In Germania l’antisemitismo è in aumento: quello di destra

Ali Abunimah

15 febbraio 2021 – Electronic Intifada

L’estrema destra tedesca è responsabile dell’aumento di episodi di antisemitismo e aggressioni contro musulmani e persone immigrate.

La polizia ha registrato un incremento degli incidenti di antisemitismo in Germania lo scorso anno.

Ma, contrariamente ai tentativi della lobby israeliana di incolpare i musulmani, la sinistra e il movimento di solidarietà con la Palestina, il fenomeno è originato quasi esclusivamente dalla destra.

La scorsa settimana il giornale Der Tagesspiegel [giornale più venduto a Berlino, ndtr.] ha informato che nel 2020 la polizia tedesca ha registrato 2.275 rapporti riguardanti episodi di antisemitismo, più di ogni altro anno dal 2001. Ciò include 55 delitti di violenza. I dati del 2020 rappresentano un incremento dell’11% rispetto all’anno precedente.

Eppure, nonostante il fatto che la polizia sia stata in grado di identificare quasi 1.400 sospetti, ci sono stati solo 5 arresti.

I dati sono stati forniti dal governo federale in risposta a un’interpellanza parlamentare da parte di Petra Pau, deputata di sinistra.

Più di 1.300 rapporti sono stati catalogati in base alle sospette motivazioni politiche dell’incidente.

Il quadro fornito dalle statistiche è chiarissimo: 1.247 sono stati definiti di destra; 9 di sinistra; 18 come “di ideologia straniera” e 20 motivati dalla religione. Altri 39 incidenti non si sono potuti classificare.

In base a queste cifre il 94% degli episodi di antisemitismo è stato motivato da ragioni politiche di destra.

Questi dati giungono mentre ci sono crescenti preoccupazione di infiltrazioni neonaziste nelle forze di polizia e nell’esercito tedesco.

Accusa fuorviante

Ciò contrasta con l’idea diffusa dalle associazioni della lobby israeliana che intendono mettere sotto accusa in modo fuorviante i sostenitori dei diritti dei palestinesi, così come le comunità musulmane e immigrate.

Questi avvertimenti sono stati evidenti dopo che nel 2015 la Germania ha iniziato ad accogliere centinaia di migliaia di rifugiati siriani e da altri Paesi.

Josef Schuster, presidente del Consiglio Centrale degli Ebrei in Germania, un’organizzazione comunitaria e un gruppo della lobby filoisraeliana, ha affermato che “molti dei rifugiati stanno scappando dal terrorismo dello Stato Islamico e vogliono vivere in pace e libertà, ma nel contempo arrivano da culture in cui l’odio e l’intolleranza verso gli ebrei ne sono parte integrante.”

E lo scorso anno il Congresso Ebraico Europeo ha pubblicato un rapporto stilato insieme a ricercatori dell’università di Tel Aviv in cui si attira l’attenzione sull’allarmante numero di aggressioni contro ebrei da parte di neonazisti e suprematisti bianchi nel 2019 e all’inizio del 2020.

Gli autori del rapporto non hanno potuto celare la realtà per cui la stragrande maggioranza di questo incremento è originato dall’estrema destra. Eppure il loro rapporto dedica molto spazio ad attaccare il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi e a cercare di associare senza fondamento i suoi sostenitori con l’aumento dell’antisemitismo.

Benché non ci siano prove che l’appoggio ai diritti dei palestinesi abbia alimentato il fanatismo antiebraico, nel documento di 17 pagine il BDS è citato addirittura 24 volte.

Il rapporto afferma anche pretestuosamente che in Germania “l’antisemitismo legato ad Israele, originato principalmente da studenti e personale musulmano, è già stato reso accettabile tra studenti e insegnanti.”

Questa narrazione falsa si è fatta strada anche nella destra americana, dove sostenitori di Israele, come Jonathan Tobin della National Review [quindicinale di destra, ndtr.], hanno cercato di scagionare l’estrema destra tedesca dall’accusa di essere antisemita.

Nel 2019 Tobin ha affermato che in Germania “la recente ondata di immigrati da Paesi musulmani e arabi ha creato un nuovo e vasto elettorato a favore dell’odio antiebraico.”

Ha anche lodato Alternativa per la Germania [AfD], un partito di estrema destra che include molti nazisti, perché “ha rotto con la sua tradizione affermando di sostenere Israele.”

Il tentativo di accusare i musulmani dell’antisemitismo tedesco nasconde come l’antisemitismo di destra derivi dallo stesso razzismo violento e reazionario che prende di mira i musulmani e gli immigrati.

Nel febbraio 2020 un estremista di destra si è messo a sparare all’impazzata nella città di Hanau. Ha preso di mira due shisha bar [locali in cui si fuma il narghilé, ndtr.] frequentati da membri della comunità turca in Germania e da altre comunità di immigrati, uccidendo nove persone, tutte di origine immigrata.

Questo è stato solo l’ultimo di una lunga serie di complotti e uccisioni da parte di neonazisti che hanno preso di mira musulmani e immigrati.

Definizione fuorviante di antisemitismo

Benché la destra nazionalista continui ad essere di gran lunga la principale fonte dell’antisemitismo tedesco, i politici concentrano sforzi esorbitanti per reprimere il movimento BDS.

Il loro falso pretesto è che criticare Israele e chiedere che venga chiamato a rispondere dei suoi crimini contro i palestinesi equivalga a odiare gli ebrei.

Questa oziosa e ingannevole equazione è intrinseca alla cosiddetta definizione di antisemitismo dell’IHRA [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organismo intergovernativo a cui aderiscono 34 Paesi, ndtr.] che Israele e la sua lobby stanno sollecitando governi e istituzioni in tutto il mondo ad adottare. Sette degli 11 “esempi” di antisemitismo allegati alla definizione dell’IHRA riguardano le critiche a Israele e al sionismo, la sua razzista ideologia di Stato.

Un manuale recentemente pubblicato dall’UE per promuovere questa definizione contiene menzogne assolute secondo cui alcune proteste riguardanti Israele in Europa sarebbero state motivate da animo antisemita.

Questo manuale è stato stilato di fatto dal RIAS, un ente ufficiale tedesco che pretende di documentare l’antisemitismo.

Attivisti per i diritti umani e sostenitori delle libertà civili hanno respinto questa definizione dell’IHRA, che vedono come uno strumento non per lottare contro il fanatismo ma per censurare l’appoggio ai diritti dei palestinesi.

La scorsa settimana il consiglio accademico dell’University College di Londra ha deciso di annullare [l’adozione della] definizione dell’IHRA e chiedere all’università di sostituirla con un’altra che “salvaguardi la libertà di espressione” e “protegga la libertà accademica”.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Portare speranza nella Gaza affamata di energia: i ricercatori sviluppano soluzioni ad alta tecnologia solare

15 febbraio 2021 – Palestine Chronicle

Gli esperti dell’università di Birmingham stanno sviluppando un nuovo impianto pilota per energia solare che aiuterà a fornire energia elettrica pulita ed economica alle persone che vivono nella Striscia di Gaza.

Lavorando con i colleghi dell’Università Islamica di Gaza, i ricercatori stanno combinando due tecnologie efficienti con una nuova modalità che contribuirà anche a valutare l’impatto della carenza di energia elettrica sulla salute e sul benessere della popolazione di Gaza.

Il nuovo impianto integra celle solari avanzate a giunzione multipla ad alta concentrazione con il ciclo organico Rankine (ORC) che sfrutta il calore di scarto a bassa temperatura dal raffreddamento delle celle fotovoltaiche concentrate per la produzione di elettricità.

Abitata da quasi due milioni di persone, tra cui 1,4 milioni di rifugiati, la Striscia di Gaza assediata ha lottato a lungo contro le gravi carenze di energia elettrica. L’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) teme gravi implicazioni legate alla crisi energetica per i settori della salute, dell’istruzione, dell’acqua e dei servizi igienico-sanitari.

La responsabile del progetto, dott.ssa Raya AL-Dadah, docente di tecnologie energetiche sostenibili presso l’Università di Birmingham, ha commentato: “Attualmente viene soddisfatto solo il 38% del fabbisogno di energia elettrica di Gaza. Le persone ricevono meno di sei ore di corrente al giorno e di conseguenza gli ospedali forniscono soltanto servizi essenziali, come le unità di terapia intensiva. Insieme al perenne conflitto, la crisi energetica provoca alti livelli di stress che influiscono sulla salute psico-fisica e sul benessere.

Il nostro impianto pilota fornirà energia elettrica a 30 famiglie, consentendo alle equipe di salute ambientale e geografia umana di Birmingham e Gaza di valutare l’impatto della disponibilità di energia elettrica sulla salute delle famiglie, sul benessere e sulla parità di genere. Possiamo trarre lezioni preziose su come il benessere migliori attraverso l’utilizzo della nuova soluzione tecnologica”.

Il progetto è finanziato dalla British Academy [Accademia nazionale del Regno Unito per le discipline umanistiche e le scienze sociali, indipendente ed autogovernata, ndtr.] e mette insieme ricercatori di ingegneria meccanica e di geografia umana dell’Università di Birmingham e dell’Università Islamica di Gaza.

Il dottor Mohammad Abuhaiba, responsabile del gruppo di ricerca presso l’Università Islamica di Gaza, ha commentato:

La Striscia di Gaza riceve un’abbondante quantità di energia solare, dal momento che la radiazione media annuale è di circa 2723 kWh/anno/m2. Esiste un grande potenziale per il ricavo di enormi quantità di elettricità attraverso l’utilizzo di diverse tecnologie per l’energia solare. Questo ci offre un incentivo ad avviare una ricerca a lungo termine con l’università di Birmingham sullo sviluppo di soluzioni ottimizzate e solidamente integrate basate sull’energia solare.

Non solo la nostra ricerca congiunta con l’università di Birmingham aiuterà a fornire soluzioni per la comunità locale di Gaza, ma aiuterà anche a sviluppare le competenze del personale accademico e tecnico dell’Università Islamica di Gaza”.

La soluzione ingegneristica riunisce le due tecnologie per ottenere un’efficienza complessiva di conversione del sistema superiore al 50%, fornendo elettricità pulita, sostenibile e conveniente. Il nuovo sistema è solido, facile da installare, utilizzare e mantenere senza la necessità di dipendere dalla complessa e costosa rete elettrica nazionale.

L’impianto pilota per la produzione di energia elettrica sarà installato nel Centro per la Salute delle Donne connesso alla Mezzaluna Rossa nel campo profughi di Jabalia [a 4 Km a nord della capitale particolarmente in difficoltà a causa della carenza di energia elettrica, ndtr.]. Questo centro sanitario è circondato da un buon numero di famiglie, alle quali verrà fornita l’energia elettrica.

(Università di Birmingham)

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un palestinese ucciso durante un’escursione è l’ultima vittima di un’ondata di violenza dei coloni

Yumna Patel

15 febbraio 2021 – Mondoweiss

Bilal Bawatneh, Azzam Amer e Khaled Nofal sono le ultime vittime palestinesi di un’ondata di violenza dei coloni che nelle ultime settimane ha sconvolto la Cisgiordania occupata

Venerdì un palestinese è stato investito ed ucciso durante un attacco con un’auto mentre stava facendo un’escursione con alcuni amici nel nord della Valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata.

Venerdì mattina il cinquantaduenne Bilal Bawatneh, insieme a un gruppo di palestinesi di varie parti della Cisgiordania, stava camminando lungo un sentiero tra i villaggi di Ein al-Beida e Bardala, nel nord della Valle del Giordano, a est della città di Tubas.

Nota per le sue vaste montagne, che in inverno fioriscono, durante questo periodo dell’anno la Valle del Giordano attira molti escursionisti e visitatori da tutta la Palestina.

Negli ultimi decenni la natura rurale della Valle del Giordano ha attirato anche migliaia di coloni israeliani che vivono in insediamenti e avamposti illegali.

L’agenzia di notizie ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Wafa ha citato gli escursionisti, che hanno affermato di “essere rimasti scioccati” nel vedere il veicolo deviare dal proprio percorso e lanciarsi a tutta velocità contro il gruppo. L’auto ha colpito gli escursionisti, ferendo Bawatneh e altri due.

Bawatneh, abitante della città di al-Bireh, nella zona di Ramallah, è stato portato via da medici della Mezzaluna Rossa Palestinese, che in un comunicato ha affermato che è morto poco dopo in seguito alle ferite riportate.

Medici israeliani avrebbero portato gli altri due palestinesi feriti in un ospedale nella città di Afula. Non si sa in che condizioni si trovino.

Venerdì delle foto di Bawatneh, che sarebbero state scattate durante la camminata poco prima che venisse ucciso, hanno inondato le reti sociali, mentre i palestinesi hanno pianto la sua morte come ultima vittima dell’occupazione israeliana.

