Rapporto OCHA del periodo 2 – 15 marzo 2021

Il 7 marzo, a Gaza, al largo della costa di Khan Younis, in una barca palestinese si è verificata un’esplosione che ha provocato la morte di tre pescatori, due fratelli e un loro cugino.

La causa è stata inizialmente attribuita al malfunzionamento di un razzo durante una prova effettuata da gruppi armati palestinesi, che hanno però negato tale ipotesi. A seguito di un’indagine, il Ministero dell’Interno di Gaza ha ipotizzato che i pescatori avessero tirato su con le loro reti un drone israeliano, caduto in mare e contenente esplosivo. Le autorità israeliane hanno negato qualsiasi coinvolgimento nell’episodio.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno ferito sessantadue palestinesi, inclusi nove minori [seguono dettagli]. Quarantuno di loro sono rimasti feriti in scontri verificatisi in cinque villaggi del governatorato di Nablus: da parte palestinese si è ricorso principalmente al lancio di pietre e da parte delle forze israeliane al lancio di lacrimogeni e proiettili di gomma. Sedici persone sono rimaste ferite in altri scontri scoppiati durante quattro operazioni di ricerca-arresto condotte nella città di Al Bireh (Ramallah) e nei Campi profughi di Ad Duheisha (Betlemme), Al Fawwar (Hebron) e Al Am’ari (Ramallah). I rimanenti feriti si sono avuti nei governatorati di Betlemme, Qalqiliya e Gerusalemme, in scontri con lancio di bottiglie incendiarie contro veicoli israeliani, durante una protesta settimanale e durante scontri ad hoc. Complessivamente, 35 palestinesi sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, nove sono stati colpiti da proiettili veri, 12 da proiettili di gomma e sei sono stati aggrediti fisicamente. Infine, un pastore palestinese è rimasto ferito per l’esplosione di un residuato bellico che stava maneggiando.

L’8 marzo, a Tubas, nel corso di una operazione di ricerca-arresto, due palestinesi e un soldato israeliano sono rimasti feriti; secondo fonti israeliane, uno dei palestinesi sarebbe stato colpito e arrestato nel corso dell’operazione mentre cercava di accoltellare un soldato. Sempre secondo fonti israeliane, in un altro episodio verificatosi lo stesso giorno, una donna palestinese è stata arrestata in un insediamento avamposto, prossimo al villaggio di Ras Karkar (Ramallah), per aver tentato di accoltellare una colona.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 193 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 172 palestinesi, inclusi 15 minori. Il governatorato di Ramallah ha registrato il maggior numero di operazioni (48), seguito dai governatorati di Hebron (37) e Gerusalemme (35).

In aree di Gaza adiacenti alla recinzione perimetrale e in mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco d’avvertimento in almeno 29 occasioni, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi]: due pescatori sono stati feriti, mentre la loro barca ha subito danni. In altre tre occasioni, le forze israeliane [sono entrate in Gaza e] hanno spianato terreni adiacenti alla recinzione. Non sono stati segnalati feriti.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 26 strutture di proprietà palestinese, sfollando 42 persone, di cui 24 minori, e colpendone in altro modo circa 120 [seguono dettagli]. Diciassette delle strutture interessate e tutti gli sfollamenti sono stati registrati in Area C. Due edifici sono stati demoliti nel villaggio di Ein Shibli (Nablus), sfollando 17 persone, sulla base di “Ordini militari 1797” che consentono la demolizione entro 96 ore dall’emissione di un ordine di rimozione”. I restanti sfollamenti derivano dalla demolizione di quattro case nelle Comunità di At Tuwani e Khallet Athaba a Hebron, e a Beit Jala a Betlemme. Il sostentamento di 20 persone è stato colpito dallo smantellamento di una bancarella per la vendita di ortaggi vicino alla città di Qalqiliya; altre 16 persone sono state colpite dalla demolizione di due case disabitate e dalla confisca di un container metallico a Isteih (Gerico). Due delle nove strutture prese di mira a Gerusalemme Est sono state demolite dal proprietario.

Nel governatorato di Hebron, coloni israeliani, o individui ritenuti tali, hanno ferito sei palestinesi e danneggiato proprietà palestinesi, compresi veicoli e alberi. Quattro dei feriti sono stati aggrediti fisicamente in tre diversi episodi [seguono dettagli]. Due ragazzi, di 13 e 14 anni, sono rimasti feriti in due distinti episodi avvenuti rispettivamente nell’Area H2 della città di Hebron e nella zona di Bir al ‘Idd; in quest’ultimo caso, l’asino che il ragazzo stava cavalcando è stato accoltellato. Un uomo e una donna sono stati aggrediti con mazze vicino al Mantikat Shi’b al Butum: l’uomo ha riportato gravi ferite alla testa. I restanti due feriti erano pastori, aggrediti con pietre e coltelli vicino a Bani Na’im (Hebron); tre delle loro pecore sono state ferite. In diverse altre occasioni a Hebron (Saadet Tha’lah) e Betlemme (Kisan), coloni israeliani hanno scacciato i pastori dalla zona. Almeno 42 alberi e alberelli sono stati sradicati nei villaggi di At Tuwani (Hebron) e Kafr Qaddum (Qalqiliya); inoltre, in quest’ultima località, nel corso dell’episodio citato, sono stati rubati attrezzi agricoli. Palestinesi hanno riferito che, a Yanun (Nablus), coloni hanno pascolato il loro bestiame su terreni appartenenti a palestinesi del villaggio, danneggiando ulivi, mentre a Ein Samiya (Ramallah), hanno aggredito agricoltori che lavoravano la loro terra, danneggiando un trattore. Secondo fonti palestinesi, nei villaggi di Jalud e Huwwara (Nablus) e Kafr ad Dik e Bruqin (Salfit), coloni israeliani hanno danneggiato almeno cinque veicoli, una casa e una struttura agricola.

Il 10 marzo, nel governatorato di Hebron, nei pressi dell’insediamento avamposto di Havat Maon, cinque ragazzi palestinesi di età intorno ai 10 anni, mentre raccoglievano erbe selvatiche, sono stati fermati da coloni. Sono stati poi portati dai soldati alla stazione di polizia di Kiryat Arba, a quanto riferito perché sospettati di aver tentato di rubare dei pappagalli. Sono stati rilasciati in giornata.

In quattro episodi, autori ritenuti palestinesi, hanno colpito con pietre e ferito quattro israeliani: due vicino agli insediamenti di Rimonim (Gerusalemme) e Gush Etzion (Betlemme), un autista entrato accidentalmente ad Al Isawiya (Gerusalemme Est) e un altro all’ingresso del villaggio di Bidiya (Salfit). Secondo fonti israeliane, venticinque veicoli israeliani che transitavano sulle strade della Cisgiordania, sono stati danneggiati da pietre.

294

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Perché non posso vivere con il trauma di Gaza

Tamam Abusalama

15 marzo 2021 – Electronic Intifada

Mio padre rispose a una telefonata che lo avvertiva che tutta la nostra famiglia doveva evacuare la nostra casa. Stava per essere bombardata.

La chiamata veniva da qualcuno che lavorava per il comitato internazionale della Croce Rossa. Arrivò un giorno durante l’operazione Piombo Fuso, una pesante offensiva israeliana contro Gaza tra la fine del dicembre 2008 e le prime settimane del gennaio 2009.

Non ricordo la data esatta della chiamata. In quel periodo tutti i giorni sembravano uguali.

Per le strade vuote non c’era gente. Ma erano piene di macerie degli edifici che erano stati distrutti o danneggiati.

Nell’aria si sentiva l’odore degli esplosivi.

Era inquietante, ma non silenzioso.

I carri armati e gli elicotteri israeliani erano estremamente rumorosi. Più rumorosi di qualunque altra cosa riuscissimo a sentire.

Al-Saftawi, il quartiere in cui vivevano a nord di Gaza, era buio e spaventoso. Non c’erano acqua, cibo e quasi per niente energia elettrica.

Panico

Il giorno in cui abbiamo ricevuto quella chiamata ha lasciato una cicatrice nella mia anima.

Ricordo mio padre gridare il mio nome e quelli dei miei fratelli e sorelle. Doveva avvertire anche le altre persone che vivevano nel nostro caseggiato.

Sentivo il panico nella sua voce.

Ricordo i vicini affrettarsi verso di noi per aiutarci.

Uno mi teneva per mano mentre correvo. Ero scalza.

Avevo riempito una borsa con quelle poche cose che io, allora quindicenne, consideravo preziose.

In quella borsa finirono i miei vestiti preferiti e il mio diario. Avevo anche messo delle cose che mi avrebbero ricordato i miei migliori amici.

Ma ho dovuto abbandonare la borsa.

Quando ho implorato mio padre di permettermi di portarla, mi disse di uscire immediatamente.

Tutti quelli che abitavano nel nostro edificio si rifugiarono in un altro davanti a casa nostra.

Aspettammo.

Aspettavamo che Israele bombardasse tutto quello che avevamo.

La nostra casa aveva cinque piani e un giardino paradisiaco, con olivi, limoni, fichi e palme. Era stata costruita dai miei genitori con soldi guadagnati duramente. Sul retro avevamo un’altalena. Da bambina mi faceva sentire una privilegiata.

In casa avevamo una foto incorniciata dei nostri nonni. Era un ricordo costante delle traversie della nostra famiglia, di come noi fossimo dei rifugiati perché i nostri nonni erano stati espulsi dai loro villaggi natii di Beit Jirja e Isdud [il primo era un villaggio distrutto dagli israeliani nel 1948, la seconda è l’attuale città israeliana di Ashdot, n.d.tr.] dalle forze sioniste nel 1948.

Le affiliazioni politiche della nostra famiglia erano ovvie dalle foto sui muri.

La fotografia dei miei nonni era appesa accanto a quella di George Habash, il fondatore del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [storico gruppo marxista-leninista della resistenza palestinese, n.d.tr.].

La mia casa rappresentava tutto per me. Ora stavo aspettando che venisse fatta saltare in aria.

Aspettammo per quella che ci sembrò un’eternità. Non successe niente. Fortunatamente.

Non c’è tempo per rimarginare le ferite

L’operazione Piombo Fuso durò tre settimane, durante le quali Israele uccise circa 1400 palestinesi, principalmente civili, inclusi più di 300 minorenni.

Quando finì, avrei voluto che tutto si fermasse per alcuni giorni, così avremmo potuto elaborare quello che avevamo passato, la crudeltà a cui gli israeliani ci avevano sottoposto.

Ma non c’era tempo per metabolizzare. La vita doveva andare avanti.

