altri contesti o vicende sono spesso risultati sgraditi o lasciati da parte.

“In quale altro modo i giornalisti avrebbero dovuto leggerla se non come un’indicazione che qualunque cosa facciano gli israeliani Hamas in ultima analisi è colpevole? Il reportage su ogni azione di Israele – bombardamenti massicci che spazzano via intere vie, la cancellazione di intere famiglie – finisce per essere manipolato per creare una narrazione secondo cui “se la sono cercata loro,” dice un redattore.

La stessa comunicazione afferma che ogni riferimento ai dati del ministero della Sanità di Gaza sulle vittime deve specificare che è “controllato da Hamas”, implicando che i resoconti delle morti di migliaia di minori sono inattendibili, anche se l’Organizzazione Mondiale della Salute e altri enti internazionali hanno affermato che sono decisamente veritieri. La redazione della CNN afferma che l’imposizione è stata stilata da Thompson durante una delle prime riunioni di redazione.

Un controllo più generale della copertura della direzione della CNN ad Atlanta è diretto dalla “Triade”, composta da tre dipartimenti della CNN: norme e pratiche delle notizie, ufficio legale e controllo dei fatti.

David Lindsay, il principale direttore di norme e pratiche delle notizie, all’inizio di novembre ha emanato una direttiva che di fatto ha vietato le informazioni sulla maggior parte delle dichiarazioni di Hamas, definendole come “retorica incendiaria e propaganda”.

“La maggior parte di questi discorsi è stato detto molte volte in precedenza e non è degno di nota. Dobbiamo dare attenzione a non fornirgli una tribuna,” ha scritto.

Lindsay ha affermato che se una dichiarazione viene definita editorialmente importante “la possiamo usare se è accompagnata da un contesto più complessivo, preferibilmente in un insieme di notizie o un testo digitale. Evitiamo di presentarlo come un estratto o una citazione autonomi.”

Un redattore della CNN fa notare che invece la rete ha ripetutamente trasmesso discorsi incendiari e propaganda da parte di politici israeliani e sostenitori americani, spesso senza interviste con contraddittorio.

Evidenzia che, mentre la CNN non lo ha fatto, altri canali hanno intervistato dirigenti di Hamas, compresa un’intervista in cui il portavoce del gruppo, Ghazi Hamad, ha interrotto le domande della BBC quando gli è stato chiesto dell’uccisione di civili israeliani. Un redattore afferma che tra gli inviati c’è l’opinione che sia “uno strazio far approvare dalla Triade un’intervista ad Hamas.”

Fonti della CNN riconoscono che dall’attacco del 7 ottobre non ci sono state interviste ad Hamas, ma affermano che la rete non impone un divieto su queste interviste.

Ma alla redazione e agli inviati della CNN sono state date indicazioni di non utilizzare video ripresi da Hamas “in nessun caso, finché non sia stato approvato dalla Triade e dai principali responsabili editoriali.”

Questa posizione è stata ripetuta in un’altra nota del 23 ottobre, secondo cui i reportage non dovevano mostrare video di Hamas del rilascio di due ostaggi israeliani, Nurit Cooper e Yocheved Lifshitz. Due giorni dopo Lindsay ha inviato un’ulteriore indicazione, secondo cui il video dell’ottantacinquenne Lifshitz che stringe la mano di uno dei suoi rapitori “può essere utilizzato solo quando viene specificamente scritto che era sua riguardo alla decisione di stringere la mano al rapitore.”

Oltre agli ordini di Atlanta, la CNN ha una politica di lunga data in base alla quale, per essere messo in onda o pubblicato, ogni testo sulla situazione in Israele/Palestina deve essere approvato dall’ufficio di Gerusalemme. Per velocizzare l’approvazione, in luglio la rete ha creato un processo denominato “SecondEyes” [Secondi Occhi].

Il caporedattore dell’ufficio di Gerusalemme, Richard Greene, ha detto alla redazione in una nota che annunciava “SecondEyes” riportata per la prima volta da The Intercept [sito alternativo di notizie, ndt.], che, poiché le informazioni sul conflitto israelo-palestinese sono sottoposte al controllo dei sostenitori di entrambe le parti, la misura è stata creata come “rete di sicurezza in modo che non usiamo un linguaggio impreciso o parole che possano suonare imparziali ma che qui possono avere un significato in codice.”

Redattori della CNN sostengono che non c’è niente di intrinsecamente sbagliato nella richiesta, data la notevole delicatezza nell’informazione su Israele e Palestina e la natura aggressiva delle autorità israeliane e dei ben organizzati gruppi filo-israeliani per cercare di influenzare la copertura giornalistica. Ma alcuni hanno l’impressione che una misura originariamente intesa a preservare un buon livello sia diventata uno strumento di auto-censura per evitare polemiche.

Uno dei risultati di SecondEyes è che le dichiarazioni ufficiali israeliane sono spesso rapidamente approvate e mandate in onda in base al principio che devono essere prese per buone, come se avessero il visto per la diffusione, mentre i comunicati e le affermazioni dei palestinesi, e non solo di Hamas, sono ritardate o non riportate.

Un giornalista della CNN afferma che gli ordini di SecondEyes spesso sembrano intesi a evitare critiche da parte di gruppi filo-israeliani. Fanno l’esempio dell’intervento di Greene per cambiare un titolo, “Israele non sta neppure lontanamente distruggendo Hamas”, un punto di vista ampiamente presente nella stampa straniera e israeliana. È stato sostituito con un titolo che sposta l’attenzione da se Israele possa raggiungere la giustificazione dichiarata per l’uccisione di migliaia di civili palestinesi a “Dopo tre mesi Israele sta entrando in una nuova fase della guerra. Sta ancora cercando di ‘distruggere’ Hamas?”

Alcuni redattori della CNN temono che il risultato sia una rete che agisce come censore sostitutivo a favore del governo israeliano.

“Il sistema porta a individui scelti che pubblicano e raccontano con una parzialità istituzionalizzata a favore di Israele, utilizzando spesso un linguaggio passivo per assolvere l’esercito israeliano da ogni responsabilità e minimizzando le morti dei palestinesi e gli attacchi israeliani,” afferma uno dei giornalisti della rete.

Redattori della CNN che hanno parlato con The Guardian sono stati pronti a elogiare i reportage approfonditi ed incisivi degli inviati sul terreno. Hanno detto che questi servizi spesso hanno avuto risalto su CNN International, sono stati visti fuori dagli USA. Ma sul canale CNN disponibile negli USA spesso sono stati meno visibili e a volte messi da parte da ore di interviste a politici e sostenitori israeliani della guerra a Gaza, a cui è stata lasciata piena libertà di sostenere le proprie idee, spesso senza contraddittorio e a volte con presentatori che facevano dichiarazioni di sostegno. Nel contempo le voci e le opinioni dei palestinesi si sono sentite molto meno di frequente e sono state contraddette con maggiore forza.

Un redattore ha evidenziato la presenza di Rami Igra, un importante exufficiale del servizio di sicurezza israeliano, nel programma di Anderson Cooper, dove ha affermato che tutta la popolazione palestinese di Gaza dovrebbe essere vista come combattente.

“Popolazione non-combattente nella Striscia di Gaza è in realtà un termine inesistente perché tutti i gazawi hanno votato per Hamas e, come abbiamo visto il 7 ottobre, la grande maggioranza della popolazione della Striscia di Gaza è con Hamas,” ha affermato.

“Ciononostante noi li stiamo trattando come non combattenti, come civili regolari e sono risparmiati dai combattimenti.”

Cooper non ha smentito nessuna delle sue affermazioni. Quando l’intervista è stata messa in onda, il 19 novembre, a Gaza erano state uccise più di 13.000 persone, in grande maggioranza civili.

Un altro dipendente della CNN ha scelto il programma del presentatore Jake Tapper come esempio di un conduttore che si identifica troppo con una parte mentre l’altra ha solo una presenza limitata. In un certo momento Tapper ha riconosciuto la morte e le sofferenze di palestinesi di Gaza innocenti, ma è sembrato difendere l’entità dell’attacco israeliano contro Gaza.