Riguardo alla morte di Bawatneh, la dottoressa Hanan Ashrawi, membro del Comitato Esecutivo dell’OLP, ha twittato che “tragicamente, in Cisgiordania l’omicidio stradale è una forma fin troppo nota di aggressione non sanzionata da parte di coloni israeliani contro palestinesi vulnerabili.”

L’uccisione di Bawatneh ha suscitato una scarsa attenzione da parte dei media israeliani, nonostante nell’ultima settimana sia il terzo assassinio di palestinesi in Cisgiordania ad opera di coloni.

Mercoledì Azzam Amer, un palestinese del villaggio di Kafr Qalil, nella zona di Nablus, è stato ucciso dopo che sarebbe stato investito da un colono israeliano che stava guidando nei pressi dell’incrocio di Kifl Hares, nel nord della Cisgiordania occupata.

I media palestinesi hanno descritto Amer come marito e padre. Pare fosse anche un lavoratore a giornata e stava tornando a casa dal lavoro quando è stato ucciso. Il Centro Internazionale dei media del Medio Oriente (IMEMC) ha informato che la polizia israeliana ha affermato di aver aperto un’inchiesta “per stabilire se l’episodio sia un incidente stradale o un attacco deliberato.”

Nei casi di israeliani uccisi o feriti da conducenti palestinesi, le autorità israeliane spesso si affrettano a definire questi incidenti come attacchi deliberati, o come “attacchi terroristici”, e in genere danno poco spazio quando si tratta di determinare se si sia trattato eventualmente solo di un incidente stradale. In questi casi i conducenti palestinesi sono uccisi sul posto e i loro corpi trattenuti (come ad esempio nel caso di Ahmed Erekat), oppure arrestati e imprigionati con l’accusa di terrorismo.

Il 5 febbraio il trentaquattrenne Khaled Nofal, un ragioniere palestinese padre di un bambino di 5 anni, è stato colpito e ucciso da un colono israeliano nei pressi del villaggio di Ras Karkar, a nordovest dalla città di Ramallah.

Il caso di Nofal è stato ampiamente trattato dai media israeliani, evidentemente in quanto Nofal è stato definito dal colono responsabile della sua morte e dall’esercito israeliano un “terrorista” che avrebbe cercato di “infiltrarsi” in un avamposto di coloni nei pressi del suo villaggio e commesso un’aggressione, benché nessuno, salvo Nofal, sia rimasto ferito nell’incidente.

Il Times of Israel [giornale israeliano in lingua inglese, ndtr.] e Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.] hanno evidenziato che sul corpo di Nofal o sul posto non sono state trovate armi, facendo sorgere dubbi su ciò che Nofal stesse effettivamente facendo lì in quel momento e su come intendesse perpetrare un attacco senza alcuna arma.

Mentre la famiglia di Nofal ha detto ad Haaretz di non essere sicura di quello che egli stesse facendo così vicino all’avamposto in piena notte, il sindaco di Ras Karkar ha detto a Times of Israel che la famiglia di Nofal è proprietaria di terreni nei pressi della zona, una possibile ragione del perché sia andato là.

Tuttavia, a causa del fatto che l’incidente è stato classificato come un “tentativo di attentato terroristico”, secondo il Times of Israel da parte dell’esercito israeliano non è stata avviata nessuna indagine penale nei confronti del colono.

Come informano i media israeliani, Eitan Ze’ev, il colono che ha sparato a Nofal uccidendolo, ha dei precedenti riguardo a spari contro palestinesi disarmati e attualmente è sotto processo per violenza aggravata dopo che ha sparato a due palestinesi durante un diverbio l’estate scorsa nelle vicinanze di Biddya, un villaggio a ovest di Salfit, nel nord della Cisgiordania.

L’arma di Ze’ev sarebbe stata sequestrata dopo che ha sparato a due palestinesi in luglio – anche se alcuni poliziotti hanno affermato che gli dovrebbe essere restituita – provocando ulteriori congetture sul fatto che Ze’ev potesse essere armato prima di uccidere Nofal.

Dopo aver sparato a luglio, Ze’ev ha ricevuto un “attestato di merito” da parte di Yossi Dagan, capo del Consiglio Regionale della Samaria, che all’epoca ha affermato: “Ringraziamo le care persone che hanno protetto le vite di altri e di se stesse contro ribelli barbari e assassini che cercano di linciare ebrei in Samaria.”

Mentre Nofal è stato definito un “terrorista” e un “infiltrato” dai militari israeliani, che hanno preso in considerazione solo la testimonianza dei coloni che hanno sparato a Nofal come prova contro di lui, ufficiali dell’esercito hanno definito Ze’ev “un uomo tranquillo, etico e morale.”

Un’impennata della violenza

Bilal Bawatneh, Azzam Amer e Khaled Nofal sono gli ultimi palestinesi vittime di un’ondata di violenza dei coloni che nelle ultime settimane ha sconvolto la Cisgiordania occupata, con nuove notizie quasi quotidiane di attacchi di coloni contro civili palestinesi sui media palestinesi e israeliani.

Benché la violenza dei coloni contro i palestinesi sia una realtà quotidiana nella vita della Cisgiordania, le associazioni per i diritti umani hanno notato un significativo incremento della violenza dall’inizio dell’anno, che secondo loro va fatta risalire alla morte del colono sedicenne Ahuvia Sandak che è morto il 21 dicembre 2020  durante un inseguimento della polizia israeliana.

Da allora i coloni della Cisgiordania hanno promosso Sandak a martire della loro causa, inscenando proteste contro la polizia israeliana, seminando il caos nelle comunità palestinesi in tutta la Cisgiordania e provocando seri danni fisici e materiali ai palestinesi e alle loro proprietà.

L’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha documentato 49 incidenti riguardanti la violenza dei coloni in Cisgiordania nelle cinque settimane tra il 21 dicembre e il 24 gennaio rispetto a un totale di 108 incidenti di violenza dei coloni contro i palestinesi negli ultimi sei mesi del 2020.

L’associazione ha documentato 28 casi di aggressioni fisiche, 19 casi di lancio di pietre contro veicoli palestinesi, tre sparatorie e sei atti di vandalismo contro proprietà di palestinesi, coltivazioni danneggiate e attacchi contro abitazioni.

Dei 49 casi registrati da B’Tselem, secondo l’associazione 15 palestinesi, tra cui 4 minorenni con meno di 15 anni uno dei quali di 5 anni, sono stati colpiti da pietre.

B’Tselem nota che in almeno 26 tra i casi documentati dalla morte di Sandak le forze di sicurezza israeliane erano presenti quando i coloni hanno condotto gli attacchi contro i palestinesi.  

Invece di arrestare gli aggressori, in cinque casi hanno attaccato i palestinesi, sparando proiettili ricoperti di gomma o lacrimogeni contro di loro e ne hanno feriti due. Negli altri 21 casi le forze non hanno fatto abbastanza per impedire gli attacchi,” afferma l’associazione.

Nelle settimane successive al 24 gennaio, data limite del rapporto di B’Tselem, sono state riportate decine di nuovi casi di violenza dei coloni in Cisgiordania, con almeno 18 attacchi di coloni contro i palestinesi, le loro proprietà e animali d’allevamento riferiti dall’agenzia di notizie Wafa tra il 25 gennaio e il 15 febbraio, esclusi gli assassinii di Batawneh, Amer e Nofal. 

La natura degli attacchi ha incluso tra le altre cose, aggressioni fisiche contro uomini e donne palestinesi, lo sradicamento di decine di ulivi, il danneggiamento di una chiesa, il lancio di pietre contro autobus e automobili private palestinesi.

Effetti “devastanti” a lungo termine

Mentre dalla morte di Ahuvia Sandak c’è stato un chiaro incremento della violenza, B’Tselem ha detto che attribuire alla morte dell’adolescente “la causa della rabbia dei coloni è fuori dalla realtà.”

Invece la violenza dei coloni è di routine, afferma l’associazione, aggiungendo che “per anni i coloni hanno commesso azioni violente contro i palestinesi con il totale sostegno dello Stato, che non fa nulla per impedire il ripetersi di questi attacchi.”

Questo è un regime suprematista ebraico,” ha sostenuto l’associazione.

L’organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din afferma che le autorità israeliane omettono di indagare i crimini d’odio e gli attacchi dei coloni contro i palestinesi in Cisgiordania, e raramente portano di fronte alla giustizia i responsabili di questi delitti.

Secondo l’associazione, l’82% delle inchieste aperte per “crimini ideologici” contro palestinesi viene chiuso per l’inerzia della polizia e solo l’8% delle indagini su tali delitti porta effettivamente a un’incriminazione.

Inoltre, se imputati, i coloni israeliani che commettono reati contro i palestinesi e le loro proprietà sono giudicati nei tribunali civili israeliani. Nel contempo i palestinesi (compresi i minorenni) che sono accusati di commettere reati contro coloni israeliani e personale della sicurezza sono giudicati da tribunali militari israeliani, che vantano una percentuale di condanne contro i palestinesi superiore al 99%.

Hani Nassar, ricercatore sul campo di Defense for Children International – Palestine [Difesa Internazionale dei Minori – Palestina] (DCIP), che documenta gli attacchi dei coloni che prendono di mira minori palestinesi, dice a Mondoweiss che tali sistemi sono “prove del sistema di apartheid in Cisgiordania” e dell’appoggio del governo israeliano e della sua complicità con il “terrorismo dei coloni”.

Il terrorismo dei coloni non riguarda solo l’aggressione nei confronti delle nostre terre, case e dei nostri alberi, ma esso prende deliberatamente di mira anche le persone e i loro figli,” afferma Nassar, aggiungendo che, mentre gli effetti a breve termine degli attacchi dei coloni possono essere devastanti sia dal punto di vista economico che fisico, gli effetti a lungo termine possono essere ancora più brutali.

Ho visto e documentato gli effetti a lungo termine di questi attacchi sulle famiglie palestinesi, soprattutto sui minorenni,” afferma Nassar, aggiungendo che molti minori e i loro genitori “lottano per affrontare il trauma.”

Per esempio, secondo Nassar, quando ragazzini vengono aggrediti in macchina, spesso mostrano sintomi da stress post traumatico e non vogliono viaggiare in auto, soprattutto di notte (quando avviene la maggior parte degli attacchi). Nei casi di bambini aggrediti in casa, molti mostrano disturbi del sonno, bagnano il letto, hanno incubi, ecc.

La comunità internazionale può leggere le notizie, vedere questi attacchi e dire ‘oh, è triste’, ma vorrei dire a questa gente: venite qui, fate visita alle famiglie che sono state aggredite e vedete quello che i coloni e l’occupazione hanno fatto loro,” dice Nassar. “Forse poi le persone vorranno cambiare le cose.”

La situazione nella vita reale è molto più pericolosa di quanto si possa immaginare quando si leggono le notizie,” afferma. “Abbiamo bisogno che ogni governo, compreso quello palestinese, si attivi e faccia il possibile per difendere queste famiglie. Assumetevi le vostre responsabilità, andate alla Corte Internazionale e accusate i dirigenti israeliani che sponsorizzano questo terrorismo contro di noi.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Amira Hass: “Vi racconto la sinistra che resiste in Israele e quella che ha rinnegato se stessa”

Umberto De Giovannangeli

14 febbraio 2021  Globalist Syndication

Globalist prosegue il suo viaggio in un Israele sempre più diviso e radicalizzato, a destra, in vista delle elezioni del 23 marzo, le quarte in due anni, un record mondiale.

Israele, “vi racconto la sinistra che esiste e quella che si è suicidata”. Il racconto è di una delle icone del giornalismo israeliano, una firma conosciuta a livello internazionale: Amira Hass

Con lei, e con Yossi Verter, altra grande firma israeliana, Globalist prosegue il suo viaggio in un Israele sempre più diviso e radicalizzato, a destra, in vista delle elezioni del 23 marzo, le quarte in due anni, un record mondiale.