I palestinesi a Gaza, me inclusa, devono fare i conti con paura e perdite fin da piccoli.

Dopo ogni evento traumatico si continua con le faccende quotidiane. Poi, inaspettato, si verifica un altro evento traumatico.

Dopo l’operazione Piombo Fuso ho fatto quello che ho potuto per vivere una vita ordinaria. Son tornata a scuola e ho fatto finta che tutto fosse a posto.

Ma non era così.

Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a sfuggire a quello che era successo il primo giorno dell’operazione Piombo Fuso. Il rumore degli elicotteri israeliani ronzava ancora nella mia testa.

Io e mia sorella Shahd eravamo a scuola il giorno in cui gli israeliani hanno attaccato una località vicina.

Siamo scappate da scuola insieme, ma fuori ci siamo separate. Per la strada continuavo a chiamare Shahd, ma non riuscivo a trovarla.

Fortunatamente, ci siamo ritrovate dopo poco. Ma da allora mi ha accompagnata il pensiero che quel giorno Shahd sarebbe potuta essere uccisa.

Sono ancora perseguitata anche dall’immagine dei miei compagni di scuola che correvano di qua e di là cercando disperatamente riparo.

E non dimenticherò mai come la nostra famiglia dovette dare la terribile notizia a una nostra amica che allora stava a casa nostra. Anche suo padre stava con noi e fu ucciso durante un’incursione aerea israeliana mentre andava a fare la spesa.

Abbiamo dovuto informare la mia amica e i suoi fratelli della morte del loro padre.

Nessun futuro

Anche se non riuscivo a togliermi queste cose dalla testa, sono riuscita a vivere con un certo grado di normalità fino agli inizi del 2011. Poi sono scoppiate le rivolte in Egitto e Tunisia.

I giovani a Gaza sono stati ispirati da quelle rivolte. Ci spronavano a lottare per i nostri diritti.

Abbiamo iniziato a progettare le nostre proteste e abbiamo cominciato a mobilitarci sui social.

Le attività politiche mi distraevano dai miei studi. Passavo le mattine a scuola e il resto del giorno nelle proteste o organizzandole con gli altri attivisti.

Quell’anno a marzo, abbiamo protestato per tre giorni consecutivi prima che le autorità guidate da Hamas mettessero fine alla nostra protesta. Poliziotti in borghese ci hanno picchiati.

Quel poco di ottimismo nato dalla rivolta egiziana e tunisina a Gaza non è durato a lungo.

L’assedio imposto da Israele ed Egitto ha continuato ad avere un effetto soffocante sulle nostre vite.

I giovani hanno continuato ad essere disperati. La disoccupazione era ancora alta e quasi tutte le famiglie dipendevano da aiuti alimentari, particolarmente delle Nazioni Unite.

Alla fine del 2011 mi sono iscritta all’università di al-Azhar a Gaza City. Ho cominciato un corso di laurea in letteratura inglese e francese.

Andare all’università dovrebbe essere un’esperienza gioiosa ed emozionante. Eppure sentivo che né io né qualsiasi altro giovane avrebbe potuto avere un bel futuro a Gaza.

Per le ragazze è ancora più difficile che per i loro coetanei maschi. Le autorità a guida Hamas non vedono di buon occhio, per usare un eufemismo, donne politicamente attive come me.

Decenni di colonizzazione israeliana hanno reso più pronunciata la cultura patriarcale a Gaza.

Il blocco totale imposto da Israele dal 2006 ci ha isolati dal resto del mondo.

Una conseguenza è che la società è diventata più conservatrice. L’uguaglianza di genere non è considerata come una priorità da molti nel momento in cui peggiorano le condizioni economiche.

Dopo meno di un anno all’università di al-Azhar, ho deciso di lasciare Gaza e trasferirmi in un posto più sicuro. Un posto dove avrei potuto vivere più libera.

Sono andata in Turchia, dove ho studiato giornalismo all’Università di Ankara.

Dalla Turchia ho fatto vari viaggi in Europa. Mi sono poi trasferita in Belgio, dove adesso studio francese.

Ora manco da Gaza da otto anni. Quasi la metà di questo periodo l’ho passato a Bruxelles, dove mi hanno concesso lo status di rifugiata.

Eppure gli orrori di cui sono stata testimone a Gaza non mi hanno abbandonata.

Ho spesso problemi a dormire. Quando riesco ad addormentarmi, spesso ho degli incubi.

Sono regolarmente assalita da paura e ansia. Mi sento insicura, instabile e incerta.

Ho dei flashback delle facce dei miei genitori quando ci hanno detto di andarcene di casa. Erano terrorizzati e impotenti, impossibilitati a compiere il loro dovere fondamentale di proteggere i loro figli.

Ho paura di perdere qualcuno che amo, o cose preziose che mi sono guadagnata con fatica.

Una sensazione di pericolo incombe su di me da molto tempo.

Sono ossessionata dal pensiero di programmare i giorni e talvolta persino le ore seguenti. Se le cose non vanno come avrei voluto, ho degli attacchi di panico.

Trauma complesso

Il trauma che ho subito è complesso e ho deciso che non posso conviverci.

La psicologia occidentale ha dei limiti quando si tratta di quello che i palestinesi hanno vissuto.

Spesso sentiamo che il disturbo da stress post-traumatico è prevalente a Gaza. Il prefisso “post” implica che il trauma è dietro di noi, mentre invece in realtà è costante.

Nonostante i limiti della psicologia occidentale, ho cominciato una terapia cognitivo-comportamentale in Europa occidentale.

Ho cominciato sapendo che il processo di guarigione sarebbe stato lungo e difficile, specialmente perché la violenza inflitta a Gaza sta continuando. Ma il processo è stato facilitato perché ho trovato la terapista giusta che ha capito che il mio trauma è simultaneamente personale e il risultato di quello che i palestinesi hanno vissuto per molte generazioni.

Il mio trauma è parte della memoria e della coscienza collettiva dei palestinesi.

Durante i miei incontri psicoterapeutici, ho imparato di più sull’origine di ognuna delle emozioni che provo.

Ciò mi ha aiutato a sviluppare una strategia. Cerco di affrontare, accettare ed esprimere le paure, invece di evitarle.

Sono costantemente conscia che devo vivere nel presente, invece di lasciare che i ricordi prendano il controllo.

La resilienza del mio popolo mi dà la forza e la speranza che mi servono per continuare.

Riconoscere il trauma che ho subìto mi ha fatta quello che sono oggi e ha modellato la mia consapevolezza delle altre ingiustizie nel mondo. Mi ha resa più forte.

Guerra psicologica

Israele combatte una guerra psicologica che fa parte dell’occupazione. È parte di una strategia deliberata.

Ariel Sharon, ex leader politico e militare israeliano, ha sviluppato una filosofia di quello che è stato definito “mantenere l’incertezza.”

L’analista Alastair Crooke ha scritto di come, implementando la filosofia di Sharon, Israele abbia “ripetutamente esteso e poi limitato lo spazio in cui i palestinesi possono operare attraverso un’imprevedibile combinazione di regolamenti mutevoli fatti rispettare in modo selettivo.”

La Palestina stessa è stata divisa con la costruzione di colonie israeliane e una rete di strade riservate per i coloni. Tutto ciò è inteso a indurre nei palestinesi un senso di “provvisorietà permanente,” scrive Crooke.

La guerra psicologica israeliana è diventata più estrema dopo l’operazione Piombo Fuso.

Durante i pesanti attacchi contro Gaza del 2012 e 2014, Israele ha adottato tattiche più possenti di quanto non ne abbia precedentemente impiegate per tormentare e perseguitare. Le forze israeliane hanno telefonato a palestinesi con messaggi ostili, lanciato da aerei volantini con contenuti intimidatori e interrotto programmi radiotelevisivi palestinesi per trasmettere propaganda israeliana.

La decisione della Corte Penale Internazionale di aprire un’indagine sui crimini nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza è significativa. Finalmente Israele potrebbe essere chiamato a rispondere di alcuni dei suoi crimini.

La decisione solleva anche domande.

Perché la CPI ha impiegato così tanto tempo ad arrivare a questa decisione?

Perché la CPI vuole indagare sulle attività sia di Israele che dei gruppi armati palestinesi? Perché sta trattando “entrambe le parti” – l’occupante e l’occupato – come se fossero uguali?

Perché l’indagine è limitata a eventi che sono successi dopo il giugno 2014? Ciò significa che molti dei crimini israeliani– inclusi quelli commessi durante l’Operazione Piombo Fuso – sono stati ignorati.

Finirà veramente mai l’impunità israeliana? Le vite dei palestinesi importeranno mai ai governi e alle istituzioni più potenti al mondo?

I palestinesi sanno molto bene che gli USA e l’Unione Europea sono complici dei crimini commessi contro di loro. Essi si presentano come avvocati dei diritti umani, eppure finanziano e consentono le violazioni israeliane dei diritti basilari dei palestinesi.

Alcuni dei protagonisti dell’operazione Piombo Fuso godono di una rispettabilità immeritata.

Gabi Ashkenazi, il generale che ha comandato l’offensiva, è ora ministro degli Esteri israeliano. Ciò significa che detiene la carica che Tzipi Livni ha occupato nel 2008 e agli inizi del 2009, quando incoraggiò le truppe israeliane a comportarsi con estrema violenza durante l’attacco contro Gaza.

Oggi, Livni siede nel consiglio di amministrazione dell’International Crisis Group [ong transazionale con sede a Bruxelles e che ha tra i fondatori George Soros, n.d.tr.]. Il sito web dell’International Crisis Group afferma che esso sta “lavorando per prevenire guerre e definire politiche che costruiranno un mondo più pacifico.”

Israele ha sempre agito come se fosse al di sopra del diritto internazionale. Sin dalla sua costituzione, Israele tratta i palestinesi fin dalla culla come una “bomba demografica ad orologeria”.

Sebbene Israele abbia sviluppato e messo in pratica una gamma di tecniche differenti per contenere e spezzare i palestinesi, noi non siamo andati via.

Come ha scritto Tawfiq Ziyad, uno dei nostri grandi poeti:

Qui noi rimarremo

Un muro sopra il nostro petto
affamati, nudi, cantiamo canzoni
riempiamo le strade
con dimostrazioni

e le prigioni con orgoglio
noi generiamo ribellioni
una dopo l’altra
come se fossimo una ventina di impossibilità restiamo

A Lydda, Ramleh, Galilea.