“Cosa ha pensato esattamente Hamas che avrebbe fatto l’esercito israeliano in risposta a questo?” ha affermato, in riferimento all’attacco del 7 ottobre.

Un portavoce della CNN ha sostenuto: “Rifiutiamo nel modo più assoluto l’affermazione che i nostri giornalisti trattano i politici israeliani diversamente da altri politici.”

Un’altra presentatrice, Sara Sidner, ha suscitato critiche per il suo emotivo reportage sulle affermazioni israeliane non verificate secondo cui il 7 ottobre Hamas avrebbe decapitato decine di bambini.

“Abbiamo notizie veramente sconvolgenti da Israele,” ha annunciato quattro giorni dopo l’attacco.

“Il portavoce del primo ministro israeliano ha appena confermato che bambini e neonati sono stati trovati decapitati a Kfar Aza, nel sud di Israele, dopo gli attacchi di Hamas nel kibbutz durante il fine settimana. Ciò è stato confermato dall’ufficio del primo ministro.”

Sidner ha definito l’affermazione “indicibilmente sconvolgente.”

“Per le famiglie che ascoltano, per il popolo di Israele, per chiunque sia un genitore, chi ami i bambini, non so come si possa sopportare tutto ciò,” ha affermato.

Sidner poi ha detto a un reporter della CNN a Gerusalemme, Hadas Gold, che la decapitazione dei bambini avrebbe reso impossibile a Israele fare la pace con Hamas.

Gold ha replicato: “Come puoi farlo quando hai a che fare con gente che farebbe simili atrocità a dei bambini, dei neonati, dei bimbi?”

Gold, che faceva parte del gruppo SecondEyes che approva i reportage, ha di nuovo detto che le notizie erano state confermate dall’ufficio di Netanyahu e lei ha fatto un parallelo con l’Olocausto. Ha risposto alla smentita di Hamas di aver decapitato bambini come incredibile “quando abbiamo letteralmente dei video di questi ragazzi, di questi miliziani, di questi terroristi che fanno esattamente quello che dicono di non aver fatto a civili e a bambini.”

Solo che, come ha evidenziato un giornalista della CNN, né la rete, né, a quanto pare, nessun altro hanno tali video.

“Il problema è che, ancora una volta, la versione del governo israeliano sugli avvenimenti è stata accolta in modo emotivo senza una verifica da parte di qualcuno che si suppone sia un giornalista neutrale,” afferma.

Al momento della trasmissione di Sidner c’erano già buone ragioni perché la CNN trattasse le affermazioni [israeliane] con cautela.

Giornalisti israeliani che si erano recati a Kfar Aza il giorno prima avevano detto di non aver visto prove di tale crimine e fonti ufficiali dell’esercito non ne avevano fatto menzione. Tim Langmaid, vicepresidente della CNN di Atlanta e importante direttore editoriale, ha inviato un’indicazione in base alla quale le affermazioni del presidente Biden di aver visto foto delle presunte atrocità “confermano quanto detto dal governo israeliano.”

Anche se gli interrogativi stavano aumentando, Langmaid ha inviato una nota in cui diceva: “È importante informare sulle atrocità degli attacchi di Hamas e sulla guerra appena li apprendiamo.”

Fonti interne della CNN sostengono che i caporedattori avrebbero dovuto trattare fin dall’inizio la vicenda con cautela, perché l’esercito israeliano ha una lunga storia di affermazioni false o esagerate che in seguito sono state smentite.

Altre reti, come Sky News, sono state sensibilmente più scettiche nei loro reportage e hanno delineato le vaghe origini della vicenda, iniziata con una giornalista di un canale di notizie israeliano secondo cui alcuni soldati le avevano raccontato che 40 bambini erano stati uccisi nel massacro di Hamas e che un soldato aveva detto di aver visto “corpi di bimbi con la testa tagliata”. L’esercito israeliano ha poi utilizzato la notizia per paragonare Hamas allo Stato Islamico.

Persino dopo che la Casa Bianca ha ammesso che né il presidente né i suoi funzionari avevano visto foto di bambini decapitati e che si erano basati su affermazioni degli israeliani, Langmaid ha detto alla redazione che avrebbe potuto ancora raccontare le asserzioni del governo israeliano insieme alla smentita di Hamas.

La CNN ha informato del ritiro delle accuse quando fonti ufficiali israeliane le hanno smentite, ma un redattore sostiene che ormai il danno era stato fatto, descrivendo la copertura un fallimento giornalistico.

“L’infame affermazione sui ‘bambini decapitati’ attribuita al governo israeliano, è andata in onda per circa 18 ore, persino dopo che la Casa Bianca aveva fatto marcia indietro sul comunicato di Biden secondo cui aveva visto foto inesistenti. La CNN non aveva avuto accesso a prove fotografiche né alla possibilità di verificare in modo indipendente queste affermazioni,” dice.

Un portavoce della CNN ha sostenuto che la rete ha informato in modo accurato quello che era stato detto all’epoca.

“Nei nostri notiziari abbiamo fatto molta attenzione ad attribuire queste affermazioni e abbiamo anche emanato linee guida molto specifiche a questo scopo,” ha detto.

Alcuni redattori della CNN hanno sollevato questioni simili riguardo alle informazioni sui tunnel di Hamas a Gaza e alle affermazioni secondo cui essi portano a un esteso centro di comando sotto l’ospedale al-Shifa.

Fonti interne dicono che alcuni giornalisti hanno respinto le imposizioni. Uno ha indicato Jomana Karadsheh, corrispondente da Londra con una lunga esperienza di inviata in Medio Oriente.

“Jomana ha molto insistito per mettere in evidenza le vittime palestinesi di questa guerra e ha avuto un certo successo. Ha fatto alcuni reportage molto importanti per umanizzare tutto ciò e analizzare le azioni e le intenzioni di Israele. Ma non penso che sia stato facile per lei. Questi servizi non hanno la visibilità che meritano,” ha affermato un giornalista.

L’impulso per un’informazione più equilibrata è stato complicato dal divieto israeliano di ingresso dei giornalisti a Gaza, salvo che sotto il controllo e la censura dell’esercito israeliano. Ciò ha contribuito a tenere fuori dalla CNN e da altri canali l’impatto complessivo della guerra sui palestinesi, garantendo nel contempo che ci sia un’attenzione costante al punto di vista israeliano.

Un portavoce della CNN ha negato le accuse di parzialità: “Le nostre notizie, comprese alcune delle nostre inchieste, interviste e reportage più dettagliate e di spicco, hanno messo a confronto la risposta di Israele agli attacchi” ha affermato.

La CNN dovette far fronte a simili accuse di parzialità in seguito agli attacchi dell’11 settembre del 2001, quando il direttore della rete, Walter Isaacson, ordinò che i reportage sull’uccisione di civili afghani da parte delle forze USA fossero controbilanciati dalla condanna dei talebani per i loro rapporti con al-Qaeda.

“Poiché abbiamo buoni reportage dall’Afghanistan controllato dai talebani, dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi per essere sicuri che non sembri che stiamo informando semplicemente a loro favore o dal loro punto di vista. Dobbiamo parlare di come i talebani stanno usando scudi umani e come hanno ospitato i terroristi responsabili dell’uccisione di quasi 5.000 persone innocenti,” scrisse in una nota, secondo il Washington Post.

Alcuni redattori affermano che dopo le prime settimane in cui la CNN ha informato sull’attacco di Hamas “come se fosse l’11 settembre”, è aumentato lo spazio dedicato al punto di vista palestinese, dato il crescente numero di morti e distruzioni dell’attacco di rappresaglia israeliano contro Gaza.

L’unico giornalista straniero a informare da Gaza senza essere accompagnato dagli israeliani è stata Clarissa Ward della CNN, che è entrata per due ore con una squadra di soccorso umanitario degli Emirati Arabi Uniti.