La sinistra che c’è e quella che si è suicidata

 “La sinistra a cui appartengo – scrive Hass – non perde tempo in noiosi dibattiti su quale primo ministro di destra sia preferibile, che sia Benjamin Netanyahu, Naftali Bennett, Avigdor Lieberman, Gideon Sa’ar o Yair Lapid. Il battibecco alla moda su chi sia più adatto all’incoronazione evidenzia solo per quelli di noi a sinistra quanto siamo lontani dal loro mondo. E ora sentiamo la gente dire che siccome i partiti di questi contendenti sono in testa ai sondaggi, e le nostre opzioni sono così scarse, dovremmo votare per il minore dei mali. Eppure, ogni singolo leader menzionato che potrebbe diventare il prossimo primo ministro è il peggiore di tutti i mali, una fonte di preoccupazione e paura. Il fatto che un primo ministro israeliano non sia un unico capitano della nave aumenta la paura. Nelle questioni fondamentali, che sono il radicamento della natura colonialista di questo Stato o la distruzione del sistema di welfare, i primi ministri sono sempre stati parte integrante di un establishment che abbraccia, materializza e gestisce queste ideologie. Si può chiamare sionismo, progetto nazionale, stato ebraico. Gran parte della società ebraico-israeliana protegge i frutti prodotti dalla dominazione espropriativa sui palestinesi, frutti che bilanciano i mali delle politiche neoliberali. Questa equazione è all’origine delle travolgenti tendenze di destra degli israeliani. In sostanza, la sinistra si regge su tre gambe: l’adesione al principio di uguaglianza tra tutti gli esseri umani, l’opposizione alla natura espropriativa dello Stato su entrambi i lati della linea verde, e l’aspirazione a una società in cui il capitale non dominasse e i profitti e le merci cessassero di determinare il valore degli esseri umani e delle loro vite. Il legame tra loro spiega perché la sinistra è così ridotta, avendo così poche opzioni di voto. Il fatiscente Kahol Lavan, o il più riuscito Yesh Atid, non si sono mai avvicinati nella loro essenza a un “centro-sinistra”, figuriamoci alla sinistra. Il centro-destra sarebbe una descrizione più appropriata di questi partiti. Una delle più grandi distorsioni concettuali che sono sorte qui è l’identificazione della sinistra con gli ebrei ashkenaziti di classe media o superiore, e con i piloti che hanno bombardato i campi profughi in Libano e nella Striscia di Gaza. Il fenomeno sociologico per cui queste due categorie non sono annoverate tra i tradizionali elettori di destra (indipendentemente dal numero di ebrei ashkenaziti e di ex funzionari dell’establishment della difesa ai vertici del Likud), non fa del Labour un partito di sinistra, dato che questo è stato il partito che ha istituito e sviluppato l’impresa di espropriazione che si estende tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

L’appartenenza alla sinistra è caratterizzata da una fede quasi religiosa nella possibilità di cambiare le cose in meglio e dall’obbligo di agire in base a questa fede, anche nell’oscurità imperante. Per questo gli uomini di sinistra sono attivi in organizzazioni come il sindacato Koah Laovdim, nell’aiutare i villaggi Masafer Yatta vicino a Hebron, costantemente vessati, nei gruppi femministi, nelle manifestazioni a Silwan, Gerusalemme Est, contro lo sfratto degli abitanti di questo quartiere, e nelle proteste a Balfour Street. Ecco perché la Joint List, come rappresentante del gruppo più diseredato di Israele, merita i nostri voti.

Anche prima del 1948, tutti i filoni del movimento operaio utilizzarono le istituzioni socialiste (come i kibbutzim e la federazione operaia Histadrut) per spingere fuori il più possibile la popolazione nativa palestinese dalla sua terra e dal sistema politico. L’etnocrazia e l’espropriazione ebraica sono così radicate nell’israeliano medio che quei gusci socialisti continuano a definire il movimento operaio come di sinistra, anche se questi strumenti sono stati scartati quando non erano più necessari per portare avanti il progetto sionista. Con tutta la simpatia per la leader laburista Merav Michaeli, è difficile immaginare il suo piccolo partito entrare in un autentico processo di assunzione di responsabilità per l’espropriazione storica. L’adesione di Meretz a un’ideologia sionista è sconcertante e fuori luogo. Il nuovo partito chiamato Partito Democratico Israeliano segnala un sano sviluppo, ma è ancora troppo embrionale. La Joint List, i cui componenti non sono tutti di sinistra, ha deluso.

Quindi, non c’è nessuno per cui votare? Non votare rende le elezioni ancora più importanti di quello che sono, come se avessimo più influenza non votando. Questo è un atteggiamento narcisistico. Non vogliamo e non possiamo essere partner di un governo sionista, ma non votare concede qualcosa che tuttavia è insegnato dalla prassi di sinistra: usare ogni mezzo a nostra disposizione per esprimere le nostre idee e presentare alternative ovunque sia possibile, anche in parlamento”.

Fratelli- coltelli

Cosa significhi suicidarsi in politica, lo spiega molto bene Yossi Verter: “Come se i resti della sinistra israeliana non avessero già abbastanza problemi  – annota – la caduta di Meretz nella zona di pericolo di mancare la soglia di voti necessaria a un partito per entrare nella legislatura ha acceso la tensione con il Partito Laburista, che si è rafforzato a sue spese. Erano sempre stati considerati partiti fratelli; dopo l’elezione di Merav Michaeli a capo del Labour seguita dall’elezione di una lista di tonalità decisamente di sinistra, sono diventati non semplicemente fratelli, ma gemelli. Unire i due partiti in un’unica lista, che avrebbe massimizzato il potenziale, era ciò che la realtà richiedeva. Non è successo perché i leader di entrambi i partiti avevano delle riserve: Nitzan Horowitz a causa del trauma della farsa di Labour-Gesher-Meretz, che ha corso come un’unica lista alle ultime elezioni e poi ha subito una brutta rottura, e Michaeli a causa del suo interesse nel fatto che Labour tirasse verso il centro e diventasse ancora una volta un potenziale partito di governo. È vero, il Labour sta vivendo una resurrezione dei morti, ma ci vorrà il Messia per arrivare da lì ad essere un partito di governo, e non è affatto chiaro che lei o lui verrà. Ci sono al massimo abbastanza elettori per 11 o 12 seggi della Knesset che galleggiano tra i due partiti. Tutti si sentono ugualmente a casa in uno dei due. Lo zoccolo duro di ex elettori del Partito laburista risiede ora principalmente in Yesh Atid. Altre briciole sono in Kahol Lavan. La costante ascesa del leader dell’opposizione Yair Lapid, che non è dovuta a una campagna di particolare successo ma piuttosto al fatto che la realtà e lo slancio naturale stanno lavorando a suo favore, non sta dando ai disertori laburisti motivo di considerare il ritorno a casa. Se dovessero avere dei pensieri di pentimento, Lapid saprà cosa fare. Al momento, si astiene dal trattare con i laburisti, perché non vede alcuna ragione per farlo. I vecchi e gloriosi bastioni del Partito del Lavoro, che in passato hanno portato la cosiddetta base nel giorno delle elezioni, non ci sono più. I rispettivi capi del Movimento Kibbiuz e del Movimento Moshav, Nir Meir e Amit Ifrach, si sono presentati questa settimana alla conferenza per la fondazione della sezione rurale di Yesh Atid e hanno dichiarato fedeltà al partito e al leader. Quelle che erano state le basi del partito precursore del Labour, il Mapai, il terreno di coltura dei suoi leader e dei suoi elettori, sono andate all’erede dei sionisti, il partito della classe media borghese. È un altro segno dello sradicamento dei simboli del passato, delle divisioni ideologiche e delle appartenenze politiche. Dopo la sua elezione, Michaeli ha assunto un tono patriarcale – scusate, matriarcale – verso Meretz. ‘È un partito importante’, ha insistito. ‘Faremo in modo che entri nella Knesset’ e simili. Questa preoccupazione, che sia reale o ipocrita, ha portato a un risultato opposto. Da qui i sondaggi dell’opinione pubblica. Nel Meretz, si sono preoccupati fin dall’inizio che dietro la compassione dimostrativa si nascondessero secondi fini. Horowitz, sull’orlo dell’abisso, ha tratto una conclusione immediata: virare bruscamente a sinistra, e poi ancora più a sinistra. ‘Parleremo di quello che non sentite dai laburisti: dell’occupazione, del regime di apartheid nei territori, dei richiedenti asilo, dei rifugiati. Non sentite nemmeno parlare di coercizione religiosa. Tutte le questioni da cui gli altri partiti, compresi i laburisti, stanno fuggendo’, mi ha detto. ‘In definitiva, questo è il nostro dominio’.

Gli ho chiesto  – prosegue Verter – se il ritiro alla vigilia delle elezioni è un’opzione. Ha risposto, stordito come se un dolore acuto gli stesse tagliando l’addome. ‘Non ci siamo proprio. Sono sicuro che entreremo’, ha detto. C’è una buona possibilità che avesse ragione. Fortunatamente, la sirena d’allarme è stata suonata 40 giorni prima delle elezioni. Questo gli lascia una quantità di tempo abbastanza sufficiente per combattere per la sua vita”.

Lottare per la sopravvivenza. Che triste fine per una sinistra che fu.




Biden difende Israele mentre il Jewish National Fund israeliano progetta l’insediamento di nuove colonie

Tamara Nassar

15 febbraio 2021, Electronic Intifada

Secondo quanto riferito, il Fondo Nazionale Ebraico di Israele [ente non profit dell’Organizzazione sionista mondiale con poteri para-statali fondato nel 1901 a Basilea per comprare e acquisire terra nella Palestina ottomana ed espandere l’insediamento degli ebrei, ndtr.] sta pianificando di acquistare terra palestinese di proprietà privata nella Cisgiordania occupata per espandere le colonie di soli ebrei.

Domenica la dirigenza dell’organizzazione ha approvato la proposta, che era stata riportata dai media israeliani nei giorni precedenti. Il consiglio di amministrazione dovrebbe prendere una decisione finale dopo le elezioni politiche israeliane di marzo.

Sembra che la proposta del Fondo dia priorità all’espansione delle colonie nella Valle del Giordano, nella Gerusalemme occupata, nel blocco degli insediamenti di Gush Etzion nella Cisgiordania meridionale e nell’area delle colline a sud di Hebron. Secondo i media israeliani, il gruppo non costruirà nuove colonie ma amplierà quelle già esistenti.

L’ “ampliamento” delle colonie esistenti – spesso ben oltre i confini originali – è uno stratagemma che Israele utilizza da tempo nel tentativo di minimizzare le critiche internazionali alla sua colonizzazione della terra palestinese. Inoltre, “l’acquisto di terreni” da parte delle organizzazioni israeliane delle colonie in Cisgiordania è spesso fraudolento.

Sebbene la mossa del Fondo venga descritta nei media israeliani come un “importante cambiamento politico”, essa è del tutto coerente con la sua agenda storica.

Sin dalla sua creazione nel 1901 da parte di Theodor Herzl, fondatore del movimento sionista di colonizzazione della Palestina, il Fondo ha un obiettivo fondamentale: acquisire terra palestinese ad uso esclusivo degli ebrei.

Terra rubata

 L’organizzazione ha collaborato alla pulizia etnica dei palestinesi sulle loro terre al fine di costruirvi colonie per soli ebrei.

Il Fondo pretende di possedere circa il 15% della terra nell’attuale Israele.

Questa terra è riservata all’uso esclusivo degli ebrei, anche se gran parte di essa è stata rubata ai palestinesi. Il Fondo tenta spesso di dare una facciata di ambientalismo alla colonizzazione della terra palestinese. Notoriamente pianta foreste sulle rovine dei villaggi palestinesi per cancellarne la presenza.

A causa del suo ruolo nella pulizia etnica e nel razzismo, gli attivisti di tutto il mondo hanno fatto una campagna per privare il Fondo del suo status di ente di beneficenza, che gli permette di raccogliere donazioni deducibili dalle tasse. Il giornalista israeliano Barak Ravid ha riferito che l’ultima mossa del Fondo è stata sollecitata dalla lobby degli insediamenti israeliani.

I leader dei coloni mirano a più che raddoppiare il numero di coloni ebrei da circa 400.000 a un milione nell’Area C, il 60% della Cisgiordania occupata che rimane sotto il completo dominio militare israeliano. Il Fondo da sempre opera per colonizzare la terra di tutta la Palestina storica – sia nella parte risultante dalla fondazione di Israele nel 1948 che nei territori che occupa dal 1967 – tanto direttamente che attraverso gruppi di facciata.

In risposta all’articolo del quotidiano israeliano Haaretz, il Fondo ha detto di “aver operato nel corso degli anni e di continuare a farlo in modo trasparente, in tutte le parti della Terra di Israele, comprese la Giudea e la Samaria”. Giudea e Samaria è il nome che Israele usa per la Cisgiordania occupata, per addurre una rivendicazione pseudo-biblica sulla terra palestinese. Tutte le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, comprese Gerusalemme Est e le alture del Golan in Siria, sono illegali secondo il diritto internazionale e sono considerate crimini di guerra.

In risposta ai piani del Fondo, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha affermato che l’amministrazione statunitense ritiene “sia fondamentale astenersi da passi unilaterali che esacerbino le tensioni e che minino gli sforzi per far avanzare una soluzione negoziata a due Stati”.