Tamam Abusalama è nata e cresciuta nella Striscia di Gaza. Ora vive in Belgio.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Vaccinare i palestinesi solo se è funzionale a Israele

Maureen Clare Murphy

12 marzo 2021 – The Electronic Intifada

Come direbbero i ragazzini, Il COGAT [Coordinatore delle attività governative nei territori: unità del ministero della difesa israeliano che coordina le questioni civili tra il governo di Israele, le forze di difesa israeliane, le organizzazioni internazionali, i diplomatici e l’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] ricomincia con le sue stronzate.

All’inizio di questa settimana l’ente militare israeliano ha twittato foto di lavoratori palestinesi mentre vengono vaccinati contro il COVID-19 ai posti di blocco in Cisgiordania.

Il COGAT, famigerato per la sua propaganda mediocre e strumentale, ha affermato che l’iniziativa sui vaccini “è un passo importante per assicurare la salute pubblica e la stabilità economica”.

“Fatevi vaccinare!” ha implorato il COGAT, il quale troppo spesso ritarda o nega ai palestinesi i permessi di viaggio per accedere alle cure mediche.

Tuttavia la stragrande maggioranza dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione militare israeliana, anche se lo volesse, non potrebbe essere vaccinata.

Mentre Israele si vanta della sua campagna di vaccinazione di tutti i suoi cittadini, ha rifiutato di fornire il vaccino ai palestinesi che vivono sotto occupazione, in base a quanto previsto dalla Quarta Convenzione di Ginevra.

Vaccinare i palestinesi a vantaggio di Israele

Israele ha recentemente iniziato a fornire vaccini a circa 130.000 palestinesi che lavorano nelle sue fabbriche, nei suoi cantieri e nelle sue colonie, il lavoro sottopagato e sfruttato da cui dipende l’economia israeliana.

Ma Israele non fornirà vaccini ai restanti oltre 5 milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Come ha detto un palestinese alla Reuters “ Anche i lavoratori palestinesi che [gli israeliani] hanno vaccinato, lo hanno fatto a vantaggio della comunità israeliana, non in funzione del benessere dei lavoratori”.

 

Omar Shakir, direttore del programma di Human Rights Watch [organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani, ndtr.] ha osservato che “vaccinare solo quei palestinesi che entrano in contatto con israeliani rafforza [l’idea] che per le autorità israeliane la vita palestinese conti solo nella misura in cui influisca sulla vita ebraica”.

Nel frattempo le unità di terapia intensiva degli ospedali di alcune aree della Cisgiordania stanno attualmente operando al 100% della capacità, poiché nelle comunità palestinesi del territorio i casi di COVID-19 sono in aumento.

Nelle ultime due settimane le città palestinesi hanno introdotto blocchi totali per controllare la crescita del numero delle infezioni da COVID-19, proprio mentre il vicino Israele ha iniziato a revocare le restrizioni procede con una delle campagne di vaccinazione più veloci al mondo”, ha riferito la Reuters.

Apartheid sanitario

La disparità nell’accesso ai vaccini COVID-19 è un chiaro esempio del regime israeliano di apartheid imposto dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo.

“Il regime israeliano mette in campo leggi, pratiche e violenze di Stato progettate per cementare la supremazia di un gruppo – gli ebrei – su un altro – i palestinesi”, ha affermato l’associazione per i diritti umani B’Tselem [organizzazione israeliana non governativa che documenta le violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, ndtr.] in un recente studio.

La distribuzione del vaccino è una dimostrazione scioccante di come gli strateghi israeliani si muovano in modo di volta in volta differente riguardo ai gruppi sottoposti alle sue norme inique.

Mentre i palestinesi con cittadinanza o residenza israeliana hanno diritto a ricevere i vaccini da Israele, i palestinesi in possesso di documenti di identità della Cisgiordania sono stati cacciati dai siti di vaccinazione gestiti da Israele.

L’apartheid sanitario nei territori sotto il controllo di Israele non è una novità.

Physicians for Human Rights-Israel [Medici per i diritti umani: ONG no profit con sede negli Stati Uniti che utilizza medicina e scienza per documentare le gravi violazioni dei diritti umani in tutto il mondo, ndtr.] ha affermato che le disparità nelle condizioni della salute tra israeliani e palestinesi derivano direttamente dall’occupazione.

Uno studio del 2015 dell’organizzazione ha rilevato che l’aspettativa di vita dei palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gaza è di circa 10 anni inferiore a quella in Israele.

Lo stesso studio ha rilevato che la mortalità infantile e la mortalità materna erano quattro volte superiori in Cisgiordania e Gaza rispetto a Israele.

Nello stesso anno, uno studio dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, ha individuato nell’assedio da parte di Israele una delle ragioni dell’aumento a Gaza, per la prima volta in 50 anni, del tasso di mortalità infantile.

Le organizzazioni palestinesi per i diritti umani affermano che il regime dell’apartheid israeliano “ha portato per decenni alla frammentazione e al deterioramento del sistema sanitario” della Cisgiordania e di Gaza.

Ciò ha “negato ai palestinesi il diritto al soddisfacimento di standard ottimali di salute fisica e mentale”.

Vaccini al posto di blocco

La salute dei palestinesi è profondamente intrecciata con l’occupazione israeliana. Il COGAT lo dimostra inconsapevolmente nei suoi tweet sui lavoratori palestinesi che ricevono le vaccinazioni ai posti di blocco militari, che chiama eufemisticamente “punti di passaggio“.

Qualsiasi vaccino che i palestinesi ricevano, sia da Israele che da qualunque altro organismo, dovrebbe passare attraverso i posti di blocco israeliani.

Israele ha rallentato il primo trasferimento di dosi di vaccino agli operatori sanitari a Gaza poiché alcuni parlamentari hanno cercato di condizionare la spedizione a concessioni politiche da parte di Hamas.

Lo ha fatto mentre trasferiva vaccini in altri Paesi in cambio del loro sostegno politico:

giovedì i palestinesi di Gaza hanno ricevuto 40.000 dosi del vaccino russo Sputnik V.

Secondo quanto riferito, le dosi costituivano una donazione da parte degli Emirati Arabi Uniti, assicurata da Muhammad Dahlan, l’ex capo dell’intelligence dell’Autorità Nazionale Palestinese diventato signore della guerra e rivale del leader dell’ANP Mahmoud Abbas all’interno della fazione di Fatah.

Dahlan ha condotto una breve e sanguinosa guerra civile a Gaza dopo la vittoria di Hamas nelle elezioni legislative palestinesi del 2006. Le sue forze sono state sconfitte e Dahlan ora vive in esilio nello Stato del Golfo ricco di petrolio.

Secondo la Reuters, Dahlan ha dichiarato che metà della spedizione di vaccini a Gaza sarebbe stata assegnata ai palestinesi in Cisgiordania.

I pochissimi vaccini che sono arrivati ​​in Cisgiordania non sono stati distribuiti equamente dall’Autorità Nazionale Palestinese che, secondo quanto riferito, li ha assegnati alle élite del partito di Fatah, agli organi di informazione allineati e ai loro familiari.

Resta da vedere se Israele consentirà il trasferimento delle dosi da Gaza alla Cisgiordania, o se il COGAT scoprirà in esso una utilità propagandistica.

E così i palestinesi che vivono sotto l’occupazione militare continueranno ad aspettare mentre la loro salute viene gestita da Israele, da Dahlan e dall’Autorità Nazionale Palestinese in termini di battaglia politica e mentre i Paesi terzi stanno a guardare senza far nulla.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




In Nuova Zelanda il Super Fund dà il benservito alle banche israeliane che finanziano le colonie in Palestina

Roger Fowler

5 marzo 2021 The Palestine Chronicle

In Nuova Zelanda il fondo pensione statale multimiliardario NZ Super Fund ha finalmente disinvestito da cinque delle maggiori banche israeliane perché finanziano la costruzione di colonie illegali nei territori palestinesi occupati.

Il parlamentare del partito neozelandese dei Verdi Golriz Ghahraman ha affermato in una dichiarazione a Spinoff [rivista online neozelandese, ndtr] che il Partito dei Verdi ha accolto con entusiasmo la decisione:

“Da molto tempo i valori e gli obblighi morali della nostra nazione sono calpestati da investimenti che facilitano ciò che l’ONU ha ripetutamente definito un’occupazione illegale, che causa sofferenza al popolo palestinese e si traduce in ulteriori violazioni del diritto umanitario.”

Questa settimana il PSNA [Palestine Solidarity Network Aotearoa, rete neozelandese di associazioni nata nel 2013 per sostenere la causa palestinese, ndtr] ha dichiarato che i sostenitori della Palestina in Aotearoa/Nuova Zelanda [Aotearoa è la denominazione Maori del Paese, ndtr] hanno più volte denunciato queste banche al NZ Super Fund, specialmente dopo che un rapporto di Human Rights Watch del 2018 ha accertato che esse hanno contribuito attivamente alla costruzione delle colonie, in violazione della legge internazionale.

Nel 2012 NZ Super Fund aveva già messo fine per motivi etici ai suoi investimenti in tre compagnie israeliane che stavano costruendo colonie illegali su terre palestinesi.

Janfrie Wakim, portavoce di PSNA, ha dichiarato che Super Fund NZ ha finalmente condotto una indagine accurata arrivando alla conclusione definitiva che sarebbe stato immorale continuare ad investire con queste banche.

“Sia il grande numero di notizie certe sia la legge rendono insostenibile per Super Fund NZ la possibilità di continuare ad investire con queste banche. Nessuna istituzione neozelandese dovrebbe fornire alcun sostegno alla costante espropriazione del popolo palestinese nella sua stessa terra e alla brutale occupazione israeliana.”

“Il Fondo, che mantiene ancora investimenti in altre compagnie israeliane, sostiene che presterà la massima attenzione a tutti i futuri rapporti dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani che riguardino il coinvolgimento di altre compagnie israeliane nella costruzione di colonie illegali,” ha aggiunto Waakim.

Il governo neozelandese è “ancora in ritardo”

Janfrie Wakim ha inoltre affermato che la decisione di disinvestire da parte di NZ Super Fund – insieme con gli argomenti usati – ha evidenziato ciò che definisce un terribile ritardo del governo della Nuova Zelanda.

“Il primo disinvestimento di NZ Super Fund ha riguardato il produttore di armi Elbit Systems e risale ormai al 2012.”

“Eppure, il governo neozelandese ha ammesso che sta comprando forniture militari, collaudate sui palestinesi, da Elbit Systems, vale a dire dalla stessa compagnia che NZ Super Fund ha eliminato dal proprio portfolio di investimenti nel 2012,” ha proseguito Wakim.

Per leggere il documento di NZ Super Fund sulle banche israeliane fai click qui.