La settimana scorsa sul Washington Post Ward ha riconosciuto le difficoltà. Ha scritto che il suo reportage da Israele le ha consentito “di creare un’immagine vivida delle mostruosità del 7 ottobre”, ma le è stato impedito di tramettere un’immagine più completa della tragedia in corso a Gaza a causa del blocco israeliano contro i giornalisti stranieri, lasciandone l’onere solo a un numero limitato di coraggiosi giornalisti palestinesi che sono stati uccisi in numero spropositato.

“Ora dobbiamo poter raccontare allo stesso modo le terribili morti e distruzioni inflitte a Gaza, sul terreno, in modo indipendente, in mezzo a uno dei bombardamenti più intensi nella storia delle guerre moderne,” ha scritto.

“Nei media israeliani la risposta ai nostri racconti su Gaza suggerisce una ragione indicibile per negarci l’accesso. Quando ha risposto in onda riguardo a un nostro pezzo, un giornalista del Canale 13 israeliano ha replicato: ‘Se veramente i reporter occidentali iniziano a entrare a Gaza ciò sarà di certo un grave grattacapo per Israele e per la sua hasbara.’ Hasbara è una parola ebraica per propaganda a favore di Israele.”

Qualcuno alla CNN teme che l’informazione sull’ultima guerra a Gaza stia danneggiando una reputazione costruita sul modo in cui ha raccontato l’invasione russa dell’Ucraina, che ha portato a un aumento degli spettatori. Ma altri affermano che la guerra in Ucraina deve essere parte del problema, perché le regole redazionali sono diventate meno accurate in quanto, soprattutto all’inizio del conflitto, la rete e molti dei suoi giornalisti si sono identificati chiaramente con una parte: l’Ucraina.

Un membro della redazione della CNN afferma che l’informazione sull’Ucraina ha definito un pericoloso precedente che si è ritorto contro la rete, perché il conflitto israelo-palestinese è molto più divisivo e le opinioni sono molto più profondamente radicate.

“La trascuratezza nella qualità della nostra informazione e dell’integrità giornalistica raccontando dell’Ucraina si è ritorta contro di noi. Solo che stavolta la posta in gioco è più alta e le conseguenze molto più gravi. La scarsa serietà giornalistica è una pillola più facile da far ingoiare al mondo quando si tratta di vite arabe perse invece che europee,” dice.

Un altro dipendente della CNN sostiene che il doppio standard sia lampante.

“Ci va bene essere inseriti nell’esercito israeliano, produrre reportage censurati dall’esercito, ma non possiamo parlare dell’organizzazione che, ci piaccia o meno, ha vinto la maggioranza dei voti a Gaza. Agli spettatori della CNN è stato impedito di sentire [la voce di] un attore fondamentale di questa vicenda,” afferma.

“Non è giornalismo dire che non vogliamo parlare con qualcuno perché non ci piace quello che fa. La CNN ha parlato con un sacco di terroristi e nemici dell’America nel corso degli anni. Abbiamo intervistato Muammar Gheddafi, persino Osama bin Laden. Quindi cosa c’è di diverso questa volta?”

Anni di pressioni

I giornalisti che lavorano alla CNN danno varie spiegazioni.

Alcuni dicono che il problema deriva da anni di pressioni da parte del governo israeliano e delle organizzazioni che lo appoggiano negli USA, insieme al timore di perdere inserzioni pubblicitarie.

Durante la lotta per la narrazione della Seconda Intifada palestinese all’inizio degli anni 2000 l’allora ministro delle Comunicazioni, Reuven Rivlin, chiamò la CNN “il male, di parte e sbilanciata.” Il Jerusalem Post paragonò l’inviata della rete in città, Sheila MacVicar, alla “donna che metteva la carta igienica nel gabinetto di Goebbels.”

Il fondatore della CNN, Ted Turner, scatenò una bufera nel 2002 quando disse a The Guardian che Israele stava commettendo atti terroristici contro i palestinesi.

“I palestinesi stanno lottando con attentatori suicidi, è tutto quello che hanno. Gli israeliani… hanno una delle macchine da guerra più potenti al mondo. I palestinesi non hanno niente. Quindi chi sono i terroristi? Io sosterrei che entrambe le parti sono coinvolte nel terrorismo,” disse Turner, che allora era il vicepresidente di AOL Time Warner, proprietaria della CNN.

La tempesta di proteste che ne derivò diede come risultato minacce per le entrate della rete, tra cui iniziative delle compagnie israeliane di televisione via cavo, che la sostituirono con Fox News.

Il presidente della CNN, Walter Isaacson, apparve sulla televisione israeliana denunciando Turner, ma ciò non ridusse le critiche. L’allora responsabile esecutivo delle notizie, Eason Jordan, impose una nuova regola secondo cui la CNN non avrebbe più mostrato dichiarazioni degli attentatori suicidi o interviste ai loro parenti e volò in Israele per placare la bufera.

La CNN iniziò anche a mandare in onda una serie sulle vittime degli attentatori suicidi palestinesi. La rete insistette che l’iniziativa non era una risposta alle pressioni, ma alcuni dei suoi giornalisti erano scettici. La CNN non produsse una serie simile sui parenti dei palestinesi innocenti uccisi da Israele nei bombardamenti.

Nel 2021 l’editorialista per la CNN della Columbia Journalism Review [semestrale per giornalisti professionisti che ne monitora il lavoro, ndt.], Ariana Pekary, accusò la rete di escludere dall’informazione le voci dei palestinesi e il contesto storico.

Anche Thompson ha le sue cicatrici di guerra dovute ai rapporti con politici israeliani quando era direttore generale della BBC vent’anni fa.

Nella primavera del 2005 la BBC venne invischiata in un incidente diplomatico riguardo a un’intervista con chi aveva svelato che Israele aveva la bomba nucleare, Mordechai Vanunu, che era stato rilasciato dal carcere l’anno prima.

Le autorità israeliane avevano vietato a Vanunu di rilasciare interviste. Quando un’equipe documentaristica della BBC parlò con lui e poi fece uscire di nascosto le riprese da Israele, le autorità reagirono espellendo in pratica il direttore ad interim dell’ufficio della BBC a Gerusalemme, Simon Wilson, che non aveva niente a che fare con l’intervista.

La disputa andò avanti per mesi, finché la BBC si inchinò alla richiesta israeliana che Wilson scrivesse una lettera di scuse prima di poter tornare a Gerusalemme. La lettera, che includeva un impegno ad “obbedire in futuro alle regole”, avrebbe dovuto rimanere riservata, ma involontariamente la BBC mise in rete dei dettagli prima di cancellarli qualche ora dopo. Il dietrofront fece infuriare alcuni giornalisti della BBC, che stavano resistendo a continue pressioni e abusi a causa del loro lavoro.

In seguito quell’anno Thompson visitò Gerusalemme e incontrò il primo ministro israeliano Ariel Sharon nel tentativo di migliorare le relazioni dopo altri incidenti.

Il governo israeliano era particolarmente scontento della corrispondente molto esperta della BBC da Gerusalemme, Orla Guerin. Il ministro israeliano per gli Affari della Diaspora dell’epoca, Natan Sharansky, la accusò di antisemitismo e di “totale identificazione con gli obiettivi e i metodi dei gruppi terroristici palestinesi” dopo un servizio di Guerin sull’arresto di un ragazzo palestinese sedicenne che portava esplosivi. Accusò i funzionari israeliani di aver trasformato l’arresto in un’opportunità propagandistica perché “avevano fatto sfilare il ragazzo davanti ai media internazionali” dopo averlo obbligato ad aspettare a un checkpoint l’arrivo dei fotografi.