L’amministrazione Biden sostiene la politica di Trump

Sebbene possa sembrare una critica rispetto all’amministrazione Trump, questa dichiarazione non rappresenta un cambiamento sostanziale. Pressato dai giornalisti, Price si è apertamente rifiutato di definire illegali le colonie israeliane – come avevano fatto tradizionalmente per decenni le amministrazioni statunitensi anche se non hanno mai intrapreso alcuna azione per fermarle.

 Invece, Price ha sostenuto il cambiamento di politica dell’amministrazione Trump del novembre 2019 dichiarando che le colonie non violano il diritto internazionale. L’amministrazione Biden sembra non meno determinata di Trump a proteggere Israele dalle conseguenze delle sue azioni. Dopo che all’inizio di questo mese la sentenza della Corte Penale Internazionale ha aperto la strada a un’indagine sui crimini di guerra israeliani in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, compresa la costruzione di colonie, l’amministrazione Biden ha espresso senza mezzi termini la sua opposizione all’indagine.

Nel frattempo Israele ha continuato a demolire case e strutture palestinesi a ritmo accelerato. Negli ultimi mesi, le forze israeliane hanno più volte sequestrato e distrutto strutture della comunità di Khirbet Humsa nella Cisgiordania occupata. Secondo la documentazione delle Nazioni Unite nel mese di febbraio Israele ha demolito e sequestrato più di 60 strutture della comunità e ha sfollato con la forza 175 persone – più di metà delle quali bambini. Tutto questo fa parte dell’impegno di lunga data di Israele a cambiare con la forza la composizione demografica nell’area – pulizia etnica – e garantire una maggioranza ebraica in preparazione dell’annessione.

 

Ali Abunimah ha contribuito alle ricerche.

 

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La legge anti-BDS dell’Arkansas viola il Primo Emendamento, afferma il tribunale

Michael Arria

15 febbraio 2021 Mondoweiss

Con due voti a favore ed uno contrario l’Ottavo Distretto della Corte d’Appello ha dichiarato incostituzionale una legge che proibisce all’Arkansas di lavorare con aziende che boicottino Israele.

L’Arkansas Times ha contestato con successo una normativa che proibisce allo Stato di avere rapporti di affari con aziende che boicottano Israele.

Il settimanale di Little Rock [capitale dell’Arkansas, ndtr], che aveva intentato la causa legale nel 2018, era rappresentato dall’ACLU [American Civil Liberties Union, organizzazione non governativa USA per la difesa dei diritti civili che ha giocato un ruolo importante nell’evoluzione del diritto costituzionale USA, ndtr]. Pur non avendo adottato alcuna posizione ufficiale sul BDS, il periodico aveva intrapreso questa battaglia legale in seguito al rifiuto da parte del Pulaski Technical College dell’Università dell’Arkansas di firmare un contratto pubblicitario con l’Arkansas Times se questo non avesse sottoscritto l’impegno (a non boicottare Israele, ndtr). L’istanza era stata respinta da un giudice distrettuale nel 2019, ma la settimana scorsa l’Ottavo Distretto della Corte d’Appello ha sentenziato con due voti a favore ed uno contrario che la legge è incostituzionale.

“Siamo entusiasti per la decisione della Corte, che sostiene il diritto fondamentale a partecipare a campagne politiche di boicottaggio,”, ha dichiarato il legale dell’ACLU Brian Hauss. “Il governo non può obbligare a scegliere se mantenere le proprie fonti di reddito oppure i diritti garantiti dal Primo Emendamento, che è esattamente ciò che fa questa legge. I boicottaggi politici sono una forma legittima di protesta nonviolenta, protetti dal Primo Emendamento.”

Sulla stessa scia la dichiarazione di Nihad Awad, direttore generale del CAIR [Council on American-Islamic Relations, gruppo musulmano per i diritti civili in USA, ndtr]. “Questa sentenza federale rappresenta un momento cruciale nella lotta per la protezione della libertà di parola qui negli USA e per la promozione dei diritti umani all’estero,” ha affermato. “Dall’Arizona al Texas fino all’Arkansas numerosi tribunali cominciano a riconoscere ciò che è ovvio: gli Stati non possono chiedere né a soggetti individuali né ad aziende di sottoscrivere l’impegno a sostenere lo Stato di Israele come condizione per poter lavorare con il governo di uno Stato dell’Unione.”

Leslie Rutledge, Procuratore Generale dell’Arkansas, ha invece espresso la sua frustrazione per la sentenza. “Il Procuratore Generale è delusa per la decisione dell’Ottavo Distretto. Tale decisione interferisce con la legge dell’Arkansas che proibisce la discriminazione contro Israele, importante alleato degli USA,” ha dichiarato all’Associated Press un portavoce dell’Ufficio del Procuratore.

Nella stessa giornata della sentenza in Arkansas, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu attaccava il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite per avere pubblicato la lista delle aziende che operano nei Territori Occupati. Nella sua dichiarazione Netanyahu ha ammesso che Israele promuove norme anti-BDS all’interno degli USA: “Negli anni recenti abbiamo promosso leggi nella maggioranza degli Stati dell’Unione che stabiliscono che si debbano adottare misure forti contro chiunque cerchi di boicottare Israele.”

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Artisti come me vengono censurati in Germania perché sosteniamo i diritti dei palestinesi

 Brian Eno

4 febbraio 2021  The Guardian

Una risoluzione parlamentare del 2019 ha avuto un effetto raggelante sui critici della politica israeliana. Adesso il settore culturale si fa sentire.

Sono solo uno dei tanti artisti che sono stati colpiti da un nuovo Maccartismo che ha preso piede in un clima crescente di intolleranza in Germania. La romanziera  Kamila Shamsie, il poeta Kae Tempest, i musicisti Young Fathers e il rapper Talib Kwelli, l’artista visuale Walid Raad e il filosofo Achille Mbembe * sono tra gli artisti, accademici, curatori e altri che sono stati coinvolti in un sistema di interrogatori politici, liste nere ed esclusione che è ormai diffuso in Germania grazie all’approvazione di una risoluzione parlamentare del 2019. In definitiva, si tratta di prendere di mira i critici della politica israeliana nei confronti dei palestinesi.

Recentemente, una mostra delle mie opere d’arte è stata cancellata nelle sue fasi iniziali perché sostengo il movimento non-violento, guidato dai palestinesi, per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS). La cancellazione non è mai stata dichiarata pubblicamente, ma a quanto mi risulta, è stata la conseguenza del timore di operatori culturali in Germania che loro e la loro istituzione sarebbero stati puniti per aver promosso qualcuno etichettato come “antisemita”. Così funziona la tirannia: creare una situazione in cui le persone siano abbastanza spaventate da tenere la bocca chiusa e l’autocensura farà il resto.

Ma poiché la mia storia è relativamente minore, vorrei parlarvi della mia amica, la musicista Nirit Sommerfeld.

Nirit è nata in Israele e cresciuta in Germania, e da tutta la vita mantiene il suo legame con entrambi i luoghi, inclusa la sua famiglia allargata in Israele. Come artista, si occupa da più di 20 anni in canzoni, testi e performance del rapporto tra tedeschi, israeliani e palestinesi, dedicando tutti i suoi spettacoli alla comprensione internazionale e interreligiosa.

Eppure ora Nirit si ritrova impedita nello svolgere liberamente il suo lavoro culturale. Nel considerare la sua domanda di finanziamento artistico, i funzionari statali hanno detto a Nirit che dovevano controllare il suo lavoro; quando ha cercato di prenotare un luogo per un suo concerto a Monaco, la sua città natale, le è stato detto dagli organizzatori che lo spettacolo sarebbe stato cancellato a meno che non avesse confermato per iscritto che non avrebbe espresso alcun “sostegno per il contenuto, l’argomento e gli obiettivi” della campagna BDS. È stata ripetutamente bersaglio di campagne diffamatorie.

Perché è successo?

Perché ha parlato di ciò che ha visto con i suoi occhi: le leggi razziste di Israele contro i suoi stessi cittadini che sono palestinesi; i posti di blocco militari israeliani, le demolizioni di case, il muro di separazione, l’accaparramento delle terre, l’incarcerazione di bambini e i soldati israeliani che umiliano e uccidono palestinesi di tutte le età. È stata testimone dell’uso illegale di bombe al fosforo contro Gaza e dell’indifferenza – nella migliore delle ipotesi – di molti nella società israeliana.

Ho chiesto a Nirit come si sente riguardo a questa situazione: “Dopo essere tornata per due anni a Tel Aviv e molte visite nei territori palestinesi occupati, ho capito che Israele non è all’altezza dei suoi elevati standard morali che dichiara. La lezione appresa dall’Olocausto è stata ‘Mai più!’ Ma è inteso solo per proteggere noi ebrei? Per me ‘Mai più!’ Deve includere ‘mai più razzismo, oppressione, pulizia etnica ovunque – così come mai più antisemitismo’. “

La musica di Nirit celebra il suo passato e presente ebraico attraverso il canto. In qualità di artista, il cui nonno è stato assassinato nel genocidio nazista, trova “profondamente inquietante” il fatto di essere soggetta alla censura e al maccartismo inquisitorio da parte di funzionari e istituzioni pubbliche tedesche.

Secondo Nirit, “quando i difensori di Israele insistono sul fatto che queste politiche di occupazione e di apartheid sono fatte a nome di tutti gli ebrei nel mondo, alimentano l’antisemitismo. La lotta all’antisemitismo non dovrebbe e non può essere fatta demonizzando la lotta per i diritti dei palestinesi “.

L’esperienza di Nirit è un esempio della situazione kafkiana in cui siamo scivolati: una donna ebrea, il cui lavoro è incentrato sulla storia, la memoria, la giustizia, la pace e la comprensione, falsamente accusata di antisemitismo dalle istituzioni tedesche. L’assurdità dell’accusa rende chiara una cosa: non si tratta affatto di antisemitismo, ma di limitare la nostra libertà di discutere la situazione politica e umanitaria in Israele e Palestina.

Allora come si è verificata questa situazione?

Nel 2019 in Germania è stata approvata una risoluzione parlamentare vagamente formulata non vincolante, che falsamente equipara il movimento BDS all’antisemitismo. In un breve lasso di tempo, questa risoluzione ha aperto la strada a un’atmosfera di paranoia, alimentata da disinformazione e opportunismo politico.

Il BDS è un movimento pacifico che mira a fare pressione su Israele affinché ponga fine alle sue violazioni dei diritti umani palestinesi e rispetti il ​​diritto internazionale. È modellato sui precedenti del movimento per i diritti civili degli Stati Uniti e, soprattutto, del movimento contro l’apartheid in Sud Africa. Si rivolge alla complicità con un regime ingiusto e prende di mira le istituzioni, non gli individui o l’identità. Il BDS avverte la coscienza pubblica di uno status quo insostenibile e profondamente ingiusto e mobilita l’azione per porre fine a qualsiasi coinvolgimento nel sostenerlo.

Eppure i direttori di festival, coloro che fanno programmazione e istituzioni interamente finanziate con fondi pubblici stanno sottoponendo gli artisti a test politici, controllando se hanno mai criticato la politica israeliana. Questo sistema di sorveglianza e autocensura è nato perché le istituzioni culturali si trovano sotto attacco da parte di gruppi anti-palestinesi quando invitano un artista o accademico che ritiene inaccettabile per loro la visione dell’occupazione israeliana.

Per fare un esempio tra i tanti, il direttore del Museo ebraico di Berlino, Peter Schäfer, è stato costretto a rassegnare le dimissioni dopo che il museo ha twittato il collegamento a un articolo su un giornale tedesco relativo ad una lettera aperta di 240 studiosi ebrei e israeliani, inclusi i massimi esperti di antisemitismo, che era critico nei confronti della risoluzione anti-BDS.

Ma ora, con una mossa senza precedenti, i rappresentanti di 32 delle principali istituzioni culturali tedesche, incluso l’ Istituto Goethe, si sono espressi insieme, manifestando allarme per la repressione delle voci critiche e delle minoranze in Germania a seguito della risoluzione anti-BDS del parlamento.

La loro dichiarazione congiunta afferma: “Invocando questa risoluzione, le accuse di antisemitismo vengono utilizzate in modo improprio per mettere a tacere voci importanti e distorcere le posizioni critiche”. Pochi giorni dopo, più di 1.000 artisti e accademici hanno firmato una lettera aperta a sostegno della protesta delle istituzioni culturali.

In un momento in cui le eredità coloniali sono sempre più messe in discussione, discutere di questo particolare esempio di colonialismo in corso sta invece diventando tabù. Ma non è mai stato più urgente: la situazione per i palestinesi che vivono sotto l’apartheid e l’occupazione peggiora di settimana in settimana.