-Roger Fowler è uno storico attivista per la pace e rappresentante di comunità di Auckland, Aotearoa/New Zealand e coordina Kia Ora Gaza, che organizza il sostegno di convogli di solidarietà internazionale e di Freedom Flotilla per spezzare l’illegale blocco israeliano di Gaza. Roger è il direttore di kiaoragaza.net. Ha scritto questo articolo per The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




Il commercio illegale di armi da parte di Israele

Terry Crawford-Browne – World BEYOND War

Nel 2013 è stato realizzato un documentario israeliano dal titolo “The Lab”, proiettato a Pretoria e a Città del Capo, in Europa, in Australia e negli USA e che ha vinto molti premi, persino al Tel Aviv International Documentary Film Festival [i].

La tesi del film è che l’occupazione israeliana di Gaza e della Cisgiordania è un “laboratorio” in modo che Israele, per esportarle, possa vantare che le sue armi sono state “testate in guerra e collaudate”. E, in modo ancor più grottesco, come il sangue palestinese si trasformi in denaro!

L’ American Friends Service Committee (i quaccheri) a Gerusalemme ha appena reso pubblico il suo “Database of Israeli Military and Security Exports” [Database delle Esportazioni Israeliane Militari e per la Sicurezza] (DIMSE) [ii]. Lo studio dettaglia il mercato globale e l’uso delle armi e dei sistemi di sicurezza di Israele dal 2000 al 2019. India e USA sono stati i due maggiori importatori, con la Turchia al terzo posto. Lo studio rileva:

“Israele ogni anno si trova tra i primi dieci esportatori di armi al mondo, ma non informa regolarmente il registro delle Nazioni Unite sulle armi convenzionali e non ha ratificato il trattato sul commercio delle armi. Il sistema giudiziario israeliano non richiede trasparenza su questioni legate alla vendita di armamenti e attualmente non ci sono limitazioni legali riguardo ai diritti umani dei paesi in cui vengono esportate le armi israeliane, salvo rispettare l’embargo sulla vendita di armi quando disposto dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.”

Israele ha fornito ai dittatori del Myanmar equipaggiamento militare fin dagli anni ’50. Ma solo nel 2017, dopo le proteste internazionali contro i massacri dei musulmani rohingya e dopo che attivisti israeliani per i diritti umani hanno denunciato ai tribunali israeliani tale commercio, il governo israeliano è riuscito a sentirsi in imbarazzo [iii].

Nel 2018 l’ufficio dell’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani ha dichiarato che i generali del Myanmar dovrebbero essere processati per genocidio. Nel 2020 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia ha ordinato al Myanmar di evitare violenze genocide contro la minoranza rohingya e anche di conservare le prove degli attacchi del passato [iv].

Data la storia dell’Olocausto nazista, è diabolico che il governo e l’industria bellica di Israele siano attivamente complici del genocidio in Myanmar e in Palestina, oltre che in molti altri Paesi, compresi Sri Lanka, Ruanda, Kashmir, Serbia e Filippine [v]. È altrettanto scandaloso che gli USA proteggano Israele, uno Stato che è suo satellite, abusando del loro potere di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Nel suo libro intitolato War against the People [Guerra contro il popolo, Edizioni Epoké, 2017], il pacifista israeliano Jeff Halper inizia con una domanda: “Come fa Israele a farla franca?” La sua risposta è che Israele fa il “lavoro sporco” per gli USA non solo in Medio Oriente, ma anche in Africa, America latina e altrove vendendo armi, sistemi di sicurezza e mantenendo al potere dittature attraverso il saccheggio delle risorse naturali, tra cui diamanti, rame, coltan, oro e petrolio [vi].

Il libro di Halper conferma sia “The Lab” che lo studio del DIMSE. Nel 2009 un ex ambasciatore USA in Israele ha polemicamente avvertito Washington che Israele stava diventando sempre più “la terra promessa del crimine organizzato”. Ora la devastazione della sua industria bellica è tale che Israele è diventato uno “Stato canaglia”.

Nove Paesi africani sono inclusi nella banca dati del DIMSE: Angola, Camerun, Costa d’Avorio, Guinea Equatoriale, Kenya, Marocco, Sud Africa, Sud Sudan e Uganda. Le dittature di Angola, Camerun e Uganda sono legate da decenni all’appoggio militare israeliano. Tutti e nove i Paesi sono noti per la corruzione e le violazioni dei diritti umani, che invariabilmente sono interconnesse.

Il dittatore angolano di lunga data Eduardo dos Santos è stato ritenuto l’uomo più ricco dell’Africa, mentre sua figlia Isobel è diventata la donna più ricca [vii]. Entrambi alla fine sono stati processati per corruzione [viii].  Sui depositi di petrolio in Angola, Guinea Equatoriale, Sud Sudan e Sahara occidentale (occupato dal 1975 dal Marocco in violazione delle leggi internazionali) vi è evidenza del coinvolgimento di Israele.

I diamanti insanguinati sono l’attrattiva di Angola e Costa d’Avorio (oltre che della Repubblica Democratica del Congo e Zimbabwe, non inclusi nello studio). La guerra nella RDC viene definita la “Prima Guerra Mondiale dell’Africa”, perché le sue cause sono cobalto, coltan, rame e diamanti industriali richiesti dal cosiddetto business della guerra nel “Primo Mondo”.

Nel 1997 il magnate dei diamanti Dan Gertler [uomo d’affari israeliano, N.d.T.] ha fornito sostegno finanziario attraverso la sua banca israeliana alla cacciata di Mobutu Sese Seko e alla presa del potere nella RDC da parte di Laurent Kabila. In seguito i servizi di sicurezza israeliani hanno mantenuto al potere Kabila e suo figlio Joseph, mentre Gertler saccheggiava le risorse naturali della RDC [ix].

In gennaio, qualche giorno prima di lasciare il potere, l’ex- presidente Donald Trump ha tolto Gertler dalla lista dei soggetti sottoposti a sanzioni in base alla [legge USA] Global Magnitsky [che impone sanzioni contro i responsabili di violazioni dei diritti umani nel mondo, N.d.T.], in cui Gertler era stato inserito nel 2017 per “accordi minerari poco chiari e corrotti nella RDC”. Il tentativo di Trump di “perdonare” Gertler ora è stato messo in discussione presso il Dipartimento di Stato e il Tesoro USA da trenta organizzazioni della società civile congolesi e internazionali [x].

Benché non abbia miniere di diamanti, Israele è il principale centro mondiale per il taglio e la lavorazione degli stessi. Fondato durante la Seconda Guerra Mondiale con l’aiuto del Sudafrica, il commercio di diamanti ha aperto la strada all’industrializzazione di Israele. L’industria dei diamanti israeliana è anche legata sia all’industria bellica che al Mossad [servizio per la sicurezza estera di Israele, N.d.T.] [xi].

Negli ultimi trent’anni la Costa d’Avorio è stata politicamente instabile e la sua produzione di diamanti irrisoria [xii]. Eppure il rapporto DIMSE rivela che il commercio annuale di diamanti della Costa d’Avorio raggiunge tra i 50.000 e i 300.000 carati, e le imprese di armamenti israeliane sono attivamente coinvolte nello scambio tra armi e diamanti.

Negli anni ’90 cittadini israeliani sono stati coinvolti in modo significativo anche nella guerra civile della Sierra Leone e nello scambio tra armi e diamanti. Il colonnello Yair Klein e altri hanno addestrato il Revolutionary United Front (Fronte Unito Rivoluzionario) (RUF). “La tattica che caratterizzava il RUF era l’amputazione di civili, col taglio di braccia, gambe, labbra e orecchie con machete e asce. L’obiettivo del RUF era terrorizzare la popolazione per ottenere il dominio incontrastato sulle miniere di diamanti” [xiii].

Allo stesso modo una società di copertura del Mossad avrebbe truccato le elezioni nello Zimbabwe durante l’era di Mugabe [xiv]. Il Mossad è sospettato di aver poi organizzato nel 2017 il colpo di stato con cui Mnangagwa ha sostituito Mugabe. I diamanti del Marange, nello Zimbabwe, sono esportati in Israele passando per Dubai [città degli Emirati Arabi Uniti, N.d.T.].

A sua volta Dubai – la nuova patria dei fratelli Gupta [ricchissima famiglia di origine indiana, N.d.T.], è nota come uno dei principali centri mondiali di riciclaggio ed è anche uno dei nuovi amici arabi di Israele – rilascia certificati falsi in osservanza al Kimberley Process [impegno a non commerciare diamanti provenienti da zone di conflitto, N.d.T.] che attestano che questi diamanti insanguinati non sono legati a situazioni di conflitto. Le pietre vengono poi tagliate e lavorate in Israele per essere esportate negli USA, destinati principalmente a giovani ingenui che si bevono lo slogan pubblicitario di De Beers secondo cui i diamanti sono per sempre.

Il Sudafrica si colloca al 47° posto nello studio del DIMSE. Dal 2000 le importazioni di armi da Israele riguardano sistemi radar e aerei modulari in base all’accordo BAE/Saab Gripens, veicoli antisommossa e servizi di sicurezza informatica. Sfortunatamente il giro di denaro non è noto. Prima del 2000, nel 1988 il Sudafrica aveva comprato 60 aerei da caccia non più in uso dell’aviazione israeliana. I velivoli, ribattezzati Cheetah, vennero rivenduti al costo di 1,7 miliardi di dollari e consegnati dopo il 1994.

Questa vicinanza a Israele è diventata politicamente imbarazzante per l’ANC [African National Congress, partito al potere in Sudafrica dalla fine dell’apartheid, N.d.T.]. Benché alcuni aerei fossero ancora imballati, questi Cheetah vennero venduti a prezzi scontati a Cile ed Ecuador. Poi vennero sostituiti da BAE Hawks britannici e BAE/Saab Gripens svedesi a un prezzo maggiorato di 2,5 miliardi di dollari.

Lo scandalo per la corruzione relativa alla vendita di armamenti BAE/Saab non è ancora stato chiarito. Nelle circa 160 pagine di deposizioni giurate dell’Ufficio Britannico Antifrode e degli Scorpions [reparto speciale anticorruzione della polizia sudafricana, N.d.T.] si dettaglia come la BAE abbia pagato tangenti per 2 miliardi di rand [circa 110 milioni di euro], a chi sono state pagate queste bustarelle e su quali conti bancari in Sudafrica e all’estero sono state versate.

L’accordo per il finanziamento attraverso la Barclays Bank di questi caccia Bae/Saab, garantito dal governo britannico e firmato da Trevor Manuel [all’epoca ministro delle Finanze sudafricano, N.d.T.], è un esempio da manuale dell’induzione all’indebitamento del “Terzo Mondo” da parte delle banche britanniche.