Dopo qualche giorno dall’incontro di Thompson con Sharon la BBC annunciò che Guerin avrebbe lasciato Gerusalemme. All’epoca l’ufficio di Thompson negò di aver agito sotto pressione di Israele e disse che Guerin aveva terminato un incarico più lungo del solito.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Abbiamo uno strumento per fermare i crimini di guerra di Israele: il BDS

Naomi Klein

10 gennaio 2024 – The Guardian

Nel 2005 i palestinesi hanno chiesto al mondo di boicottare Israele finché non rispetterà il diritto internazionale. Cosa sarebbe successo se li avessimo ascoltati?

Questa settimana, esattamente 15 anni fa, pubblicai un articolo su The Guardian. Iniziava così: “È ora. Da molto tempo. La miglior strategia per porre fine alla sempre più sanguinosa occupazione è che Israele diventi il bersaglio del tipo di movimento globale che ha posto termine all’apartheid in Sudafrica. Nel luglio 2005 una grande coalizione di organizzazioni palestinesi ha presentato un piano per fare proprio questo. Hanno chiesto alle persone di coscienza in tutto il mondo di imporre un boicottaggio generale e mettere in atto iniziative di disinvestimento contro Israele simili a quelle applicate al Sudafrica dell’era dell’apartheid. Era nata la campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni.”

Nel gennaio 2009 Israele scatenò una nuova fase sconvolgente di omicidi di massa nella Striscia di Gaza, denominando la sua feroce campagna di bombardamenti operazione “Piombo fuso”. Uccise 1.400 palestinesi in 22 giorni; il numero di vittime israeliane fu di 13. Questa per me fu la goccia che fece traboccare il vaso, e dopo anni di reticenza mi espressi pubblicamente a favore dell’appello guidato dai palestinesi per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele, noto come BDS, finché non rispetterà le leggi internazionali e i principi universali dei diritti umani.

Nonostante il BDS avesse l’appoggio di più di 170 organizzazioni della società civile palestinese, a livello internazionale il movimento era ancora piccolo. Durante l’operazione Piombo fuso iniziò a cambiare, e vi aderì un crescente numero di associazioni studentesche e sindacati fuori dalla Palestina aderirono.

Però molti non lo fecero. Capivo perché questa tattica veniva percepita come problematica. C’è una lunga e penosa storia di attività economiche e istituzioni ebraiche prese di mira da antisemiti. Gli esperti in comunicazione che fanno pressione a favore di Israele sanno utilizzare questo trauma come arma, quindi etichettano invariabilmente campagne intese a combattere le politiche discriminatorie e violente di Israele come attacchi di odio verso gli ebrei in quanto gruppo identitario.

Per vent’anni il timore diffuso che deriva da questa falsa equazione ha protetto Israele dal dover affrontare tutto il potenziale di un movimento BDS, e ora, mentre la Corte Internazionale di Giustizia può ascoltare la devastante raccolta di prove del Sudafrica sul fatto che Israele sta commettendo il crimine di genocidio a Gaza, è più che sufficiente.

Dal boicottaggio degli autobus al disinvestimento sui combustibili fossili, le tattiche BDS hanno una storia ben documentata come l’arma più efficace dell’arsenale non-violento. Accoglierle e utilizzarle in questo momento di svolta per l’umanità è un obbligo morale.

La responsabilità è particolarmente grave per quanti di noi i cui governi continuano ad aiutare attivamente Israele con armi letali, lucrosi accordi commerciali e veti alle Nazioni Unite. Come ci ricorda il BDS, non dobbiamo consentire che questi accordi fallimentari parlino per noi senza contrastarli.

Gruppi di consumatori organizzati hanno il potere di boicottare imprese che investono nelle colonie illegali o riforniscono Israele di armi. I sindacati possono spingere i loro fondi pensione a disinvestire da queste imprese. Governi locali possono selezionare i fornitori in base a criteri etici che vietano questi rapporti. Come ci ricorda Omar Barghouti, uno dei fondatori e dirigenti del movimento BDS, “il più profondo obbligo etico in questi tempi è agire per porre fine alla complicità. Solo così possiamo realmente sperare di porre fine all’oppressione e alla violenza.”

In questo modo il BDS merita di essere visto come la politica estera del popolo, o la diplomazia dal basso, e se questa è sufficientemente forte obbligherà finalmente i governi ad imporre sanzioni dall’alto, come il Sudafrica sta cercando di fare. Che è chiaramente l’unica forza che può far cambiare rotta a Israele.

Barghouti sottolinea che, proprio come alcuni sudafricani bianchi hanno appoggiato le campagne contro l’apartheid durante quella lunga lotta, gli ebrei israeliani che si oppongono alle sistematiche violazioni del diritto internazionale da parte del loro Paese sono benvenuti nel BDS. Durante Piombo fuso un gruppo di circa 500 israeliani, molti dei quali importanti artisti e studiosi, fecero proprio questo, chiamando in seguito il loro gruppo Boicottaggio dall’interno.

Nel mio articolo del 2009 citavo la loro prima lettera per fare pressione, che chiedeva “l’adozione di immediate misure restrittive e sanzioni” contro il loro stesso Paese e faceva un parallelo diretto con la lotta sudafricana contro l’apartheid. “Il boicottaggio contro il Sudafrica è stato efficace,” sottolineavano, affermando che aveva contribuito a porre fine alla legalizzazione della discriminazione e ghettizzazione in quel Paese e aggiungendo: “Ma Israele è trattato con i guanti… Questo sostegno internazionale deve finire.”

Ciò era vero 15 anni fa; lo è in modo devastante oggi.

Il prezzo dell’impunità

Leggendo i documenti del BDS dalla metà alla fine degli anni 2000, sono rimasta molto colpita da quanto il contesto politico e umano si sia deteriorato. Negli anni successivi Israele ha costruito più muri, ha eretto più checkpoint, ha scatenato più coloni illegali e lanciato guerre molto più letali. Tutto è peggiorato: il veleno il livore, la rabbia, la convinzione di essere nel giusto, di aver ragione.

Chiaramente l’impunità, il senso di impenetrabilità e intangibilità che è alla base del modo in cui Israele tratta i palestinesi, non è una forza statica. Si comporta piuttosto come una fuoriuscita di petrolio: una volta rilasciata, filtra all’esterno, avvelenando tutto e tutti sul suo cammino. Si allarga e scende in profondità.

Da quando, nel luglio 2005, è stato scritto il primo appello per il BDS il numero di coloni che vivono illegalmente in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, è esploso, raggiungendo il numero stimato di 700.000, vicino a quello dei palestinesi espulsi nella Nakba del 1948. Come gli avamposti coloniali si sono estesi, così ha fatto la violenza degli attacchi dei coloni contro i palestinesi, tutto ciò mentre l’ideologia della supremazia ebraica e persino il fascismo esplicito si sono posti al centro della cultura politica israeliana.

Quando ho scritto il mio primo articolo sul BDS l’opinione assolutamente predominante era che l’analogia con il Sudafrica fosse scorretta e che la parola “apartheid”, che veniva usata da giuristi, attivisti e organizzazioni per i diritti umani palestinesi, fosse inutilmente provocatoria. Ora chiunque, da Humar Rights Watch ad Amnesty International, fino alla principale associazione israeliana per i diritti umani, B’Tselem, hanno fatto le loro attente analisi e sono arrivati alla inevitabile conclusione che apartheid è effettivamente il termine giuridico corretto per descrivere le condizioni sotto le quali israeliani e palestinesi conducono vite nettamente diseguali e segregate. Persino Tamir Pardo, ex-capo dell’agenzia di intelligence, il Mossad, ha ammesso il problema: “Qui c’è uno stato di apartheid,” ha affermato a settembre. “In un territorio in cui due popoli sono giudicati con due sistemi legali diversi, c’è uno stato di apartheid.”

Oltretutto molti adesso comprendono che l’apartheid esiste non solo nei territori occupati, ma all’interno dei confini di Israele del 1948, una questione esposta in un importante rapporto del 2022 dalla coalizione di associazioni palestinesi per i diritti umani riunita da Al-Haq [ong palestinese, ndt.]. È difficile sostenere il contrario quando l’attuale governo israeliano di estrema destra è arrivato al potere con un accordo di coalizione che afferma: “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le zone della Terra di Israele…la Galilea, il Negev, il Golan, Giudea e Samaria.” Quando regna l’impunità, tutto cambia e si muove, comprese le frontiere coloniali. Niente rimane statico.