Dovremmo essere tutti allarmati da questo nuovo maccartismo. Gli artisti, come tutti i cittadini, devono essere liberi di parlare apertamente e intraprendere azioni significative, inclusi boicottaggi su questioni di principio, contro i sistemi di ingiustizia. Se lasciato incontrastato, il silenziamento del dissenso e l’emarginazione dei gruppi minoritari non si fermerà ai palestinesi e a coloro che li sostengono.

Brian Eno è un musicista, artista, compositore e produttore

Traduzione di Flavia Donati

da Palestinaculturalibertà




Come i media reprimono le critiche contro Israele

Nathan J. Robinson

10 febbraio 2021 – Current Affairs

Sono stato licenziato da giornalista dopo che ho ironizzato sull’aiuto militare USA a Israele su una rete sociale

È ampiamente riconosciuto che chi critica Israele, indipendentemente da quanto fondate siano le sue argomentazioni, è regolarmente punito sia da istituzioni pubbliche che private per quello che ha detto. L’American Civil Liberties Union [Unione Americana per le Libertà Civili, [ong USA impegnata a difendere la libertà di parola, ndtr.] (ACLU) ha documentato un modello per cui “quelli che intendono protestare, boicottare o criticare in altro modo il governo israeliano sono stati messi a tacere,” una tendenza che “si manifesta nei campus universitari, nei contratti statali e persino in leggi per cambiare il codice penale federale” e “sopprime il diritto di parola solo contro una parte della disputa su Israele/Palestina.” Il Center for Constitutional Rights [Centro per i Diritti Costituzionali, ong USA per il patrocinio legale, ndtr.] ha dimostrato che “organizzazioni, università, soggetti pubblici e altre istituzioni che appoggiano Israele” hanno preso di mira attivisti filo-palestinesi con una serie di tattiche “compresi la cancellazione di eventi, denunce giudiziarie senza fondamento, azioni disciplinari amministrative, licenziamenti e accuse false e provocatorie di terrorismo e antisemitismo” e conclude che c’è una “eccezione palestinese per quanto riguarda la libertà di parola.”

A volte, il tentativo di far tacere le critiche contro Israele ha preso la forma di esplicite azioni governative, c’è un’aperta campagna di criminalizzazione dei discorsi che criticano Israele e alcuni Stati hanno persino chiesto a dipendenti pubblici l’impegno a non boicottare Israele. Ma, come ha notato il giornalista israeliano Gideon Levy su Middle East Eye, ciò si è spesso manifestato nella forma di accuse senza fondamento (e offensive) in base alle quali le critiche a Israele sono per definizione antisemite. Negli Stati Uniti le critiche accademiche contro Israele hanno avuto come risultato la rescissione di offerte di lavoro o hanno impedito di insegnare, e la CNN [nota rete televisiva USA, ndtr.] ha licenziato il docente universitario Marc Lamont Hill per un appello a favore della liberazione della Palestina. In Gran Bretagna, c’è stata una assurda campagna durata un anno per calunniare in quanto antisemita l’ex segretario del partito Laburista (e critico verso le politiche del governo israeliano) Jeremy Corbyn. Human Rights Watch [importante ong per i diritti umani, ndtr.] ha evidenziato che il governo degli Stati Uniti ha scagliato accuse infondate di antisemitismo contro questa e altre organizzazioni per i diritti umani, come Amnesty e Oxfam, che hanno denunciato i pessimi dati di Israele in materia di diritti umani. All’interno di Israele, il diritto di parola dei palestinesi è brutalmente represso e persino gli ebrei che sostengono i diritti dei palestinesi sono regolarmente vessati dallo Stato. Lo scorso anno Abeer Alnajjar di OpenDemocracy [sito web di discussione di politica internazionale e cultura, ndtr.] ha scritto di come “i principali mezzi di comunicazione siano molto sensibili contro qualunque riferimento ai diritti dei palestinesi o alle leggi internazionali, e contro ogni critica a Israele o alle sue politiche.”

Personalmente non ho mai riflettuto sulla questione se potessi subire conseguenze per aver criticato il governo di Israele (e l’appoggio USA nei suoi confronti). Ho goduto di tutta la “libertà di parola” che si può avere in questo mondo. Tuttavia forse ci avrei dovuto pensare un po’ di più, perché, appena ho superato una linea invisibile, ciò mi è diventato subito chiaro. Appena ho dato fastidio ai difensori di Israele su una rete sociale, sono stato licenziato in tronco dal mio lavoro di editorialista.

Ho scritto per Guardian-USA dal 2017, prima come collaboratore e poi come editorialista a pieno titolo. Scrivo quasi esclusivamente di politica USA. Non ho mai scritto su Israele. Il mio caporedattore è sempre stato soddisfatto del mio lavoro, per cui ho continuato a ottenere richieste di articoli. Sono bravo a pubblicare rapidamente commenti politici acuti, con buone fonti e che richiedono poche modifiche. Per quanto posso ricordare, solo una volta un mio articolo è stato corretto, ed è successo quando ho criticato Joe Biden sui legami di Hunter Biden [figlio dell’attuale presidente USA, ndtr.] con casi di corruzione.

Ecco il contesto del mio licenziamento. Alla fine di dicembre il Congresso ha autorizzato un nuovo pacchetto di aiuti finanziari per il COVID. Nel contempo, ha anche approvato altri 500 milioni di dollari di aiuti militari a Israele. Per molto tempo Israele è stato uno dei maggiori beneficiari di aiuto militare USA, superato negli ultimi anni solo dall’Afghanistan (benché non come quantità di dollari pro-capite). Secondo il Servizio Ricerche del Congresso, è il “maggiore percettore complessivo dell’assistenza estera degli USA dalla Seconda Guerra Mondiale,” e l’aiuto USA rappresenta circa il 20% del bilancio israeliano per la difesa. Ecco una cartina del 2015 ripresa dalla CNN

È stato sconfortante vedere che, mentre il Congresso stava concedendo al popolo americano un aiuto troppo ridotto per il COVID, dava all’esercito più tecnologicamente avanzato al mondo altri missili da crociera. I difensori dell’accordo hanno evidenziato che tecnicamente i soldi a Israele per comprare armi non facevano parte della stessa legge sugli aiuti per il COVID, ma di una legge per stanziamenti approvata contemporaneamente, che è una valida risposta a quanti affermavano che il denaro era “parte della legge per gli aiuti contro il COVID”, ma ciò non giustifica affatto la spesa.

Personalmente ero allibito e depresso di vedere nuovi finanziamenti per missili israeliani approvati contemporaneamente a scarsissimi aiuti per il COVID. Israele è una potenza nucleare (una cosa che ufficialmente non conferma né smentisce, ma generalmente gli esperti la considerano vera e Benjamin Netanyahu una volta inavvertitamente l’ha ammesso). Ha un dominio praticamente totale sui palestinesi. Gli abbiamo già dato talmente tanti aiuti militari che non ne ha bisogno. Perché, durante la pandemia, il Congresso dirotta soldi per nuovi sistemi missilistici?

Sono, con mia grande vergogna, discretamente attivo su Twitter, così ho manifestato la mia rabbia con un tweet ironico. Sarcasticamente ho scritto due tweet collegati: (1) “Sapete che il Congresso non è in realtà autorizzato ad approvare nessuna nuova spesa finché una parte di essa non è destinata a comprare armi per Israele? Questa è la legge.” (2) “o se non proprio una legge scritta, comunque è talmente radicata nel costume politico da essere per il suo funzionamento indistinguibile da una legge.” Ovviamente il primo tweet era ironico (cosa comune su Twitter), ma per essere assolutamente sicuro che nessuno pensasse che fosse una sorta di legge realmente esistente, ho aggiunto un secondo tweet per rendere chiarissimo che stavo scherzando, che era al 100% una battuta, che non ci fosse posto per un’interpretazione errata riguardo a questa battuta. Non leggo le risposte su Twitter perché sono regolarmente piene solo di cose sgradevoli e non mi piace mettermi a discutere. Ma un collega mi ha detto che alcune persone mi avevano definito “antisemita”.

Mi sono messo a ridere perché era chiaramente assurdo, un esempio che più fumettistico non si può di una critica legittima definita fanatismo. Avevo solo evidenziato il fatto, assolutamente veritiero, che noi inviamo grandi quantità di aiuti militari a Israele, che noi privilegiamo con un appoggio speciale persino durante una pandemia. Una volta Nancy Pelosi ha detto: “Se Washington crollasse al suolo l’ultima cosa che resterebbe è il nostro appoggio a Israele,” e io le credo. Una volta Joe Biden ha detto che se non ci fosse Israele gli USA “dovrebbero inventarselo” per proteggere i nostri interessi. Come ha notato in un rapporto il Servizio Ricerche del Congresso, gli USA sono direttamente impegnati in un rapporto speciale con Israele che lo aiuterà a conservare una “superiorità militare qualitativa” su altri Paesi. Che Israele abbia un accesso prioritario alla tecnologia bellica USA è una politica esplicita del governo USA.

Quando twitti, soprattutto riguardo a qualcosa di discutibile, puoi aspettarti che qualcuno si arrabbi e ti insulti. Non avevo la minima idea di quanto rapidamente sarei stato licenziato.

Più tardi quel giorno ho ricevuto una mail da John Mulholland, direttore del Guardian USA. In precedenza non avevo mai ricevuto un messaggio da lui, dato che la maggior parte dei miei contatti con il Guardian passano dal caporedattore che si occupa del mio lavoro. Non lo citerò, perché è una persona corretta e non vorrei danneggiare la sua situazione. L’oggetto del messaggio di Mulholland era “privato e riservato”. Lo riproduco qui per intero:

Ciao Nathan.

Dato che tu ti presenti in parte come editorialista del Guardian permettimi di esprimere la mia preoccupazione quando fai un’affermazione come la seguente [link al tweet di Robinson, ndtr.]. Una legge simile non esiste, nel qual caso questa è, per così dire, una fake news, a prescindere dal successivo tweet in cui tu affermi che essa è “indistinguibile da una legge.” Non è una legge. Punto.

Dati i discorsi sconsiderati dell’anno scorso, e oltre, su come mitici “gruppi/associazioni ebraiche” detengano il potere su ogni forma di vita pubblica negli USA, non capisco come ciò possa contribuire al dibattito pubblico. E non capisco perché prendere di mira l’aiuto finanziario a Israele in un tweet e fuori da ogni contesto – senza parlare anche dell’aiuto ora o in passato ad altri Paesi– sia un utile contributo al dibattito pubblico.

Ovviamente sei libero di utilizzare Twitter in qualunque modo tu decida, ma mi sgomenta che qualcuno che si presenta come editorialista del Guardian possa fare un’affermazione così chiaramente sbagliata senza, come ho osservato, alcuna contestualizzazione/giustificazione.

Affermare che l’unico Stato ebraico controlla il Paese più potente al mondo è chiaramente antisemita. Il mito del ‘potere ebraico’ segnala un odio letale. Cancella e chiedi scusa.”

Ora, alcune cose dovrebbero colpirvi. Primo, il fatto che l’oggetto del messaggio di Mulholland sia “privato e riservato” significa che non voleva che altre persone sapessero quello che mi stava dicendo. Avrebbe preferito che le sue parole rimanessero segrete. L’avebbe preferito, ma definire una mail come privata è una richiesta, non un obbligo giuridico.

Secondo, la sua affermazione che il mio tweet sia una “fake news” che potrebbe ingannare delle persone è chiaramente senza senso. Il sarcasmo, come ho detto, è normale su Twitter e, nell’eventualità che qualcuno fosse così ottuso da credere che non stessi scherzando e che ogni nuova spesa richiedesse un nuovo aiuto a Israele, ho incluso un tweet allegato chiarendolo. Non c’è assolutamente nessuna possibilità che Mulholland mi mandasse questo messaggio se l’argomento non fosse stato Israele. Il suo problema non era che abbia utilizzato l’ironia. Se avessi detto “negli USA c’è una legge che impone al Congresso di approvare una legge di spesa solo se contiene una grande somma di inutili sprechi (non una vera legge, ma in pratica c’è),” nessuna persona ragionevole avrebbe potuto pensare che sarebbe stato richiamato dal direttore del Guardian.

No, questo è stato un pretesto. Il grosso problema è stato, come ho detto, che io avrei preso di mira l’unico Stato ebraico, criticandolo senza notare l’aiuto ricevuto da altri Stati. La sua mail sembra citare alla fine qualcuno che lo ha definito antisemitismo, benché non sia chiaro da dove sia ricavata la citazione.