Benché rappresenti meno dell’1% del commercio internazionale, si stima che il mercato delle armi rappresenti dal 40% al 45% della corruzione mondiale. Questa stima straordinaria è stata fatta – guarda un po’ – dalla Central Intelligence Agency (la CIA) attraverso il Dipartimento USA per il Commercio [xv].

La corruzione legata al commercio delle armi arriva direttamente ai vertici. Include la regina, il principe Carlo e altri membri della famiglia reale britannica [xvi].  Con pochissime eccezioni include anche ogni membro del Congresso USA, indipendentemente dal partito politico. Nel 1961 il presidente Dwight Eisenhower ammonì sulle conseguenze di quello che definì “il complesso militare-industriale-parlamentare”.

Come descritto in “The Lab”, gli squadroni della morte brasiliani e almeno 100 agenti della polizia americana sono stati addestrati ai metodi utilizzati dagli israeliani per eliminare i palestinesi. Le uccisioni di George Floyd a Minneapolis e di molti altri afro-americani in altre città mostrano chiaramente che la violenza e il razzismo dell’apartheid israeliano sono esportati in tutto il mondo. Le proteste dei Black Lives Matter che ne sono derivate hanno messo in luce che gli USA sono una società estremamente diseguale e disfunzionale.

Già nel 1977 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU stabilì che l’apartheid e le violazioni dei diritti umani in Sudafrica costituivano una minaccia per la pace e la sicurezza internazionali. Venne imposto un embargo alla vendita di armi che venne violato da molti Paesi, in particolare da Germania, Francia, Gran Bretagna, USA e soprattutto da Israele [xvii].

Miliardi e miliardi di rand vennero versati ad Armscor [agenzia sudafricana incaricata dell’acquisto di armamenti, N.d.T.] e ad altri commercianti di armi per lo sviluppo di armi nucleari, missili e altre forniture, che si dimostrarono totalmente inutili contro l’opposizione interna all’apartheid. Tuttavia, invece di difendere con successo il sistema dell’apartheid, le spese sconsiderate per gli armamenti mandarono in bancarotta il Sudafrica.

Come ebbe a scrivere l’ex direttore di “Business Day” [quotidiano economico sudafricano, N.d.T.] il defunto, Ken Owen:

“Il male dell’apartheid apparteneva ai dirigenti civili, le sue follie erano interamente a carico degli ufficiali dell’esercito. È un’ironia della nostra liberazione che l’egemonia degli afrikaner [bianchi sudafricani di origine olandese, belga, tedesca e francese, N.d.T.] avrebbe potuto durare altri 50 anni se i teorici militari non avessero dirottato la ricchezza nazionale in imprese strategiche come Mossgas e Sasol [aziende energetiche, N.d.T.], Armscor [agenzia per l’acquisto e la produzione di armi, N.d.T.] e Nufcor [agenzia per l’acquisto di uranio, N.d.T.], che alla fine non ci hanno portato altro che bancarotta e disonore”[xviii].

Sulla stessa linea il direttore della rivista Noseweek [mensile sudafricano, N.d.T.] Martin Welz ha affermato: “Israele aveva il cervello ma non i soldi. Il Sudafrica i soldi, ma non il cervello.” In breve il Sudafrica finanziò lo sviluppo dell’industria bellica israeliana che oggi è la principale minaccia alla pace mondiale. Quando finalmente nel 1991 Israele si piegò alle pressioni USA e iniziò a fare marcia indietro rispetto all’alleanza con il Sudafrica, l’industria degli armamenti e i capi militari israeliani vi si opposero risolutamente.

Erano furibondi e insistettero che era un “suicidio”. Dichiararono: “Il Sudafrica ha salvato Israele.” Va anche ricordato che i fucili semiautomatici G3 utilizzati dalla polizia sudafricana nel massacro di Marikana [in cui vennero uccisi 34 lavoratori in sciopero e feriti gravemente almeno altri 78, N.d.T.]  del 2012 erano stati fabbricati dalla “Denel” su licenza israeliana.

Due mesi dopo il famoso discorso del Rubicone del presidente PW Botha [in cui egli affermò che il sistema di apartheid non sarebbe stato modificato, N.d.T.] nell’agosto 1985, quello che una volta era stato un banchiere bianco e conservatore diventò un rivoluzionario. All’epoca ero direttore del tesoro regionale di Nedbank [gruppo sudafricano di servizi finanziari, N.d.T.] per la provincia del Capo occidentale e responsabile delle operazioni bancarie internazionali. Ero anche un sostenitore della End Conscription Campaign [campagna per porre fine alla coscrizione obbligatoria] (ECC) e rifiutai di consentire che mio figlio, che era adolescente venisse registrato per il servizio di leva nell’esercito dell’apartheid.

La pena per il rifiuto di fare il servizio militare nell’esercito sudafricano era di sei anni di prigione. Si stima che 25.000 giovani bianchi abbiano lasciato il Paese per non essere arruolati nell’esercito dell’apartheid. Che il Sudafrica continui ad essere uno dei Paesi più violenti al mondo è solo una delle molte conseguenze persistenti del colonialismo, dell’apartheid e delle loro guerre.

Con l’arcivescovo Desmond Tutu e il defunto dottor Beyers Naude [religioso e attivista anti-apartheid afrikaner, N.d.T.] nel 1985 alle Nazioni Unite a New York lanciammo la campagna internazionale di sanzioni bancarie come ultima iniziativa nonviolenta per evitare una guerra civile e uno spargimento di sangue razziale. I paralleli tra il movimento americano per i diritti civili e la campagna mondiale contro l’apartheid erano evidenti agli afro-americani. Un anno dopo, superando il veto del presidente Ronald Reagan, venne approvato il Comprehensive Anti-Apartheid Act [legge Usa contro l’apartheid, N.d.T.].

Nel 1989, con la perestroika e l’imminente fine della Guerra Fredda, sia il presidente George Bush (Senior) che il Congresso USA minacciarono di vietare al Sudafrica di fare qualunque transazione finanziaria negli USA. Tutu e noi attivisti anti-apartheid non potevamo più essere tacciati di essere “comunisti”.  Questo era il contesto in cui tenne il suo discorso il presidente FW de Klerk nel febbraio 1990. De Klerk se ne rese chiaramente conto.

Senza accesso alle sette maggiori banche di New York e al sistema di pagamento in dollari USA, il Sudafrica non sarebbero più stato in grado di commerciare con nessun Paese al mondo. Il presidente Nelson Mandela in seguito riconobbe che la campagna di sanzioni bancarie di New York era stata la strategia più efficace contro l’apartheid [xix].

Quanto successo in Sudafrica è una lezione di particolare rilevanza per Israele che, come il Sudafrica dell’apartheid, sostiene falsamente di essere una democrazia. Dire che le critiche sono “antisemite” è sempre più controproducente, in quanto sempre più ebrei in tutto il mondo si dissociano dal sionismo.

Che Israele sia uno Stato di apartheid è ora ampiamente documentato – anche dal Tribunale Russell sulla Palestina che si riunì a Città del Capo nel novembre 2011. Allora confermò che la condotta del governo israeliano verso i palestinesi rispondeva ai criteri giuridici dell’apartheid, ed era un crimine contro l’umanità.

All’interno dello stato di Israele vero e proprio più di 50 leggi discriminano i palestinesi cittadini d’Israele sulla base della cittadinanza, della terra e della lingua, con il 93% della terra riservata solo all’insediamento ebraico. Durante il Sudafrica dell’apartheid simili umiliazioni erano descritte come “piccolo apartheid”. Dall’altra parte della Linea Verde, l’Autorità Nazionale Palestinese è un bantustan del “grande apartheid”, ma con ancor meno autonomia di quella che avevano i Bantustan in Sudafrica.

L’impero romano, quelli ottomano, francese, britannico e sovietico alla fine sono tutti crollati dopo aver fatto bancarotta a causa dei costi delle loro guerre. Per dirla con le concise parole del defunto Chalmers Johnson [storico ed economista statunitense, N.d.T.], che ha scritto tre libri sul futuro crollo dell’impero americano: “Le cose che non possono durare per sempre, non durano” [xx].

Ora l’imminente collasso dell’impero USA è stato evidenziato dall’insurrezione di Washington istigata da Trump il 6 gennaio. Nelle elezioni presidenziali del 2016 l’alternativa è stata tra una criminale di guerra e un pazzoide. All’epoca ho sostenuto che il pazzoide fosse in realtà la scelta migliore perché Trump avrebbe demolito il sistema mentre Hillary Clinton lo avrebbe ritoccato e fatto durare di più.

Con il pretesto di “proteggere l’America”, centinaia di miliardi di dollari sono stati spesi in armi inutili. Che gli USA abbiano perso ogni guerra combattuta dalla Seconda Guerra Mondiale non sembra importare finché il denaro arriva a Lockheed Martin, Raytheon, Boeing e a migliaia di altri fornitori di armi, oltre che alle banche e alle imprese petrolifere [xxi].

Dal 1940 alla fine della Guerra Fredda nel 1990 gli USA hanno speso 5.8 trilioni di dollari solo per le armi nucleari e lo scorso anno hanno deciso di spendere altri 1.2 trilioni per modernizzarle [xxii].

Il trattato sulla proibizione delle armi nucleari è diventato una legge internazionale il 22 gennaio 2021.

Si stima che Israele abbia 80 testate nucleari puntate verso l’Iran. Nel 1969 il presidente Richard Nixon ed Henry Kissinger escogitarono la finzione che “gli USA avrebbero accettato lo stato nucleare di Israele finché Israele non lo avesse riconosciuto pubblicamente” [xxiii].

Come riconosce l’International Atomic Energy Agency [Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, con sede a Vienna, N.d.T.] (IAEA), l’Iran ha abbandonato l’obiettivo di sviluppare armi nucleari fin dal 2003, dopo che gli americani avevano impiccato Saddam Hussein, che era stato “il loro uomo” in Iraq. L’insistenza israeliana secondo cui l’Iran rappresenta una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale è falsa tanto quanto le false notizie dell’intelligence nel 2003 riguardo alle “armi di distruzione di massa” dell’Iraq.

I britannici “scoprirono” il petrolio in Persia [Iran] nel 1908 e lo depredarono. Dopo che un governo democraticamente eletto nazionalizzò l’industria petrolifera iraniana, nel 1953 il governo britannico e quello USA orchestrarono un colpo di stato e poi appoggiarono la brutale dittatura dello Scià finché essa venne rovesciata dalla rivoluzione iraniana del 1979.