Poi c’è Gaza. All’epoca il numero dei palestinesi uccisi nell’operazione Piombo fuso sembrava inimmaginabile. Abbiamo rapidamente imparato che non si trattava di un caso isolato. Diede invece inizio a una nuova politica omicida a cui i comandanti militari israeliani si riferiscono con noncuranza come “tagliare l’erba”: ogni due anni c’è stata una nuova campagna di bombardamenti, con l’uccisione di centinaia di palestinesi o, nel caso dell’operazione Margine protettivo del 2014, più di 2.000, tra cui 526 minori.

Questi dati scioccarono di nuovo e scatenarono un’altra ondata di proteste. Non fu ancora sufficiente a porre fine all’impunità di Israele, che ha continuato ad essere protetto dal solido veto degli USA all’ONU, oltre che dal costante afflusso di armi. Ancor più distruttivi della mancanza di sanzioni internazionali sono state le ricompense: negli ultimi anni, insieme a tutta questa impunità, Washinton ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e poi vi ha spostato l’ambasciata. Ha anche mediato i cosiddetti accordi di Abramo, che hanno avviato intese di normalizzazione tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Sudan e il Marocco.

È stato Donald Trump che ha iniziato a ricoprire Israele di questi ultimi regali a lungo cercati, ma il processo è continuato allo stesso modo con Joe Biden. Così, alla vigilia del 7 ottobre, Israele e Arabia Saudita stavano per firmare quello che è stato frivolmente acclamato come “l’accordo del secolo”.

Dov’erano i diritti e le aspirazioni dei palestinesi in tutti questi accordi? Assolutamente da nessuna parte. Perché l’altra cosa che è cambiata in questi anni di impunità è stata ogni scusa che Israele intendeva per tornare al tavolo dei negoziati. L’evidente obiettivo è stato reprimere con la forza, insieme all’isolamento fisico e politico e alla frammentazione, il movimento dei palestinesi per l’autodeterminazione.

Sappiamo come sono andati a finire i successivi capitoli di questa storia. L’orripilante attacco di Hamas il 7 ottobre. La furibonda determinazione israeliana di sfruttare quei crimini per fare quello che alcuni importanti dirigenti del governo volevano fare comunque da molto tempo: spopolare Gaza dei palestinesi, che attualmente sembrano cercare di fare attraverso la combinazione di uccisioni dirette, demolizione massiccia di case (“domicidio”), la diffusione di fame, sete e malattie infettive e infine espulsioni di massa.

Sia chiaro: questo è il risultato di consentire a uno Stato di fare tutto quello che vuole, lasciare che l’impunità regni senza controllo per decenni, utilizzando i veri traumi collettivi patiti dal popolo ebraico come scusa senza fine e storia di copertura. Un’impunità come questa non inghiottirà solo un Paese, ma ogni Paese con cui è alleato, l’intera architettura del diritto umanitario forgiato tra le fiammo dell’Olocausto nazista. Se lo consentiamo.

Un decennio di attacchi giudiziari contro il BDS

Il che pone un’altra questione che non è rimasta costante nel corso degli ultimi 20 anni: la crescente ossessione israeliana per reprimere il BDS, anche a costo di diritti politici faticosamente conquistati. Nel 2009 c’erano molti argomenti di chi criticava il BDS sul perché fosse una cattiva idea. Alcuni temevano che il boicottaggio culturale e accademico avrebbe bloccato il necessario dialogo con i progressisti israeliani e che si sarebbe trasformato in censura. Altri sostenevano che misure punitive avrebbero creato una reazione e spostato Israele ancora più a destra.

Quindi, ripensandoci adesso, è sorprendente che queste discussioni iniziali siano sostanzialmente sparite dalla sfera pubblica, e non perché una parte abbia vinto il dibattito. Sono scomparse perché la stessa idea di discuterne è stata sostituita da una strategia totalizzante: utilizzare l’intimidazione giudiziaria e istituzionale per rendere impraticabili le tattiche del BDS e bloccare il movimento.

Secondo Palestine Legal [gruppo di difesa giudiziaria con sede a Chicago, ndt.], che ha monitorato da vicino questa impennata, ad oggi negli Stati Uniti sono state istituite in totale 293 leggi anti-BDS in tutto il Paese, e sono state approvate in 38 Stati. Spiega che alcune leggi prendono di mira i finanziamenti alle università, altre prevedono che chiunque vinca un appalto con uno Stato o lavori per esso firmi un contratto in cui si impegna a non boicottare Israele, e altre ancora “chiedono allo Stato di compilare liste nere pubbliche di organizzazioni che fanno boicottaggio a favore dei diritti dei palestinesi o appoggiano il BDS.” Nel contempo in Germania il sostegno ad ogni forma di BDS è sufficiente perché vengano revocati premi, tolti finanziamenti, spettacoli e conferenze vengano annullati (una cosa che ho potuto sperimentare di persona).

Non sorprende che questa strategia sia ancora più aggressiva all’interno di Israele. Nel 2011 il Paese ha emanato la legge per la Prevenzione dei Danni per lo Stato di Israele attraverso il Boicottaggio, stroncando efficacemente fin dai suoi inizi il nascente movimento “Boicottaggio dall’interno”. Il centro legale Adalah, un’organizzazione che lavora per i diritti della minoranza araba in Israele, spiega che la legge “vieta la promozione pubblica del boicottaggio accademico, economico o culturale da parte di cittadini e organizzazioni israeliani contro istituzioni israeliane o contro le illegali colonie israeliane in Cisgiordania. Consente di presentare denunce giudiziarie contro chiunque chieda il boicottaggio.” Come le leggi a livello statale negli USA, “proibisce anche a una persona che sostenga il boicottaggio di partecipare a gare di appalto pubbliche.” Nel 2017 Israele ha iniziato a impedire l’ingresso in Israele ad attivisti del BDS; 20 associazioni internazionali, compresa la coraggiosa [organizzazione] contro la guerra Jewish Voice for Peace, sono state messe sulla cosiddetta lista nera BDS.

Nel contempo negli USA lobbisti a favore delle imprese energetiche e dei fabbricanti di armi stanno prendendo spunto dall’offensiva giudiziaria contro il BDS e propugnano leggi fotocopia per limitare campagne di disinvestimento rivolte ai loro clienti. “Ciò spiega perché sia così pericoloso consentire questo tipo di eccezione palestinese alla [libertà di] parola,” ha detto alla rivista Jewish Currents Meera Shah, importante avvocatessa che fa parte di Palestine Legal. “Perché non danneggia solo il movimento per i diritti dei palestinesi, di fatto colpisce anche altri movimenti sociali.” Ancora una volta niente rimane fermo, l’impunità si estende e quando i diritti al boicottaggio e al disinvestimento vengono tolti alla solidarietà per la Palestina, si cancella anche il diritto di utilizzare questi stessi strumenti per sostenere l’attivismo contro i cambiamenti climatici, per il controllo delle armi e per i diritti LGBTQ+.

In un certo senso questo è un vantaggio, perché rappresenta un’opportunità di rafforzare alleanze tra movimenti. Ogni importante organizzazione e sindacato progressista ha interesse a proteggere il diritto al boicottaggio e al disinvestimento come principio fondamentale della libertà di espressione e strumento critico di trasformazione sociale. La piccola squadra di Palestine Legal ha guidato in modo straordinario l’opposizione negli USA avviando procedimenti giudiziari contro le leggi anti-BDS in quanto anticostituzionali e appoggiando le cause di altri. Meritano un sostegno molto maggiore.

È finalmente il momento del BDS?