Ciò che risultava chiaramente dal messaggio è che Mulholland era molto incazzato. Come ho detto, l’accusa è assurda:, non sono stato io ad aver privilegiato Israele, ma la politica USA! Io ho solo evidenziato che ciò è quello che facciamo e che lo facciamo intenzionalmente, perché crediamo che Israele abbia un particolare diritto a un “vantaggio militare qualitativo” che i suoi vicini non hanno. Ma ho rapidamente percepito che il mio lavoro poteva essere in pericolo. Così ho cancellato il tweet ed ho risposto a Mulholland scusandomi per aver fatto una cosa che potesse essere interpretato come compromettente per il giornale. Ho bisogno del mio stipendio, e, benché fosse profondamente frustrante per me che il Guardian sindacasse sui miei tweet, a malincuore mi sono reso conto che avrei dovuto accettare i nuovi limiti che mi aspettavo sarebbero stati posti al mio discorso pubblico. Sapevo che la censura sarebbe stata irritante, ma sembrava inevitabile e speravo che sarebbe stata limitata. Lavoro precario significa che il datore di lavoro esercita un potere coercitivo sulla libertà di parola dei dipendenti, anche fuori dal lavoro, e io, come chiunque altro, ho l’affitto da pagare.

Mulholland mi ha risposto, affermando che apprezzava le mie scuse e suggeriva di lasciarci alle spalle l’incidente. Il mio capo redattore mi ha scritto chiedendo informazioni sui tweet, affermando che il Guardian era dispiaciuto, ma mi ha detto di non preoccuparmi. L’ho interpretato come se ciò significasse che finché avessi tenuto la bocca chiusa riguardo a Israele su Twitter, il Guardian avrebbe continuato a pubblicare i miei articoli su altri argomenti. Un ignobile compromesso, sicuramente, che retrospettivamente non avrei dovuto neppure prendere in considerazione. È difficile giustificare il fatto di stare zitto riguardo all’aiuto militare degli Stati Uniti a un Paese che viola i diritti umani, solo perché hai bisogno di uno stipendio, ma chi scrive e dipende da quello che guadagna scrivendo deve affrontare scelte difficili quando il padrone ti dice quali opinioni hai il diritto di avere in pubblico. Eppure sul momento ho conservato la speranza che ci fosse un modo per cui avrei potuto continuare a scrivere. Mi sono detto che avrei fatto del mio meglio per affermare ciò che penso in modo onesto senza incorrere nella censura editoriale, benché temessi ciò che avrebbe potuto comportare.

Ma poi è successa una cosa strana. Nelle settimane successive il mio capo-redattore ha curiosamente smesso di comunicare con me. Gli ho mandato suggerimenti su suggerimenti per nuovi articoli. Nessuna risposta. Eppure avevo avuto la promessa che avrebbero parlato presto con me, senza conseguenze. Era molto strano, perché l’anno prima mi aveva sempre chiamato chiedendomi nuovo materiale per gli articoli. Improvvisamente, silenzio totale.

Finalmente lunedì 8 [febbraio] ho ricevuto una chiamata da lui. Mi ha detto che avrebbero voluto pubblicare i miei articoli, ma che le cose con Mulholland per il momento lo avevano reso impossibile e che dovevano avere un colloquio con lui per chiarire la situazione. Ho cercato ancora una volta di essere accomodante, ho detto che mi sarei adeguato alle nuove regole e che sarei stato felice di parlare con Mulholland per discutere delle sue aspettative.

Ormai era chiaro che mi stavano esplicitamente censurando per aver mandato un tweet critico nei confronti di Israele. Il mio capo-redattore ha chiarito che, se non fosse stato per il tweet, avrebbero accettato le mie proposte di articoli. Le garanzie di Mulholland, secondo cui chi scrive per il Guardian ha la “libertà” di esprimere le proprie opinioni erano chiaramente false. Sei libero, ma se te la prendi con Israele i tuoi suggerimenti finiscono nel cestino. Il mio editore lo ha ammesso esplicitamente con me, affermando che il rifiuto delle mie proposte di articoli era il diretto risultato del tweet.

Ma ho scoperto di non essere stato ignorato solo temporaneamente. Martedì il mio capo-redattore mi ha chiamato e mi ha detto che, dopo una conversazione con Mulholland, si era deciso di eliminare definitivamente la mia rubrica. Ho chiesto se sarebbe stato possibile per me parlare con Mulholland e trovare una soluzione. Il mio capo-redattore mi ha risposto di no e che Mulholland aveva deciso che il giornale non avrebbe più lavorato con me in futuro, intendendo che non dovessi neppure perdere tempo a mandare bozze di articoli occasionali come freelance. Hanno offerto di pagarmi due articoli come “liquidazione” che non avrebbe coperto lo stipendio di un mese. Non c’è stato neppure il tentativo di criticare il mio lavoro; in effetti il capo-redattore ha affermato esplicitamente che i miei suggerimenti per gli articoli sarebbero stati accettati se Mulholland non si fosse risentito per il mio tweet. Ciò mi è stato detto molto chiaramente: il tuo tweet su Israele ha fatto arrabbiare il direttore. Ora sei licenziato. Non farti più vedere.

*    *    *

Essere licenziato è orribile, soprattutto quando ciò avviene senza preavviso nel bel mezzo di una pandemia, quando è difficile trovare lavoro. Non guadagnavo molto dal mio lavoro al giornale (15.000 dollari [circa 12.000 euro] lo scorso anno), ma scrivere di politica a sinistra non è remunerativo e avevo bisogno di quei soldi. Avrei dovuto essere disposto ad accettare un qualche controllo sulle mie reti sociali da parte del Guardian nel disperato tentativo di conservare il mio lavoro. Ma quando si tratta di critiche contro Israele non c’è una seconda opportunità, indipendentemente da quanto sia giustificata la critica e per quanto ciò sia lontano dal vero antisemitismo. Non importa che abbia prontamente cancellato le mie parole. Hai superato il limite, sei fuori. Non è a causa di una vasta cospirazione, ma di una politica in base la quale un alleato degli Stati Uniti è considerato al di sopra di ogni critica (anche l’Arabia Saudita è spesso esente da critiche).

Il Guardian è probabilmente il più “progressista” tra igiornali importanti degli Stati Uniti, quindi in base al suo modo di fare c’è parecchio da parlare dei limiti riguardanti il discorso su Israele. Il giornale non è di destra e pubblica critiche contro Israele, che sicuramente porterebbe a dimostrazione del suo impegno a favore del libero dibattito. Non sto sostenendo che il Guardian non dia mai voce alle critiche contro Israele o alla politica USA nei confronti di Israele, ma che vuole controllare attentamente le affermazioni dei propri giornalisti sull’argomento ed essere sicuro che dicano solo quello che i direttori del giornale ritengono accettabile.

Oltretutto è chiaro che il Guardian non vuole che si sappia che censurerà i post sulle reti sociali dei suoi giornalisti riguardo a Israele. Mulholland non vuole che racconti a qualcuno quello che mi ha detto. Vuole sottolineare che io ero assolutamente libero di dire quello che volevo. Nessuno mi ha dato una serie di direttive su quello che potevo o non potevo dire, perché ciò sarebbe stato un esplicito riconoscimento che i giornalisti non sono liberi, che devono rispettare una certa direttiva riguardo a Israele e scrivere solo quello che è approvato dalla linea editoriale. Ho chiesto esplicitamente linee guida riguardo a cosa potessi o non potessi dire, ma, mentre il Guardian ha linee guida aziendali sul design e sullo stile, non ha un codice formale riguardo al contenuto, ne ha solo uno non scritto.

A lungo ho criticato quanti dipingono la sinistra come un gruppo di guerrieri totalitari “con una cultura della censura” che cercano di soffocare la libertà di parola. Questa immagine è l’esatto contrario. Reazionari e fanatici hanno in genere a disposizione grandi megafoni. D’altra parte attivisti del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) agiscono sotto la minaccia di denunce penali. Sono assolutamente a favore della libertà di parola, sia per ragioni di principio che pratiche, ma ho criticato alcuni dei discorsi a favore della libertà di parola che trattano la sinistra come la principale minaccia e non citano il modo in cui chi critica Israele possa essere licenziato per i propri discorsi. Per esempio, la lettera aperta della rivista Harper [storico mensile USA di cultura, politica e arte, ndtr.] a favore di un dibattito libero e aperto esprime nobili sentimenti, ma sembra più preoccupata della minaccia alla giustizia sociale che di quella agli attivisti filopalestinesi.

Il Guardian non è obbligato ad assumermi come editorialista, benché io sia un ottimo editorialista. Essendo io stesso direttore di una rivista, non pubblico tutti i punti di vista. Siamo selettivi. Facciamo delle scelte editoriali. Questa è una nostra prerogativa (benché io non pensi di avere mai criticato un giornalista per qualcosa che abbia twittato nel tempo libero e offrirei ai giornalisti la massima libertà d’azione con i loro tweet prima ancora di considerare che affermazioni sulle reti sociali possano compromettere l’assunzione di un giornalista da parte di Current Affairs). Non penso che il New York Times sbagli a dire di non voler pubblicare editoriali che chiedono la repressione militare contro i dissidenti. Non penso che una casa editrice debba pubblicare qualunque libro. Se la posizione del Guardian è che i suoi opinionisti possono avere solo una gamma limitata di opinioni o debbano essere controllati molto attentamente perché non la violino, pazienza. Il defunto antropologo David Graeber, un tempo collaboratore fisso del giornale, negli ultimi anni di vita si è rifiutato di averci a che fare affermando che il Guardian utilizzava la presenza di collaboratori di sinistra come copertura per portare avanti le sue pretestuose accuse di antisemitismo contro il partito Laburista di Jeremy Corbyn, e più di un critico ha affermato che il Guardian ha cinicamente brandito l’antisemitismo per difendere l’ala centrista del Labour contro la sinistra).

Ma ammettiamo che il Guardian abbia ragione riguardo a quello che fa e alle posizioni ideologiche che pretende dai suoi giornalisti. Ammettiamo che gli abbonati e i lettori del Guardian sappiano che se gli editorialisti del giornale oltrepassano il limite verranno licenziati, il che significa che i lettori non ascoltano necessariamente le opinioni che ascolterebbero se il giornale non esercitasse un controllo attivo sull’opinione degli editorialisti. A un certo punto il mio capo-redattore mi ha detto che il giornale considera quello che gli editorialisti dicono sui media sociali un continuo problema e sta cercando di trovare un modo per risolvere la questione. Suppongo che effettivamente sia difficile, perché il Guardian vuole avere il diritto di licenziare le persone se dicono qualcosa di sbagliato, continuando nel contempo a sostenere di non fare una cosa del genere e mantenendo la disciplina con mail “private e riservate” invece di stendere un vademecum.

In ogni caso sono fortunato. Ho la mia rivista, sulla quale posso parlare in modo assolutamente libero, dovendo rendere conto solo ai nostri abbonati. Se non avessi un modesto stipendio da un’altra parte, perdere questo reddito sarebbe ancora più disastroso. Ho molti dubbi che, considerando che ora sono stato licenziato da un quotidiano per presunto antisemitismo, sarò assunto da un altro giornale. Devo augurarmi che Current Affairs continui a sopravvivere. Non è sicuro. Siamo una piccola rivista indipendente finanziata esclusivamente dagli abbonati e da piccoli donatori. Invece il Guardian è finanziato da una grande fondazione con un contributo di 1 miliardo di sterline [1 miliardo 14 milioni di euro, ndtr.].

Ho notato che molte persone che sono esplicitamente a favore della libertà di parola hanno poco da dire quando chi critica Israele deve affrontare conseguenze professionali. Eppure il mio caso è relativamente banale e l’attenzione dovrebbe concentrarsi sui palestinesi che sono stati massacrati e mutilati dalle aggressioni dell’esercito israeliano. Le vite di questi palestinesi non valgono assolutamente niente per quanti hanno manifestato più indignazione riguardo al mio tweet che al concreto uso dei sistemi d’arma che stiamo vendendo a Israele.

Il vero problema con la censura ai danni di chi critica Israele è che rende più facile al governo di quel Paese continuare ad assassinare manifestanti e a mantenere un blocco che, secondo le Nazioni Unite, “nega fondamentali diritti umani contravvenendo alle leggi internazionali e che rappresenta una punizione collettiva.” Nel 2018 centinaia di palestinesi, compresi minori e medici, sono stati colpiti da cecchini israeliani durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno – secondo Middle East Monitor “in un solo giorno, il 14 maggio, l’esercito israeliano ha colpito e ucciso sette minorenni” e oltre 1.000 manifestanti sono stati colpiti da proiettili veri – ma Israele non ha mai dovuto renderne conto e gli Stati Uniti continuano a rifornirlo di armi.