Gli americani erano (e continuano ad essere) furiosi. Per vendetta e in collaborazione con Saddam e con molti altri governi (compreso il Sudafrica dell’apartheid), gli USA provocarono deliberatamente una guerra di otto anni tra Iraq e Iran. Dati questi precedenti e inclusa la revoca da parte di Trump del Joint Comprehensive Plan of Action [accordo sul nucleare iraniano firmato da Obama, N.d.T.] (JCPOA), non c’è da stupirsi che gli iraniani siano così scettici riguardo agli impegni USA di rispettare qualunque accordo o trattato.

Sono in questione il ruolo del dollaro USA come moneta di riserva mondiale e la determinazione degli USA a imporre la propria egemonia sia finanziaria che militare sull’intero pianeta. Ciò spiega anche la ragione dei tentativi di Trump di promuovere una rivoluzione in Venezuela, che ha le maggiori riserve di petrolio al mondo. Nel 2016 Trump ha sostenuto che avrebbe “prosciugato la palude” a Washington. Al contrario durante la sua presidenza la palude è degenerata in una fogna, come evidenziato dai suoi accordi per gli armamenti con l’Arabia Saudita, Israele e gli EAU, oltre al suo “accordo del secolo” con Israele [xxiv].

Il presidente Joe Biden deve la sua elezione all’affluenza alle urne degli elettori afro-americani negli “Stati blu” [Stati prevalentemente a favore del partito Democratico, N.d.T.]. Date le rivolte del 2020, l’impatto delle iniziative di Black Lives Matter e l’impoverimento delle classi medie e di quella operaia, la sua presidenza darà la priorità alle questioni dei diritti umani in patria e anche al disimpegno a livello internazionale.

Dopo 20 anni di guerre dall’11 settembre in poi, gli USA sono stati superati in astuzia dalla Russia in Siria e dall’Iran in Iraq. E l’Afghanistan ha ancora una volta confermato la sua storica fama di “tomba degli imperi”. In quanto ponte terrestre tra Asia, Europa e Africa, il Medio Oriente è vitale per le ambizioni cinesi di confermare la propria posizione storica come Paese dominante a livello mondiale.

Un’avventata guerra israeliana/saudita/statunitense contro l’Iran provocherebbe quasi certamente il coinvolgimento di Russia e Cina. Le conseguenze globali potrebbero essere catastrofiche per l’umanità.

L’indignazione internazionale dopo l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi è stata aggravata dalle rivelazioni secondo cui USA e Gran Bretagna (più altri Paesi, compreso il Sudafrica) sono stati complici, avendo fornito all’Arabia Saudita e agli EAU non solo armi, ma anche supporto logistico alla guerra di sauditi ed emiratini in Yemen.

Biden ha già annunciato che i rapporti tra USA e Arabia Saudita saranno “ridefiniti” [xxv]. Pur proclamando che “l’America è tornata”, la realtà che l’amministrazione Biden si trova davanti è una crisi interna. Le classi medie e lavoratrici si sono impoverite e, a causa delle priorità economiche dovute alle guerre dopo l’11 settembre e quindi le infrastrutture americane sono state trascurate in modo deplorevole. L’avvertimento di Eisenhower nel 1961 è stato ora confermato.

Più del 50% del bilancio del governo federale USA viene speso per preparativi bellici e per continuare a finanziare i costi delle guerre passate. Annualmente il mondo, per lo più gli USA e i suoi alleati della NATO, spende 2 trilioni di dollari per prepararsi alla guerra. Una frazione di questa somma potrebbe finanziare urgenti problemi legati al cambiamento climatico, alla povertà e a una serie di altre priorità.

Dalla guerra dello Yom Kippur del 1973 il prezzo del petrolio dell’OPEC è valutato solo in dollari USA. Con un accordo negoziato da Henry Kissinger il petrolio saudita ha sostituito l’oro come base monetaria [xxvi]. Le conseguenze globali sono immense, ed includono:

  • Garanzie di USA e Gran Bretagna riguardo alla famiglia reale saudita contro rivolte interne;
  • Al petrolio dell’OPEC è stato attribuito un prezzo solo in dollari USA, e i proventi sono depositati nelle banche di New York e Londra. Di conseguenza il dollaro è la valuta di riserva internazionale, e il resto del mondo finanzia il sistema bancario, l’economia e le guerre degli USA;
  • La Banca d’Inghilterra amministra un “fondo nero saudita”, il cui scopo è finanziare la destabilizzazione occulta di Paesi ricchi di risorse naturali in Asia e Africa. Se l’Iraq, l’Iran, la Libia o il Venezuela dovessero chiedere il pagamento in euro o in oro invece che in dollari, la conseguenza sarebbe un “cambiamento di regime”.

Grazie alla base monetaria in petrolio saudita la spesa militare altrettanto illimitata degli USA viene attualmente finanziata dal resto del mondo. Ciò include i costi di circa 1.000 basi militari USA in tutto il pianeta, il cui scopo è di garantire che gli USA, con solo il 4% della popolazione mondiale, possano conservare la propria egemonia militare e finanziaria. Circa 34 di queste basi sono in Africa, di cui due in Libia [xxvii].

L’“Alleanza dei Cinque Occhi” formata da Paesi anglofoni bianchi (che comprende USA, Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda e di cui Israele è di fatto membro) si è arrogata il diritto di intervenire quasi ovunque nel mondo. La NATO è intervenuta con risultati disastrosi in Libia nel 2011 dopo che Muammar Gheddafi ha chiesto il pagamento del petrolio libico in oro invece che in dollari.

Con il declino economico degli USA e la Cina in crescita, queste strutture militari e finanziarie non sono né adeguate né sostenibili nel XXI secolo. Dopo aver aggravato la crisi finanziaria del 2008 con massicce operazioni di salvataggio finanziario a favore delle banche e della borsa, la pandemia da COVID e un intervento di salvataggio finanziario ancora più esteso hanno accelerato il collasso dell’impero USA.

Ciò coincide con una situazione in cui gli USA non sono più nemmeno i principali importatori dal petrolio mediorientale o da esso dipendenti. Sono stati rimpiazzati dalla Cina, che è anche il maggior creditore dell’America e detentore di buoni del Tesoro USA. Le implicazioni per Israele come Stato di colonialismo d’insediamento nel mondo arabo saranno enormi, dal momento che il “grande padre” non può intervenire o non lo farà.

Il prezzo dell’oro e del petrolio erano il barometro con il quale venivano misurati i conflitti internazionali. Il prezzo dell’oro è stagnante e anche quello del petrolio è relativamente basso, mentre l’economia saudita è in grave crisi. Al contrario, il prezzo del bitcoin è salito alle stelle, da 1.000 dollari quando Trump ha assunto il potere nel 2017 a oltre 58.000 il 20 febbraio scorso. Persino i banchieri di New York improvvisamente prevedono che il prezzo del bitcoin possa addirittura raggiungere i 200.000 dollari entro la fine del 2021, mentre il dollaro USA continuerà a calare e un nuovo sistema finanziario globale sta emergendo dal caos [xxviii].

Terry Crawford-Browne è coordinatore per il Sudafrica di World BEYOND War [Mondo oltre la Guerra, organizzazione pacifista presente in una ventina di Paesi, N.d.T.] e autore di Eye on the Money [Occhi sul denaro] (2007), Eye on the Diamonds [Occhi sui diamanti], (2012) e Eye on the Gold [Occhi sull’oro] (2020).

 

[i] Kersten Knipp, “The Lab:  Palestinians as Guinea Pigs?” Deutsche Welle/Qantara de 2013, 10 December 2013.

[ii] Database of Israeli Military and Security Exports (DIMSA). American Friends Service Committee, November 2020. https://www.dimse.info/

[iii] Judah Ari Gross, “After courts gagged ruling on arms sales to Myanmar, activists call for protest,” Times of Israel, 28 September 2017.

[iv] Owen Bowcott and Rebecca Ratcliffe, “UN’s top court orders Myanmar to protect Rohingya from Genocide, The Guardian, 23 January 2020.

[v] Richard Silverstein, “Israel’s Genocidal Arms Customers,” Jacobin Magazine, November 2018.

[vi] Jeff Halper, War against the People: Israel, the Palestinians and Global Pacification, Pluto Press, London 2015

[vii] Ben Hallman, “5 Reasons why Luanda Leaks is bigger than Angola,” International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), 21 January 2020.

[viii] Reuters, “Angola moves to seize Dos Santos-linked asset in Dutch Court,” Times Live, 8 February 2021.

[ix] Global Witness, “Controversial billionaire Dan Gertler appears to have used suspected international money laundering network to dodge US sanctions and acquire new mining assets in DRC,” 2 July 2020.

[x] Human Rights Watch, “Joint letter to the US on Dan Gertler’s License [No. GLOMAG-2021-371648-1], 2 February 2021.

[xi] Sean Clinton, “The Kimberley Process: Israel’s multi-billion dollar blood diamond industry,” Middle East Monitor, 19 November 2019.

[xii] Tetra Tech on behalf of US AID, “Artisanal Diamond Mining Sector in Côte d’Ivoire,” October 2012.

[xiii] Greg Campbell, Blood Diamonds: Tracing the Deadly Path of the World’s Most Precious Stones, Westview Press, Boulder, Colorado, 2002.

[xiv] Sam Sole, “Zim voters’ roll in hands of suspect Israeli company,” Mail and Guardian, 12 April 2013.

[xv] Joe Roeber, “Hard-Wired For Corruption,” Prospect Magazine, 28 August 2005

[xvi] Phil Miller, “Revealed: British royals met tyrannical Middle East monarchies over 200 times since Arab Spring erupted 10 years ago,” Daily Maverick, 23 February 2021.

[xvii] Sasha Polakow-Suransky, The Unspoken Alliance: Israel’s Secret Relationship with Apartheid South Africa, Jacana Media, Cape Town, 2010.

[xviii] Ken Owen, Sunday Times, 25 June 1995.

[xix] Anthony Sampson, “A Hero from an Age of Giants,” Cape Times, 10 December 2013.

[xx] Chalmers Johnson [who died in 2010] wrote numerous books.  His trilogy on the US Empire, Blowback [2004], The Sorrows of Empire [2004] and Nemesis [2007] focus on the Empire’s future bankruptcy because of its reckless militarism.  A 52-minute video interview produced in 2018 is an insightful prognosis and readily available free-of-charge.  https://www.youtube.com/watch?v=sZwFm64_uXA

[xxi] William Hartung, The Prophets of War: Lockheed Martin and the Making of the Military Industrial Complex, 2012

[xxii] Hart Rapaport, “The US government plans to spend over one trillion dollars on Nuclear Weapons,” Columbia K=1 Project, Center for Nuclear Studies, 9 July 2020

[xxiii] Avner Cohen and William Burr, “Don’t Like That Israel Has the Bomb? Blame Nixon,” Foreign Affairs, 12 September 2014.