C’è un altro motivo per essere fiduciosi: la ragione per cui Israele perseguita il BDS con tanta ferocia è la stessa per cui così tanti attivisti hanno continuato a credere in esso nonostante questi attacchi su più fronti. Perché può funzionare.

Lo abbiamo visto quando imprese multinazionali si ritirarono dal Sudafrica negli anni ‘80. Non fu perché vennero improvvisamente colpite da una rivelazione morale antirazzista. Piuttosto, dato che il movimento era diventato internazionale e le campagne di boicottaggio e disinvestimento iniziavano a influenzare la vendita di auto e i clienti delle banche fuori dal Paese, queste imprese ritennero che a loro sarebbe costato di più rimanere in Sudafrica che andarsene. I governi occidentali iniziarono tardivamente a imporre sanzioni per le stesse ragioni.

Ciò danneggiò il settore commerciale sudafricano, parte del quale mise sotto pressione il governo dell’apartheid perché facesse concessioni ai movimenti per la liberazione dei neri che si erano ribellati per decenni contro l’apartheid con rivolte, scioperi di massa e la resistenza armata. I costi di mantenere il crudele e violento status quo stavano crescendo sempre di più anche per l’élite sudafricana.

Alla fine degli anni ‘80 la tenaglia della pressione dall’esterno e dall’interno crebbe tanto che il presidente F. W. de Klerk fu obbligato a liberare Nelson Mandela dal carcere dopo 27 anni e poi a tenere elezioni democratiche, che portarono Mandela alla presidenza.

Le organizzazioni palestinesi che hanno tenuto viva la fiamma del BDS attraverso alcuni anni molto cupi sperano ancora nel modello sudafricano di pressioni dall’esterno. Infatti, mentre Israele perfeziona l’architettura e la progettazione della ghettizzazione e dell’espulsione, esso potrebbe essere l’unica speranza.

Ciò a causa del fatto che Israele è decisamente meno sensibile alla pressione interna da parte dei palestinesi di quanto lo fossero i sudafricani bianchi sotto l’apartheid, che dipendevano dalla manodopera dei neri per tutto, dal lavoro domestico alle miniere di diamanti. Quando i sudafricani neri si rifiutarono di lavorare o si impegnarono in altre forme di danneggiamento dell’economia, ciò non poté essere ignorato.

Israele ha imparato dalla vulnerabilità del Sudafrica; dagli anni ‘90 si è progressivamente ridotta la sua dipendenza dal lavoro dei palestinesi, soprattutto grazie ai cosiddetti lavoratori ospiti e all’ingresso di circa un milione di ebrei dall’ex Unione Sovietica. Ciò ha contribuito a rendere possibile per Israele passare dal modello di oppressione dell’occupazione all’attuale modello di ghettizzazione, che cerca di far sparire i palestinesi dietro a imponenti muri con sensori ad alta tecnologia e il molto decantato sistema di difesa aerea israeliana Iron Dome.

Ma questo modello, chiamiamola bolla fortificata, porta con sé vulnerabilità, e non solo per gli attacchi di Hamas. La vulnerabilità più strutturale deriva dall’estrema dipendenza di Israele dal commercio con l’Europa e il Nord America per tutto, dal suo settore turistico a quello tecnologico per la sorveglianza basato sull’intelligenza artificiale. Il marchio che Israele ha forgiato per se stesso è quello di un aggressivo, moderno avamposto occidentale nel deserto, una piccola bolla di San Francisco o Berlino che casualmente si è ritrovato nel mondo arabo.

Ciò lo rende straordinariamente suscettibile solamente alle azioni del BDS, compreso il boicottaggio culturale e accademico. Perché quando popstar che vogliono evitare polemiche cancellano le loro date a Tel Aviv, prestigiose università USA interrompono la loro collaborazione con quelle israeliane dopo aver assistito alla distruzione di varie scuole e università palestinesi e il bel mondo non sceglie più Eilat per le proprie vacanze perché i follower su Instagram non ne rimangono impressionati, ciò danneggia tutto il modello economico israeliano e la sua autorappresentazione.

Ciò metterà pressione dove i dirigenti israeliani oggi sono poco sensibili. Se le imprese internazionali di alta tecnologia e di progettazione smetteranno di vendere prodotti e servizi all’esercito israeliano, ciò aumenterà ancor di più la pressione, forse abbastanza da cambiare le dinamiche della politica. Gli israeliani vogliono disperatamente far parte della comunità mondiale, e se si troveranno improvvisamente isolati molti più elettori potranno iniziare a chiedere alcune delle azioni che gli attuali dirigenti israeliani scartano immediatamente, come negoziare con i palestinesi per una pace duratura radicata nella giustizia e nell’uguaglianza, come definita dalle leggi internazionali, piuttosto che cercare di proteggere la bolla fortificata con fosforo bianco e pulizia etnica.

Ovviamente il nodo è che, perché le tattiche non violente del BDS funzionino, le vittorie non possono essere sporadiche o marginali. Devono essere sostanziali e diffuse, almeno quanto la campagna sudafricana, che vide importanti imprese come la General Motors e la banca Barclays ritirare i loro investimenti, mentre artisti molto popolari come Bruce Springsteen e Ringo Starr riunirono il supergruppo per antonomasia degli anni ‘80 per cantare a squarciagola “Non suonerò a Sun City”, un riferimento alla lussuosa e iconica località sudafricana.

Il movimento BDS che prende di mira l’ingiustizia israeliana è sicuramente cresciuto negli ultimi 15 anni. Barghouti stima che “i sindacati dei lavoratori e dei contadini, così come movimenti per la giustizia razziale, di genere e per il clima” che lo appoggiano “insieme rappresentino decine di milioni in tutto il mondo”. Ma il movimento deve ancora raggiungere un punto di svolta di livello sudafricano.

Tutto questo ha avuto un costo. Non c’è bisogno di essere uno storico delle lotte di liberazione per sapere che, quando tattiche con una base etica sono ignorate, emarginate, calunniate e bandite, altre tattiche, slegate da queste preoccupazioni etiche, diventano molto più interessanti per persone alla disperata ricerca di una qualunque speranza di cambiamento.

Non sapremo mai quanto avrebbe potuto essere diverso il presente se molte più persone, organizzazioni e governi avessero dato ascolto all’appello BDS fatto dalla società civile palestinese quando venne lanciato nel 2005. Qualche giorno fa, quando ho contattato Barghouti, non stava guardando indietro a 20, ma a 75 anni di impunità. Israele, ha detto, “non sarebbe stato in grado di perpetrare il suo continuo genocidio a Gaza mostrato in televisione senza la complicità con il suo sistema di oppressione di Stati, imprese e istituzioni.” La complicità, ha sottolineato, è qualcosa che abbiamo sempre il potere di rifiutare.

Una cosa è certa: le attuali atrocità a Gaza rafforzano drammaticamente la causa del boicottaggio, del disinvestimento e delle sanzioni. Le tattiche nonviolente, che molti hanno cancellato in quanto estremiste o nel timore di essere etichettati come antisemiti, appaiono in modo molto diverso attraverso la fosca luce di vent’anni di massacri, con nuove rovine sulle vecchie, nuovi dolori e traumi scolpiti nella psiche delle nuove generazioni e nuovi abissi di depravazione raggiunti sia a parole che nei fatti.

Domenica scorsa nel suo spettacolo finale su MSNBC [canale televisivo statunitense via cavo di notizie, ndt.] Mehdi Hasan ha intervistato il fotogiornalista palestinese di Gaza Motaz Azaiza, che rischia la vita ogni giorno per inviare al mondo le immagini delle uccisioni di massa da parte di Israele. Il suo messaggio agli spettatori statunitensi è stato netto: “Non definitevi persone libere se non potete fare cambiamenti, se non potete fermare un genocidio che è ancora in corso.”