Spero tuttavia che si possa vedere esattamente come funziona la repressione delle critiche a Israele. Dici la cosa sbagliata, perdi il posto. Non hai una seconda possibilità. Sarai tacciato di antisemitismo e perderai il tuo lavoro da un giorno all’altro. Questa è una delle ragioni fondamentali per cui Israele continua a cavarsela nonostante commetta crimini orribili. Parlare onestamente e francamente dei fatti rischia di portare a una immediata censura. Le violazioni dei diritti umani continuano impunemente. E quando i cecchini israeliani prendono di mira i minori palestinesi, il Guardian è suo complice.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Centotrentacinque docenti universitari israeliani nel Regno Unito e altrove esortano i senati accademici a respingere una definizione viziata di antisemitismo.  

Israeli Academics ,Regno Unito

11 gennaio 2021 israeliacademics uk

Gli accademici esprimono ferma opposizione alla imposizione da parte del governo della definizione “intrinsecamente viziata” ed esortano le università britanniche, fedeli al proprio impegno a favore della libertà accademica e della libertà di parola, a respingerla mentre continua incessante la loro lotta contro ogni forma di razzismo, antisemitismo compreso

Appello perché venga respinta la “definizione operativa di antisemitismo” dell’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 al fine di rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, n.d.tr.].

 

Destinatari: vicerettori, membri dei senati accademici, tutti gli altri docenti nonché studenti in Gran Bretagna & l’Onorevole Gavin Williamson, Segretario di Stato all’Istruzione

Oggetto: la “definizione operativa di antisemitismo” dell’IHRA

 

Noi, nella doppia veste di docenti universitari britannici e cittadini israeliani, siamo fermamente contrari all’imposizione sulle università inglesi da parte del governo della “definizione operativa di antisemitismo” dell’IHRA. Facciamo appello a tutti i senati accademici affinché respingano il documento dell’IHRA ovvero, qualora esso sia già stato adottato, si adoperino per revocarlo. 

Rappresentiamo un gruppo eterogeneo per ambito disciplinare, appartenenza etnica e fascia di età. Ci accomuna un’esperienza protratta di lotta al razzismo. Per tale motivo abbiamo espresso critiche ad Israele per le sue persistenti politiche di occupazione, espropriazione, segregazione e discriminazione nei confronti del popolo palestinese. La nostra prospettiva storica e politica è fortemente condizionata dai molteplici genocidi dei tempi moderni, in particolare dell’Olocausto, nel quale diversi di noi hanno perduto membri delle proprie famiglie estese. La lezione che siamo determinati a trarre dalla storia è l’impegno a combattere tutte le forme di razzismo.

 

È proprio in virtù di queste prospettive personali, accademiche e politiche che siamo sconcertati per la lettera che Gavin Williamson, Segretario di Stato all’Istruzione, ha inviato ai nostri vicerettori in data 9 ottobre 2020. Sotto l’esplicita minaccia di sospendere i finanziamenti, la lettera cerca di forzare le università ad adottare la controversa “definizione operativa di antisemitismo” proposta inizialmente dalla Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto (IHRA). Combattere l’antisemitismo in tutte le sue forme è un’esigenza imprescindibile. Tuttavia il documento dell’IHRA è intrinsecamente viziato tanto da pregiudicare tale lotta. Inoltre esso rappresenta una minaccia nei confronti della libertà di parola e di insegnamento, oltre a costituire un attacco sia contro il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi sia contro la battaglia per la democratizzazione di Israele.

 

Il documento dell’IHRA è stato ampiamente criticato in numerose occasioni. Qui ci limitiamo ad accennare ad alcuni aspetti particolarmente negativi nell’ambito dell’istruzione universitaria. Il documento consiste di due parti. La prima, citata nella lettera di Williamson, è una definizione di antisemitismo articolata come segue:

L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o le loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”.

Tale formulazione è così vaga nel linguaggio oltre che carente nel contenuto da risultare inutilizzabile. Per un verso, essa si affida a termini poco chiari quali “una certa percezione” e “può essere espressa come odio”. Per contro, omette di menzionare elementi chiave quali “pregiudizio” e “discriminazione”. Ma soprattutto questa “definizione” è nettamente più debole e meno efficace dei regolamenti e delle leggi già in vigore o in via di adozione in ambito universitario.

Inoltre le pressioni esercitate dal governo sulle università perché adottino una definizione creata esclusivamente per un’unica forma di razzismo testimoniano un’attenzione esclusiva per le persone di origine ebraica, come se queste meritassero maggiore protezione di altri individui che subiscono regolarmente simili se non peggiori manifestazioni di discriminazione e razzismo.

 

La seconda parte del documento dell’IHRA presenta ciò che descrive come undici esempi di antisemitismo contemporaneo, sette dei quali si riferiscono allo Stato di Israele. Alcuni di questi “esempi” travisano la nozione di antisemitismo. Essi ottengono altresì un effetto dissuasivo nei confronti di quei docenti e studenti universitari che intendano legittimamente criticare l’oppressione esercitata da Israele sui palestinesi oppure che vogliano studiare il conflitto israelo-palestinese. Infine, interferiscono con il diritto che abbiamo in quanto cittadini israeliani di partecipare liberamente alle vicende politiche israeliane.

Per dare un’idea, un esempio di antisemitismo è “[affermare] che l’esistenza dello Stato di Israele è una espressione di razzismo”. Un altro atto antisemita, secondo il documento, è “richiedere ad [Israele] un comportamento non atteso da o non richiesto a nessun altro Stato democratico”. Sarebbe sicuramente legittimo, tanto più in ambito accademico, poter discutere se Israele, in quanto autoproclamato Stato ebraico, sia “un progetto razzistaoppure una “Nazione democratica”.

Attualmente la popolazione sotto il controllo di Israele comprende 14 milioni di persone, di cui quasi 5 milioni sono privi dei diritti fondamentali. Dei 9 milioni rimanenti il 21% (circa 1,8 milioni) sono stati sistematicamente discriminati da quando è stato fondato lo Stato israeliano. Questa discriminazione si manifesta in decine di leggi e politiche riguardanti i diritti di proprietà, l’istruzione e l’accesso alla terra e alle risorse. Tutte le persone che fanno parte dei 6,8 milioni a cui è negato l’accesso ad una piena democrazia sono non-ebrei. Un esempio emblematico è la “legge del ritorno”, che consente a tutti gli ebrei – ma solo agli ebrei – che vivono in qualsiasi parte del mondo di emigrare in Israele ottenendo la cittadinanza israeliana, diritto estendibile a coniugi e discendenti. Al contempo, si nega invece a milioni di palestinesi ed ai loro discendenti, sfollati o esiliati, il diritto di ritornare nella loro madrepatria.

Tali leggi e politiche statuali discriminatorie in altri sistemi politici contemporanei o del passato – si tratti di Cina, USA o Australia – vengono legittimamente e regolarmente passate al vaglio dagli specialisti e dall’opinione pubblica, criticate variamente come forme di razzismo istituzionalizzato e paragonate a certi regimi fascisti, compreso quello della Germania prima del 1939. In realtà, le analogie storiche sono uno strumento comune nella ricerca accademica. Tuttavia secondo il Segretario all’Istruzione soltanto quelle riguardanti lo Stato di Israele d’ora in poi vengono proibite agli studiosi e agli studenti in Inghilterra. Nessuno Stato dovrebbe essere al riparo da tali legittime discussioni accademiche.

 

Inoltre, mentre il documento dell’IHRA considera qualsiasi “accostamento della politica contemporanea israeliana a quella dei nazisti” una forma di antisemitismo, molti in Israele, sia al centro sia alla sinistra della scena politica, hanno fatto paragoni simili. Un esempio recente è una dichiarazione del 2016 di Yair Golan, membro della Knesset (il parlamento israeliano) ed ex vice-comandante dello stato maggiore dell’esercito israeliano. Un altro è il confronto fra Israele e il nazismo allo stadio iniziale fatto nel 2018 dall’illustre storico e politologo vincitore del premio Israele Zeev Sternhell, che è stato fino alla sua recente scomparsa uno dei massimi esperti di fascismo. Tali analogie vengono spesso fatte regolarmente anche negli editoriali dell’autorevole quotidiano israeliano Haaretz.

L’uso di tali analogie non è affatto nuovo. Per dare un’idea, alla fine del 1948 un illustre gruppo di intellettuali, fra cui Albert Einstein e Hannah Arendt, e rabbini ebrei pubblicò una lettera sul New York Times in cui accusò  Menachem Begin (futuro primo ministro di Israele) di essere alla guida di “un partito politico molto vicino per organizzazione, metodi, filosofia politica e mobilitazione della società ai partiti nazista e fascista.”

Con i suoi undici “esempi”, il documento dell’IHRA è già stato utilizzato per reprimere la libertà di parola e la libertà di insegnamento (vedi qui, qui, qui). È preoccupante che sia servito a bollare la lotta contro l’Occupazione e l’espropriazione da parte di Israele come “antisemita”. Come hanno dichiarato in una lettera al Guardian [quotidiano inglese di centro-sinistra, ndtr.]122 intellettuali arabi e palestinesi:

Crediamo che nessun diritto all’autodeterminazione debba includere il diritto di sradicare un altro popolo e impedirgli di tornare nella sua terra, o qualsiasi altro mezzo per garantire una maggioranza demografica all’interno dello Stato. La rivendicazione da parte dei palestinesi del loro diritto al ritorno nella terra da cui loro stessi, i loro genitori e nonni sono stati espulsi non può essere interpretata come antisemita… È un diritto riconosciuto dalle leggi internazionali come dichiarato nella risoluzione 194 del 1948 dell’assemblea generale delle Nazioni Unite….Rivolgere indistintamente l’accusa di antisemitismo contro chiunque consideri razzista l’attuale Stato di Israele, nonostante l’effettiva discriminazione istituzionale e costituzionale su cui si basa, equivale a garantire a Israele l’impunità assoluta.” [ cfr Zeitun  ndr]

 

In una recente lettera l’onorevole Kate Green [del Partito Laburista, ndtr.], Segretaria di Stato Ombra dell’Istruzione, ha approvato l’imposizione del documento dell’IHRA alle università inglesi, affermando: “Potremo [combattere l’antisemitismo] soltanto se ascolteremo e ci confronteremo con la comunità ebraica.” Ciononostante, in qualità di cittadini israeliani residenti in Gran Bretagna, molti di origine ebraica, insieme con altri appartenenti alla comunità ebraica britannica, chiediamo che anche la nostra voce venga ascoltata, e riteniamo che il documento dell’IHRA rappresenti un passo nella direzione sbagliata. Esso fa oggetto di attenzione esclusiva la persecuzione degli ebrei; inibisce la libertà di parola e di insegnamento; priva i palestinesi del proprio diritto di parola nello spazio pubblico britannico ed infine impedisce a noi, cittadini israeliani, di esercitare il nostro diritto democratico di contestare il nostro governo. Per questi ed altri motivi, persino il redattore originale del documento dell’IHRA, Kenneth Stern, ha ammonito:

Gruppi ebraici di destra hanno preso la “definizione operativa” che includeva alcuni esempi su Israele…, e hanno deciso di strumentalizzarla. … [Questo documento] non ha mai avuto l’intenzione di diventare un codice da utilizzarsi in ambito universitario contro i discorsi di incitamento all’odio… eppure [da parte della destra è stato usato come] un attacco contro la libertà di parola e di insegnamento, e non danneggerà soltanto i sostenitori della causa palestinese, ma anche l’università, gli studenti ebrei e lo stesso mondo della ricerca. …Sono sionista. Tuttavia nelle… università, la cui finalità è l’esplorazione delle idee, anche gli antisionisti hanno diritto di espressione. … Inoltre, all’interno della comunità ebraica si discute se essere ebreo si traduca necessariamente nell’essere anche sionista. Ignoro se ci sia una risposta a questo quesito, ma tutti gli ebrei dovrebbero temere il fatto che sia in pratica il governo a stabilire per noi quale sia la risposta. (The Guardian, 13 dicembre 2019).

  

Queste preoccupazioni sono condivise da molti altri, fra cui centinaia di studenti britannici, esperti di antisemitismo e razzismo, oltre a numerosi gruppi ed associazioni palestinesi ed ebraici impegnati nella difesa della giustizia sociale sia in Gran Bretagna sia in altre parti del mondo, quali l’Institute of Race Relations [istituto di ricerca antirazzista britannico, n.d.tr.], Liberty [ovvero Consiglio Nazionale per le Libertà Civili, organizzazione apartitica per i diritti fondamentali e le libertà nel Regno Unito, n.d.tr.], l’ex giudice della Corte di Appello Sir Stephen Sedley e il rabbino Laura Janner-Klausner.