[xxiv] Interactive Al Jazeera.com, “Trump’s Middle East Plan and a Century of Failed Deals,” 28 January 2020.

[xxv] Becky Anderson, “US sidelines Crown Prince in recalibration with Saudi Arabia,” CNN, 17 February 2021

[xxvi] F. William Engdahl, A Century of War: Anglo-American Oil Politics and the New World Order, 2011.

[xxvii] Nick Turse, “US military says it has a ‘light footprint in Africa: These documents show a vast network of bases.” The Intercept, 1 December 2018.

[xxviii] “Should the World Embrace Cryptocurrencies?” Al Jazeera: Inside Story, 12 February 2021.

Traduzione di Zeitun




Questo è nostro – e anche questo: la politica coloniale di Israele in Cisgiordania

Marzo 2021 B’Tselem

sommario del rapporto congiunto con Kerem Navot[associazione della società civile israeliana che dal 2012 analizza la politica territoriale di Israele in Cisgiordania, ndtr]

 

Lo Stato di Israele sta imponendo un regime di supremazia ebraica nell’intera zona fra il fiume Giordano ed il Mar Mediterraneo. Il fatto che la Cisgiordania non sia stata formalmente annessa non impedisce ad Israele di trattarla come se fosse un proprio territorio, soprattutto se pensiamo alle ingenti risorse investite nello sviluppo delle colonie e nella costruzione delle infrastrutture necessarie ai residenti. Questa politica ha permesso la creazione di più di 280 colonie e avamposti abitati da oltre 440.000 cittadini israeliani (esclusa Gerusalemme Est). Grazie a questa politica sono stati rubati, sia con mezzi ufficiali sia non ufficiali, oltre due milioni di dunam (200.000 ettari) di terre palestinesi; la Cisgiordania è attraversata in lungo e in largo da strade che collegano le colonie fra di loro e con il territorio sovrano di Israele, ad ovest della Linea Verde [il confine tra Israele e i territori occupati, ndtr.] e l’intera area è disseminata di zone industriali israeliane. Nel corso dei decenni tutto questo ha trasformato la geografia della Cisgiordania tanto da renderla irriconoscibile.

 Questo rapporto, che tratta dei meccanismi finanziari, legali e di pianificazione utilizzati dalle autorità israeliane da oltre cinquant’anni al fine di permettere la creazione, l’espansione e il mantenimento delle colonie, si concentra su due aspetti chiave. In primo luogo, gli sforzi intrapresi da diverse autorità statali per incoraggiare gli ebrei a trasferirsi nelle colonie e a sviluppare imprese economiche dentro e intorno ad esse. Lo Stato offre moltissimi benefici ed incentivi ai coloni e alle colonie tramite canali ufficiali ma anche non ufficiali – ampiamente esaminati nella relazione. I più significativi sono i sussidi per l’alloggio, che consentono di comprare case nelle colonie a quelle famiglie che non hanno capitali o fonti di reddito sufficienti. Questi sussidi spiegano in parte la rapida crescita della popolazione nelle grandi colonie ultra-ortodosse in Cisgiordania – Modi’in Illit and Beitar Illit. Oltre a ciò, agli abitanti di circa trenta colonie, alcune delle quali ricche, vengono offerte significative agevolazioni fiscali fino a 200.000 shekel, corrispondenti a circa € 50.600.

Alle zone industriali in Cisgiordania vengono offerti ulteriori benefici e incentivi, che comprendono imposte scontate sui terreni agricoli e sussidi per l’occupazione. Questi stimolano in modo significativo la crescita del numero di fabbriche in zona. Israele incoraggia inoltre gli ebrei a stabilire nuovi avamposti, che funzionano come aziende agricole e consentono l’acquisizione di pascoli e terreni agricoli palestinesi su vasta scala. Nel corso dell’ultimo decennio si sono create quaranta aziende agricole di questo tipo, che hanno di fatto incorporato decine di migliaia di dunam (un dunam equivale a 1000 mq).

 In secondo luogo, il rapporto analizza l’impatto territoriale dei due blocchi di colonie che attraversano la Cisgiordania. Un blocco, costruito a sud di Betlemme, si estende dagli agglomerati urbani di Beitar Illit and Efra ad ovest e gli insediamenti appartenenti al consiglio regionale di Gush Etzion, che circondano Betlemme ed i villaggi intorno, fino alla colonia di  Nokdim e dintorni ai margini del deserto della Giudea, ad est. L’altro blocco è situato nel centro della Cisgiordania e consiste delle colonie di Ariel, Rehelim, Eli, Ma’ale Levona, Shilo, nonchè degli avamposti costruiti intorno ad esse. Anche questo blocco attraversa la Cisgiordania, fino a raggiungere le colline che si affacciano sulla valle del Giordano.

Israele non risparmia alcuno sforzo per aumentare la popolazione di questi due blocchi e per estenderne l’impronta geografica. Ciò viene perseguito progettando nuove zone abitative, costruendo infrastrutture e preparando progetti e terreni per edifici e aree residenziali futuri. Nell’ultimo decennio queste iniziative hanno già portato ad una crescita demografica accelerata in entrambi i blocchi. Si prevede che la popolazione di Efrat raddoppierà o addirittura triplicherà nei prossimi decenni, che quella di Beitar Illit crescerà di 20.000 coloni e quella di Ariel di circa 8.000.

 L’impatto di questi due blocchi va ben oltre la superficie effettivamente coperta (che si estende su circa 20.000 dunam) ed il numero degli abitanti (un totale di circa 121.000 coloni). È la loro stessa esistenza a pregiudicare qualsiasi possibilità di sviluppo sostenibile per i palestinesi nella zona, oltre a colpire direttamente i mezzi di sostentamento e il futuro di decine di migliaia di palestinesi in numerose comunità

    Il blocco a sud di Betlemme si estende dalla Linea Verde ad ovest fino ai margini del deserto della Giudea ad est, quasi al confine municipale meridionale di Gerusalemme – incluse le parti della Cisgiordania annesse poche settimane dopo l’occupazione – e si estende a sud fino al campo profughi di al-‘Arrub. Le colonie ed avamposti di questo blocco interrompono lo spazio palestinese in quanto tagliano fuori la zona di Betlemme da quella di Gerusalemme a nord e da Hebron e dintorni a sud. Inoltre frammentano la stessa area di Betlemme, in quanto trasformano i villaggi in aree isolate, impediscono il futuro sviluppo della città e controllano la Route 60 – la maggiore arteria di traffico che attraversa la Cisgiordania da nord a sud e mette in collegamento Gerusalemme, Betlemme e la Cisgiordania meridionale.
  Il blocco centrale taglia in due la Cisgiordania da ovest ad est, interrompendo la contiguità di una serie di comunità palestinesi. Le colonie di Eli e Shilo con gli avamposti intorno ad esse sono state edificate in una delle aree più fertili e popolose della Cisgiordania, che sono state utilizzate da generazioni come aree rurali palestinesi, in cui gli abitanti affidavano alla coltivazione intensiva della terra il proprio sostentamento. I coloni di questa zona hanno gradualmente e accanitamente spogliato i palestinesi di migliaia di dunam di terreni fertili, privandoli così dei loro mezzi di sopravvivenza.

In seguito alla creazione di questi due blocchi di insediamenti, i palestinesi hanno perduto l’accesso a migliaia di dunam di terre fertili, sia direttamente (in aree dichiarate “terreno demaniale” o chiuse su ordine militare) oppure in conseguenza dell’effetto dissuasivo della violenza dei coloni che ha il sostegno dello Stato e impedisce a molti palestinesi di tentare di entrare nelle proprie terre. Intorno alle colonie di Tekoa and Nokdim, i palestinesi hanno perso l’accesso ad almeno 10.000 dunam, mentre nei dintorni di Shilo, Eli e avamposti connessi, gli è precluso l’accesso ad almeno 26.500 dunam.

Questo rapporto dovrebbe essere letto contestualmente al documento di sintesi pubblicato recentemente da B’Tselem, il quale afferma che il regime israeliano, impegnato a promuovere e perpetuare la supremazia ebraica nell’intera area fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, è un regime di apartheid. La linea politica del regime volta alla ebreizzazione dell’area non è circoscritta ai due blocchi di insediamenti discussi in questo rapporto, ma viene implementata su tutto il territorio in base alla logica che la terra sia una risorsa che deve andare a beneficio primario della popolazione ebraica. Ne consegue che la terra viene usata per sviluppare ed ampliare le colonie ebraiche esistenti e costruirne di nuove, mentre i palestinesi vengono espropriati e rinchiusi in piccole affollate enclave. Questa politica della terra è praticata all’interno del territorio sovrano di Israele dal 1948, e dal 1967 si applica ai palestinesi nei territori occupati.

 

i coloni aggrediscono i raccoglitori di olive a huwarah, distretto di nablus. fotogramma da video. video: muhammad fawzi, 7 ottobre 2020.

 

Il rapporto è l’ennesima dimostrazione che, anche se il progetto dell’annessione de jure della Cisgiordania può esser stato accantonato, questo si rivela in pratica irrilevante. Le costruzioni e gli interventi infrastrutturali effettuati recentemente in Cisgiordania non raggiungevano da decenni una simile portata. Questo sviluppo su larga scala è inteso a facilitare un’ulteriore significativa impennata nel numero dei coloni residenti in Cisgiordania, che secondo le previsioni dei leader delle colonie arriverà in poco tempo a un milione.

 Questi massicci investimenti rafforzano ulteriormente la stretta di Israele sulla Cisgiordania a dimostrazione dei progetti a lungo termine del regime. Uno di questi consiste nel suggellare la posizione di milioni di palestinesi quali soggetti privi di diritti e di protezione, a cui è negata qualsiasi possibilità di decidere del proprio futuro e che vengono costretti a vivere in enclave separate, in declino, senza alcuna possibilità di sviluppo economico. Spogliati di sempre più terre, sono costretti a guardare mentre si costruiscono quartieri e infrastrutture per i cittadini ebrei. Sono passati due decenni dall’inizio del XXI secolo e Israele sembra più che mai deciso a proseguire nel mantenimento e rafforzamento nell’intera area di un regime di apartheid sotto il suo controllo per i prossimi decenni.