In un momento come questo siamo quello che facciamo. Molta gente ha fatto più di quanto abbia mai fatto in pricedenza: bloccato l’invio di armi, occupato sedi del governo chiedendo un cessate il fuoco, partecipato a proteste di massa, detto la verità, per quanto difficile. La combinazione di queste azioni potrebbe aver contribuito allo sviluppo più significativo nella storia del BDS: il ricorso del Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) dell’Aia in cui accusa Israele di commettere un genocidio e chiede misure temporanee per fermare il suo attacco contro Gaza.

Una recente analisi del giornale israeliano Haaretz nota che, se la CIG sentenziasse a favore del Sudafrica, anche se gli USA ponessero il veto alle Nazioni Unite su un intervento militare, “un decreto ingiuntivo potrebbe dare come risultato che Israele e imprese israeliane vengano boicottate e sottoposte a sanzioni imposte da singoli Paesi o da gruppi di Nazioni.”

Nel contempo boicottaggi dal basso stanno già iniziando a farsi sentire. A dicembre Puma, uno dei principali bersagli del BDS, ha fatto sapere che porrà fine alla sua controversa sponsorizzazione della squadra nazionale di calcio israeliana. Prima di questo in Italia c’è stato un esodo di artisti da un importante festival del fumetto dopo che si è scoperto che l’ambasciata israeliana era tra gli sponsor.

E questo mese Chris Kempczinski, amministratore delegato di McDonald, ha scritto che quella che ha chiamato “disinformazione” stava avendo “un importante impatto economico” su alcune delle sue vendite in “vari mercati mediorientali e altri fuori dalla regione”. Si è trattato di un riferimento a un’ondata di indignazione scatenata dalla notizia secondo cui McDonald Israel aveva donato migliaia di pasti ai soldati israeliani. Kempczinski ha cercato di distanziare la marca internazionale da “gestori locali,” ma poche persone del movimento BDS sono state convinte da questa distinzione.

Mentre la spinta a favore del BDS continua ad aumentare, sarà fondamentale essere ben consapevoli che siamo nel bel mezzo di un’allarmante e concreta impennata di crimini d’odio, molti dei quali contro palestinesi e musulmani, ma anche contro attività economiche e istituzioni ebraiche solo per il fatto che sono tali. Questo è antisemitismo, non attivismo politico.

Il BDS è un movimento serio e non violento, con un modello organizzativo consolidato. Pur lasciando autonomia ai militanti locali per definire quali campagne funzioneranno nei loro territori, il Comitato Nazionale del BDS (BNC) stabilisce i principi guida del movimento e seleziona con cura come obiettivo un piccolo gruppo di imprese scelte “in base alla complicità da loro dimostrata con le violazioni dei diritti umani dei palestinesi da parte di Israele.”

Il BNC ha anche ben chiaro che non chiede il boicottaggio dei singoli israeliani in quanto tali, affermando di “rifiutare per principio il boicottaggio di singole persone in base alle loro opinioni o identità (come la cittadinanza, la razza, il genere o la religione)”. In altre parole i bersagli sono le istituzioni complici dei sistemi di oppressione, non le persone.

Nessun movimento è perfetto. Ogni movimento farà passi falsi. Ora tuttavia la questione più pressante ha poco a che vedere con la perfezione. È semplicemente questa: cosa ha maggiori possibilità di cambiare uno status quo moralmente intollerabile, fermando nel contempo ulteriore spargimento di sangue?  Gideon Levy, indomito giornalista di Haaretz, non si fa illusioni su quello che ci vorrà. Recentemente ha detto ad Owen Jones [editorialista inglese di sinistra, ndt.]: “La chiave è la comunità internazionale, intendo dire che Israele non cambierà da solo… La formula è molto semplice: finché gli israeliani non pagheranno e non verranno puniti per l’occupazione, non saranno chiamati a rendere conto di essa e non lo sentiranno nel quotidiano, non cambierà niente.”

È tardi

Nel luglio 2009, pochi mesi dopo che il mio primo articolo sul BDS era stato pubblicato, viaggiai a Gaza e in Cisgiordania. A Ramallah tenni una conferenza sulla mia decisione di appoggiare il BDS. Includeva scuse per non aver aggiunto prima la mia voce, cosa che confessai derivare dalla paura che la tattica fosse troppo estremista in quanto diretta contro uno Stato fondato sul trauma ebraico; paura che sarei stata accusata di tradire il mio popolo. Timori che ho ancora. “Meglio tardi che mai,” mi disse un membro del gentile pubblico dopo il discorso.

Allora era tardi; lo è ancora adesso. Ma non troppo tardi. Non troppo tardi perché tutti noi creiamo la nostra politica estera dal basso, che intervenga nella cultura e nell’economia in modo intelligente e strategico, che offra una speranza tangibile che finalmente siano finiti i decenni di impunità senza controllo di Israele.

Come ha chiesto la scorsa settimana il comitato nazionale del BDS: “Se non ora, quando? Il movimento sudafricano contro l’apartheid si organizzò per decenni per conquistare un vasto appoggio internazionale che portò alla caduta dell’apartheid, e l’apartheid crollò. La libertà è inevitabile. Ora è tempo di attivarsi per unirsi al movimento per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza in Palestina.”

Basta. È il momento di un boicottaggio.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Sospesa la cerimonia per l’attribuzione di un premio dopo che l’autrice ha paragonato Gaza ai ghetti ebraici dell’epoca nazista

Kate Connolly da Berlino

14 dicembre 2023 – The Guardian

La giornalista russo-statunitense Masha Gessen aveva vinto il premo tedesco Hannah Arendt per il pensiero politico

Una fondazione tedesca ha affermato che non consegnerà più il premio per il pensiero politico a un’importante giornalista russo-statunitense dopo aver criticato come “inaccettabile” un recente saggio dell’autrice in cui fa un paragone tra Gaza e un ghetto ebraico nella Germania occupata dai nazisti.

Venerdì Masha Gessen avrebbe dovuto ricevere il premio Hannah Arendt per il pensiero politico. Ma la cerimonia di premiazione ora non avrà luogo come previsto dopo che la Heinrich Böll Foundation (HBS), affiliata al partito dei Verdi, ha affermato di aver ritirato il proprio appoggio. L’HBS sostiene di aver preso questa decisione in accordo con il senato di Brema, la città portuale del nord in cui era previsto che avesse luogo la premiazione.

Secondo il giornale tedesco Die Zeit, che ha pubblicato la notizia, il premio sarà ancora assegnato a Gessen, ma “in un contesto diverso”, sabato e non venerdì. Non risulta ancora chiaro chi lo presenterà, cosa verrà consegnato e se Gessen e altri ospiti invitati pensano ancora di parteciparvi.

L’HBS ha affermato di dissentire e rifiutare il paragone tra Gaza e i ghetti ebraici in Europa fatto da Gessen in un saggio del 9 dicembre sul New Yorker [famosa rivista statunitense di sinistra, ndt.].

Nel saggio Gessen critica l’incondizionato appoggio tedesco a Israele, richiamando l’attenzione sulla risoluzione del Bundestag del 2019 che condanna come antisemita il movimento BDS per il boicottaggio di Israele e citando un ebreo critico con la politica della Germania sul ricordo dell’Olocausto, secondo il quale la cultura della memoria è “andata in tilt”.

Nel paragrafo che ha attirato l’attenzione della HBS Gessen scrive che “ghetto” sarebbe “il termine più appropriato” per descrivere Gaza, ma la parola “provocherebbe accese polemiche per il confronto tra la situazione dei gazawi assediati e quella degli ebrei rinchiusi in un ghetto. Ciò ci avrebbe anche dato il linguaggio per descrivere quello che sta succedendo ora a Gaza. Il ghetto viene liquidato.”

La fondazione afferma che Gessen ha sottinteso che Israele intenda “liquidare Gaza come un ghetto nazista,” aggiungendo che “questa affermazione è inaccettabile per noi e la rifiutiamo.”

Gessen è stata contattata dal Guardian per un commento.

Su X/Twitter ha scritto che nessun mezzo di comunicazione tedesco rappresentativo ha cercato di contattarla, nonostante giovedì la storia sia stata ampiamente raccontata sui media tedeschi.