 

Ci uniamo alla richiesta che le università britanniche rimangano fermamente ancorate alla libertà di parola e di insegnamento. Sollecitiamo le università britanniche a continuare a lottare contro ogni forma di razzismo, antisemitismo compreso. Il documento dell’IHRA è viziato e rende un cattivo servizio a tali obiettivi. Noi pertanto ci appelliamo a tutti i senati accademici affinché respingano i decreti governativi che ne impongono l’adozione, ovvero, qualora esso sia già stato adottato, si adoperino per revocarlo. 

 

Firmatari:

  1. Prof. Hagit Borer FBA, università Queen Mary di Londra
  2. Dr. Moshe Behar, università di Manchester
  3. Dr. Yonatan Shemmer, università di Sheffield
  4. Dr. Hedi Viterbo, università Queen Mary di Londra
  5. Dr. Yael Friedman, università di Portsmouth
  6. Dr. Ophira Gamliel, università di Glasgow
  7. Dr. Moriel Ram, università di Newcastle
  8. Prof. Neve Gordon, università Queen Mary di Londra
  9. Prof. Emeritus Moshé Machover, King’s College di Londra
  10. Dr. Catherine Rottenberg, università di Nottingham
  11. PhD Candidate Daphna Baram, università di Lancaster
  12. Dr. Yuval Evri, King’s College Londra
  13. Dr. Yohai Hakak, Brunel università di Londra
  14. Dr. Judit Druks, University College Londra
  15. PhD Candidate Edith Pick, università Queen Mary di Londra
  16. Prof. Emeritus Avi Shlaim FBA, università di Belfast
  17. Dr. Hagar Kotef, SOAS, università di Londra
  18. Prof. Emerita Nira Yuval-Davis, università di East London, Premio dell’Associazione internazionale di Sociologia del 2018 per eccellenza nella Ricerca e nella Prassi .
  19. Dr. Assaf Givati, King’s College Londra
  20. Prof. Yossef Rapoport, università Queen Mary University di Londra
  21. Prof. Haim Yacobi, University College Londra
  22. Prof. Gilat Levy, London School of Economics
  23. Dr. Noam Leshem, università di Durham
  24. Dr. Chana Morgenstern, università di Cambridge
  25. Prof. Amir Paz-Fuchs, università del Sussex
  26. PhD Candidate Maayan Niezna, università del Kent
  27. Prof. Emeritus, Ephraim Nimnie, Queen’s University Belfast
  28. Dr. Eytan Zweig, università di York
  29. Dr. Anat Pick, Queen Mary, università di Londra
  30. Prof. Joseph Raz FBA, King’s College di Londra, vincitore del Tang Prize per lo Stato di Diritto, 2018
  31. Dr. Itamar Kastner, università di Edinburgo
  32. Prof. Dori Kimel, università di Oxford
  33. Prof. Eyal Weizman MBE FBA, Goldsmiths, università di Londra
  34. Dr. Daniel Mann, King’s College di Londra
  35. Dr. Shaul Bar-Haim, università dell’Essex
  36. Dr. Idit Nathan, University of the Arts Londra
  37. Dr. Ariel Caine, università Goldsmiths di Londra
  38. Prof. Ilan Pappe, università di Exeter
  39. Prof. Oreet Ashery, università di Oxford, Turner Bursary 2020
  40. Dr. Jon Simons, in pensione
  41. Dr. Noam Maggor, università Queen Mary di Londra
  42. Dr. Pil Kollectiv, università di Reading, docente dell’HEA
  43. Dr. Galia Kollectiv, università di Reading, docente dell’HEA
  44. Dr. Maayan Geva, università di Roehampton
  45. Dr. Adi Kuntsman, università metropolitana di Manchester
  46. Dr. Shaul Mitelpunkt, università di York
  47. Dr. Daniel Rubinstein, Central Saint Martins, University of the Arts, Londra
  48. Dr. Tamar Keren-Portnoy, università di York
  49. Dr. Yael Padan, University College di Londra
  50. Dr. Roman Vater, università di Cambridge
  51. Dr. Shai Kassirer, università di Brighton
  52. PhD Candidate Shira Wachsmann, Royal College of Art
  53. Prof. Oren Yiftachel, University College di Londra
  54. Prof. Erez Levon, università Queen Mary di Londra
  55. Prof. Amos Paran, University College di Londra
  56. Dr. Raz Weiner, università Queen Mary di Londra
  57. Dr. Deborah Talmi, università di Cambridge
  58. Dr. Emerita Susie Malka Kaneti Barry, università di Brunel
  59. Dottorando Ronit Matar, università di Essex
  60. Dottorando Michal Rotem, università Queen Mary di Londra
  61. DR. Mollie Gerver, università di Essex
  62. Prof. Haim Bresheeth-Zabner, SOAS
  63. Dottorando Lior Suchoy, Imperial College di Londra
  64. Dr. Michal Sapir, Independente

Accademici israeliani che appoggiano nel resto del mondo:

  1. Prof. Amos Goldberg, The Hebrew University di Gerusalemme
  2. Dottorando Aviad Albert, università di Colonia
  3. Dr. Noa Levin, Centre Marc Bloch, Berlino
  4. Prof. Paul Mendes-Flohr
  5. Dr. Uri Horesh
  6. Prof. Roy Wagner, ETH di Zurigo
  7. Prof. Dmitry Shumsky
  8. Prof. Nurit Peled-Elhanan, Università Ebraica e David Yellin Academic College
  9. Prof. Arie Dubnov, università George Washington
  10. Prof. Natalie Rothman, università di Toronto
  11. Dr. Anat Matar, università di Tel Aviv
  12. Dr. Ido Shahar, università di Haifa
  13. Prof. Nir Gov, Weizmann Institute
  14. Prof. Emeritus Amiram Goldblum, Università Ebraica di    Gerusalemme
  15. Dr. Itamar Shachar, università di Gent, Belgio
  16. Prof. Emeritus Jacob Katriel, Technion – Israel Institute of Technology
  17. Dr. Eyal Shimoni, Weizmann Institute of Science
  18. Dr. Gilad Liberman, Harvard Medical School
  19. Prof. Emeritus Emmanuel Farjoun, Università Ebraica di   Gerusalemme
  20.  
  21. Prof. Avner Ben-Amos, università di Tel Aviv
  22. Dr. Alon Marcus, The Open University di Israele
  23. Dr. Uri Davis, università di Exeter, Exeter, università UK &       AL-QUDS
  24. Prof. Emeritus Avishai Ehrlich, The Academic College di Tel Aviv-      Giaffa
  25. Prof. Naama Rokem, università di Chicago
  26. Dr. Marcelo Svirsky, università di Wollongong
  27. Prof. Atalia Omer, università di Notre Dame
  28. Prof. Emeritus, Jose Brunner, università di Tel Aviv
  29. Dr. Michael Dahan, Sapir College
  30. Dr. Naor Ben-Yehoyada, Columbia University
  31. Dr. Shai Gortler, università del Western Cape
  32. Dr. Roni Gechtman, università Mount Saint Vincent, Halifax,     Canada
  33. Prof. Ivy Sichel, UC Santa Cruz
  34. Prof. Ofer Aharony, Weizmann Institute
  35. Prof. Outi Bat-El Foux, università di Tel-Aviv
  36. Dr. Elazar Elhanan, CCNY
  37. Dr .Ofer Shinar Levanon
  38. Prof. Emeritus Isaac Nevo
  39. Prof. Emerita Nomi Erteschik-Shir, università Ben-Gurion del Negev
  40. Prof. Yinon Cohen, Columbia University
  41. Dottorando Revital Madar
  42. Prof. Yael Sharvit, UCLA
  43. Prof.  Emeritus Isaac Cohen, università statle di San Jose
  44. Dr. Kobi Snitz, Weizmann Institute of Science
  45. Dr. Irena Botwinik, Open University, Israele
  46. Prof. Niza Yanay, università Ben Gurion
  47. Prof. Julia Resnik, Università Ebraica di Gerusalemme
  48. Prof. Charles Manekin, università di Maryland
  49. Prof. Jerome Bourdon, università di Tel Aviv
  50. Dr. Ilan saban, università di Haifa
  51. Dottoranda Netta Amar-Shiff, università Ben Gurion
  52. Prof. Emeritus Ron Kuzar, università di Haifa
  53. Dr. Yanay Israeli, Hebrew università di Gerusalemme
  54. Prof. Emeritus Avner Giladi, università di Haifa
  55. Prof. Emerita Esther Levinger, università di Haifa
  56. Prof. Emeritus Micah Leshem, università di Haifa
  57. Prof. Jonathan Alschech, università della Northern British Columbia
  58. Prof. Emeritus Yehoshua Frenkel, università di Haifa
  59. Prof. Yuval Yonay, università di Haifa
  60. Prof. Emerita Vered Kraus, università di Haifa
  61. Dr. Amit G., università israeliane
  62. Dr. Shakhar Rahav, università di Haifa
  63. Prof. Emeritus Yoav Peled, università di Tel Aviv
  64. Prof. Emerita Linda Dittmar, università del Massachusetts
  65. Prof. Emeritus Uri Bar-Joseph, università di Haifa
  66. Dr. Ayelet Ben-Yishai, università di Haifa
  67. Gilad Melzer, Beit Berl College
  68. Prof. Raphael Greenberg, università di Tel Aviv
  69. Prof. Emerita Sara Helman, università Ben Gurion
  70. Dr. Itamar Mann, università di Haifa
  71. Dr. Tamar Berger

 

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 

 




Esperti ONU chiedono a Israele di porre fine alla tortura e ai trattamenti inumani nei confronti dei palestinesi

Redazione MEE

9 febbraio 2021 – Middle East Eye

Un gruppo di esperti sui diritti umani afferma che Israele ha utilizzato ‘un pericoloso cavillo del sistema giudiziario israeliano’ per difendere l’uso della tortura

Esperti ONU sui diritti umani hanno chiesto a Israele di porre fine all’uso della tortura e di altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti, che, hanno sottolineato, è stato unanimemente vietato dal diritto internazionale, contro i palestinesi.

Israele dovrebbe “urgentemente e completamente rivedere, sospendere e/o abrogare la clausola della difesa per necessità applicata nelle indagini penali, e tutte le leggi, i regolamenti, le politiche e le prassi che autorizzano, giustificano, avallano o in qualunque modo comportano l’impunità per tali gravi violazioni dei diritti umani”, hanno affermato lunedì gli esperti in una dichiarazione.

Il gruppo di esperti di diritto – che include Stanley Michael Lynk, relatore speciale sui diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967 – ha affermato di essere allarmato per l’uso di “tecniche di interrogatorio potenziate” utilizzate dalle forze di sicurezza israeliane contro il palestinese Samer al-Arbeed.

Arbeed è stato arrestato nel 2019 in quanto sospettato di essere coinvolto in un attacco nella Cisgiordania occupata. Nel settembre 2019, dopo aver subito l’interrogatorio da parte del servizio interno di intelligence israeliano Shin Bet, è stato trasferito all’ospedale Hadassah di Gerusalemme in condizioni critiche. Soffriva di blocco renale e frattura delle costole.

Siamo allarmati perché Israele non ha perseguito, punito e posto rimedio alle torture e ai maltrattamenti perpetrati nei confronti di Mr. Al-Arbeed”, ha affermato il gruppo di esperti.

Occuparsi di simili violenze non è a discrezione del governo o della magistratura, ma costituisce un obbligo assoluto in base al diritto internazionale.”

Nel 1999 la Corte Suprema israeliana emise una sentenza che vietava tali torture. Tuttavia la legge contiene un cavillo per cui chi svolge gli interrogatori può difendere l’uso della forza quando ci sia il timore di un imminente attacco.

Gli esperti ONU hanno affermato che questa è “una difesa fuorviante” che consente l’impunità de facto agli israeliani che interrogano, anche quando le loro tecniche di interrogatorio si configurano come tortura o altre misure crudeli e inumane.

Secondo i dati raccolti dalla Commissione Pubblica contro la Tortura in Israele [Ong israeliana, ndtr.], dal 2001 sono state presentate oltre 1.200 denunce contro lo Shin Bet. Di tali denunce nemmeno una è giunta a processo.

Consentire a singoli agenti di avvalersi della ‘necessità di difesa’ contro le cause penali è un pericoloso stratagemma all’interno del sistema giudiziario israeliano, che di fatto giustifica l’interrogatorio coercitivo di persone sospettate di essere in possesso di informazioni su operazioni militari”, hanno sostenuto.

Gli esperti hanno inoltre detto che le vittime di tortura dovrebbero ricevere piena riabilitazione e totale risarcimento per quello che hanno subito.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

Sulla tortura e in particolare sul caso di Samer Abeed