La Heinrich Böll Foundation ha annunciato ad agosto che Gessen aveva vinto il premio in base a una decisione presa da una giuria indipendente. All’epoca essa ha affermato che “come analista del declino e della speranza, Gessen ha informato sui giochi di potere e le tendenze totalitarie così come sulla disobbedienza civile e l’amore per la libertà.”

Sostenitori di Gessen, che è ebrea e i cui nonni e bisnonni sono stati tra i membri della famiglia uccisi dai nazisti, hanno subito evidenziato l’ironia di sospendere un premio concesso in memoria di Arendt, storica, filosofa e teorica politica antitotalitaria ebrea-americana nata in Germania, che coniò la frase “la banalità del male” riguardo al processo contro l’importante nazista Adolf Eichmann, che lei raccontò come giornalista per The New Yorker.

Samantha Rose Hill, autrice del profilo di Hannah Arendt ed editrice della raccolta di poesie di Arendt, l’ha definito “un affronto alla memoria di Hannah Arendt. In base alla sua stessa logica, la Heinrich Böll Foundation dovrebbe cancellare del tutto il premio Hannah Arendt.”

Un altro accademico ha affermato che, in base alle ragioni fornite per questa decisione, “Hannah Arendt oggi in Germania non avrebbe ottenuto il premio Hannah Arendt.”

In un’intervista pubblicata martedì da Die Zeit Gessen ha parlato delle reazioni che Arendt dovette affrontare in quanto fu una delle prime a criticare Israele, mettendo in guarda contro la costituzione di uno Stato puramente ebraico in Palestina, di conseguenza con l’esclusione della popolazione araba.

In una lettera aperta scritta con Albert Einstein e altri intellettuali ebrei Arendt, sottolinea Gessen, paragonò persino il Partito della Libertà israeliano [partito della destra sionista, ndt.] ai nazisti dopo che aveva messo in atto violenze con motivazioni razziali contro civili.

“Sono consapevole che, soprattutto in Germania, questo tipo di paragone è subito visto come una relativizzazione dell’Olocausto. È per questo che è molto importante per me che una pensatrice così differenziata e intelligente come Arendt non abbia avuto timore a fare questo paragone,” ha detto Gessen al giornale.

In riferimento alle persone che in Germania sono sospettose nei confronti della sfida “alla logica della politica tedesca della memoria” per paura di essere accusate di antisemitismo, ha aggiunto: “Il problema è che queste critiche a Israele sono spesso viste come antisemite, che penso sia l’autentico scandalo antisemita. Ciò ignora il vero antisemitismo.”

In una lettera aperta pubblicata mercoledì la sezione di Brema della German-Israeli Society ha affermato che le dichiarazioni di Gessen hanno “chiarito che il premio avrebbe onorato una persona il cui pensiero è in evidente contrasto con quello di Hannah Arendt.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dirigo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. La storia ci giudicherà tutti se non ci sarà un cessate il fuoco a Gaza

Philippe Lazzarini

26 ottobre 2023-The Guardian

Philippe Lazzarini è commissario generale dell’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East)

Ormai da più di due settimane riceviamo da Gaza immagini insopportabili della tragedia dei suoi abitanti. Donne, bambini e anziani vengono uccisi, ospedali e scuole vengono bombardati, nessuno viene risparmiato. Mentre scrivo l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, ha già tragicamente perso 35 membri del suo personale, molti dei quali uccisi mentre erano nelle loro case con le loro famiglie.

Interi quartieri vengono rasi al suolo sulle teste dei civili in uno dei luoghi più sovraffollati della Terra. Le IDF [Forze di Difesa Israeliane, ndt.] hanno avvertito i palestinesi di Gaza di spostarsi nella parte meridionale della Striscia mentre bombardano il nord; ma i bombardamenti continuano anche al sud. Non c’è nessun posto sicuro a Gaza.

Quasi 600.000 persone trovano rifugio in 150 scuole e altri edifici dell’UNRWA dove sopravvivono in pessime condizioni igieniche, con poca acqua pulita, poco cibo e medicine. Le madri non sanno come pulire i propri figli. Le donne incinte pregano per non dover affrontare complicazioni durante il parto perché gli ospedali non hanno la capacità di accoglierle. Intere famiglie ora vivono nei nostri edifici perché non hanno nessun altro posto dove andare. Ma le nostre strutture non sono sicure: 40 edifici dell’UNRWA, tra cui scuole e magazzini, sono stati danneggiati dai bombardamenti. Molti civili che si sono rifugiati al loro interno sono stati tragicamente uccisi.

Gaza è stata descritta negli ultimi 15 anni come una grande prigione a cielo aperto, con un blocco aereo, marittimo e terrestre che soffoca 2,2 milioni di persone in un raggio di 365 kmq. La maggior parte dei giovani non ha mai lasciato Gaza. Oggi questa prigione sta diventando il cimitero di una popolazione intrappolata da guerra, assedio e mancanza di tutto.

Negli ultimi giorni frenetici negoziati ai massimi livelli hanno finalmente consentito l’ingresso nella Striscia di forniture umanitarie molto limitate. Anche se la svolta è benvenuta, questi camion rappresentano un rivolo piuttosto che il flusso di aiuti che una situazione umanitaria di questa portata richiede. Venti camion carichi di cibo e medicinali sono una goccia nell’oceano per i bisogni di oltre 2 milioni di civili. Il carburante, però, è stato fermamente negato a Gaza. Senza di esso non ci sarà alcuna risposta umanitaria, nessun aiuto potrà raggiungere le persone bisognose, nessuna elettricità per gli ospedali, niente acqua, niente pane.

Prima del 7 ottobre Gaza riceveva ogni giorno circa 500 camion di cibo e altre forniture, inclusi 45 camion di carburante per alimentare le auto della Striscia, gli impianti di desalinizzazione dell’acqua e i panifici. Oggi Gaza viene strangolata e i pochi convogli che stanno entrando non placheranno la consapevolezza della popolazione civile di essere stata abbandonata e sacrificata dal resto del mondo.

Il 7 ottobre Hamas ha commesso massacri indicibili di civili israeliani che potrebbero costituire crimini di guerra. L’ONU ha condannato questo atto orribile con la massima fermezza. Ma non vi può essere ombra di dubbio: ciò non giustifica i crimini in corso contro la popolazione civile di Gaza, un milione di bambini compresi.

La Carta delle Nazioni Unite e i nostri impegni sono un vincolo per la nostra comune umanità. I civili – ovunque si trovino – devono essere protetti allo stesso modo. I civili di Gaza non hanno scelto questa guerra. Le atrocità non dovrebbero essere seguite da altre atrocità. La risposta ai crimini di guerra non è altri crimini di guerra. Il quadro del diritto internazionale su questo punto è molto chiaro e ben consolidato.

Saranno necessari sforzi autentici e coraggiosi per affrontare le radici di questa situazione di stallo mortale e offrire opzioni politiche che siano praticabili e possano creare un ambiente di pace, stabilità e sicurezza. Fino ad allora dobbiamo assicurarci che le norme del diritto umanitario internazionale siano rispettate e che i civili siano risparmiati e protetti. È necessario attuare un cessate il fuoco umanitario immediato per consentire un accesso sicuro, continuo e senza restrizioni a carburante, medicine, acqua e cibo nella Striscia di Gaza.

Dag Hammarskjöld, il secondo segretario generale dell’ONU, una volta disse: “L’ONU non è stata creata per portarci in paradiso, ma per salvarci dall’inferno”. La realtà oggi a Gaza è che non è rimasta molta umanità e l’inferno sta prendendo il sopravvento.

Le generazioni a venire sapranno che abbiamo visto questa tragedia umana svolgersi sui social media e sui canali di notizie. Non potremo dire che non lo sapevamo. La storia si chiederà perché il mondo non ha avuto il coraggio di agire con decisione e fermare questo inferno sulla Terra.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)