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 

 




Vittoria del BDS: un giudice respinge il tentativo sionista di reprimere la libertà di espressione

Yvonne Ridley

8 marzo 2021 – Monitor de Oriente

Una soldatessa israeliana che negli Stati Uniti ha intentato un’azione penale per diffamazione da 6 milioni di dollari contro una palestinese cristiana ha visto come la sua iniziativa giudiziaria sia diventata controproducente. Nonostante il suo avvocato abbia sollecitato il giudice statunitense ad applicare la legge israeliana sulla diffamazione, che condanna le critiche contro lo Stato sionista a una pena fino a un anno di carcere, Rebecca Rumshiskaya ha perso la causa.

Il giudice californiano Craig Griffin ha rigettato ed escluso la sua richiesta e il tentativo di far applicare le leggi israeliane in una corte dassise della contea di Orange. Nella sua sentenza il giudice ha anche accolto la mozione contro la SLAPP della palestinese Suhair Nafal ed ha stabilito che Rumshiskaya deve pagare le spese giudiziarie della persona denunciata. Le leggi contro la SLAPP sono state ideate per dissuadere le persone dall’utilizzare i tribunali degli USA e la possibile minaccia di una denuncia per intimidire chi sta esercitando i propri diritti in base al Primo Emendamento [della costituzione USA, ndtr.] sulla libertà di espressione. Una “domanda strategica contro la partecipazione pubblica” [“azione temeraria”, nel codice civile italiano, ndtr.] (SLAPP), che il querelante non si aspetta di vincere, intende impedire la libertà di espressione.

Il risultato di questa denuncia è un duro colpo, in particolare per i tentativi che Israele sta facendo in tutto il mondo per mettere a tacere il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), soprattutto sulle reti sociali. È anche una grande vittoria per Nafal e i suoi sostenitori. Tuttavia lei ha sottolineato che si è trattato di una vittoria per tutti gli attivisti filo-palestinesi, sia sulle reti sociali che sul territorio. “Abbiamo molto lavoro davanti a noi, ma siamo instancabili e non ci arrenderemo fino a quando non vedremo che si sta facendo giustizia.”

Nel 2012 la californiana Rumshiskaya, 26 anni, andò a vivere in Israele e si arruolò nelle Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano, ndtr.] come istruttrice del Corpo di Educazione Giovanile. Due anni dopo che nel 2018 l’attivista del BDS Nafal aveva pubblicato sulla sua pagina Facebook una sua fotografia con armi e uniforme, [Rebecca] ha chiesto assistenza agli specialisti di “lawfare” [guerra giudiziaria, ndtr.] di “Shurat HaDin”[ong israeliana legata al governo che si occupa di intentare azioni legali contro chi critica Israele, ndtr.]. La palestinese aveva scaricato l’immagine della ragazza dal manifesto delle IDF dalla stessa pagina Facebook ufficiale dell’esercito.

Il post di Nafal faceva riferimento all’eroica paramedica palestinese di 21 anni Razan Al-Najjar, assassinata da un cecchino israeliano mentre stava prestando servizio come volontaria per aiutare i feriti durante le manifestazioni pacifiche della Grande Marcia del Ritorno che si sono tenute nel 2018 nei pressi del confine fittizio della Striscia di Gaza. Per stabilire un confronto tra le due donne Nafal ha collocato la foto promozionale di Rumshiskaya a fianco di quella della giovane paramedica. Non c’era assolutamente nessuna intenzione di suggerire che proprio questa soldatessa israeliana fosse stata coinvolta nell’assassinio di Al-Najjar. Lei aveva lasciato le IDF tre anni prima. Tuttavia alcuni sostenitori di Israele hanno cercato di stravolgere la storia e di affermare che il post di Nafal suggeriva che Rumshiskaya fosse responsabile della morte dell’operatrice sanitaria.

Nafal si è messa in contatto con l’ Arab American Anti-Discrimination Committee [Comitato Arabo Americano contro la Discriminazione] (ADC) per chiedere aiuto nella causa ed è stata rappresentata dall’avvocato Haytham Faraj, membro del consiglio nazionale dell’ADC. Secondo Faraj il lavoro principale dell’ufficio che rappresentava la soldatessa israeliana nella denuncia é incentrato nel far tacere e minacciare gli attivisti del BDS, quelli che criticano le violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale da parte di Israele.

Nel testo della denuncia presentata l’anno scorso da Shurat HaDin al tribunale californiano gli avvocati di Rumshiskaya hanno detto che l’“accusa”era chiaramente falsa, dato che durante il suo servizio militare lei non aveva mai combattuto nella Striscia di Gaza. Hanno aggiunto che la loro cliente lavorava per i diritti umani e partecipava a delegazioni congiunte di israeliani e arabi in Giordania e nella Cisgiordania occupata.

Con una dichiarazione drammatica che ha sfiorato l’isteria, l’avvocatessa israeliana Nitsana Darshan-Leitner ha affermato nella sua comunicazione: “Pare che stiamo tornando alla (infame falsificazione) dei “Protocolli dei Saggi di Sion” e ai sanguinari libelli antisemiti del passato. Rebecca e la sua famiglia hanno ricevuto minacce di morte solo perché lei ha deciso di unirsi alle IDF.”

Darshan-Leitner, fondatrice del centro giuridico israeliano Shurat HaDin, ha aggiunto: “La guerra contro l’antisemitismo si è estesa anche alla sfera giudiziaria e la richiesta di Rebecca è la punta di lancia della nostra lotta contro il movimento globale di boicottaggio contro Israele. Questo è un messaggio per tutti gli attivisti del BDS, che devono sapere che anche loro possono essere considerati responsabili della loro attività antisionista e potrebbero persino pagarne un prezzo alto.”

In un certo senso l’avvocatessa di Shurat HaDin ha avuto ragione. Questa causa giudiziaria ha sicuramente mandato un forte messaggio ai sostenitori del BDS, e cioè che devono continuare con il loro impegno fondamentale e totalmente pacifico per far sì che Israele paghi per le sue violazioni dei diritti umani.

L’avvocato statunitense Faraj ha affermato che la sentenza del giudice Griffin ha salvaguardato i diritti della comunità arabo-americana e palestinese alla libertà di espressione, compresa quella politica, stabiliti dal Primo Emendamento. Sottolineando che “gli Stati Uniti non sono Israele” ha aggiunto: “L’ex-soldatessa israeliana che ha denunciato la signora Nafal pretendeva che il tribunale applicasse la legge israeliana, che condanna chi critica Israele fino a un massimo di un anno di prigione. Il giudice ha rigettato la richiesta e il tentativo di applicare la legge israeliana.”

L’avvocato ha affermato che, concedendo a Nafal l’eccezione anti-SLAPP, il giudice ha inviato un chiaro messaggio secondo il quale gli Stati Uniti tollerano e attribuiscono importanza alla diversità di opinioni e punti di vista politici, e chi cerchi indebitamente di far tacere le critiche politiche dovrà pagarne il prezzo.

Non resta che sperare che il caso della California abbia un impatto qui in Gran Bretagna, dove i sionisti sono protagonisti di una caccia alle streghe per cercare di confondere le critiche a Israele con l’antisemitismo. La lobby filo-israeliana utilizza la screditata “definizione” di antisemitismo stilata dall’International Holocaust Remembrance Aliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organismo intergovernativo cui aderiscono 34 Paesi, ndtr.] (IHRA) per cercare di bloccare qualunque discussione sullo Stato di Israele e sul suo disprezzo per le leggi e convenzioni internazionali. Alcuni degli esempi di “antisemitismo” citati nel documento dell’IHRA, che persino la persona che lo ha stilato ha affermato essere una “bozza di lavoro”, si riferiscono alle critiche contro Israele. Gli accademici hanno criticato la definizione, che è stata descritta come “non rispondente allo scopo”.

Il BDS deve affrontare molte sfide da parte degli alleati di Israele che gli permettono di agire impunito. Ironicamente alcuni di questi alleati sono veri antisemiti ai quali si lascia libertà di praticare il proprio peggior razzismo al mondo ogni volta che la lobby filo-israeliana fa dell’antisemitismo un’arma contro il popolo palestinese e i suoi sostenitori nella lotta per la pace e la giustizia. C’è gente che non impara mai.

Suhair Nafal ha detto: “Questa vittoria non è stata solo mia, è stata una vittoria di tutti gli attivisti filo-palestinesi, sia sulle reti sociali che sul territorio,” ha aggiunto. “Abbiamo davanti a noi molto lavoro da fare, ma siamo instancabili e non cederemo finché non sarà fatta giustizia.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

Yvonne Ridley

La giornalista e scrittrice britannica Yvonne Ridley propone analisi politiche su questioni relative al Medio Oriente, all’Asia e alla guerra mondiale contro il terrorismo. Il suo lavoro è stato pubblicato in molti quotidiani e riviste in tutto il mondo, da oriente a occidente, da testate come il Washington Post fino al Tehran Times e il Tripoli Post, riscuotendo riconoscimenti e premi negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Il lavoro di dieci anni per grandi testate in Fleet Street [via di Londra in cui si trovano le sedi dei principali quotidiani inglesi, ndtr.] ha esteso il suo ambito di azione ai media elettronici e radiofonici, ed ha prodotto una serie di documentari su temi palestinesi e internazionali, da Guantanamo alla Libia e alle Primavere Arabe.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




‘Giudice, giuria e occupante’, un nuovo rapporto denuncia il sistema di apartheid dei tribunali militari israeliani

8 marzo 2021 – Middle East Monitor

Un nuovo rapporto di War on Want [Lotta contro la povertà, n.d.tr], l’organizzazione benefica britannica, ha ulteriormente evidenziato il sistema giudiziario dualistico e razzista facendo un’analisi dettagliata del sistema dei tribunali militari gestito dallo Stato sionista nella Cisgiordania occupata.

Sotto il titolo ‘Giudice, giuria e occupante’, l’ente benefico contro la povertà con sede a Londra, rivela come il sistema israeliano dei tribunali militari supporti l’occupazione illegale in Cisgiordania applicando alla popolazione palestinese leggi repressive, soffocando il dissenso, reprimendo la resistenza all’occupazione e rafforzando il suo dominio militare.

Il documento afferma che per i palestinesi nella Cisgiordania occupata ci sono due sistemi legali che operano in parallelo, spiegando che c’è una ” legge palestinese e una legge militare israeliana, quest’ultima codificata attraverso migliaia di ordinanze militari “.

“Le ordinanze militari israeliani sono emesse dall’esercito e hanno la prevalenza rispetto alle leggi palestinesi. Le ordinanze militari israeliane impongono l’illegale occupazione israeliana e non vanno a beneficio della società palestinese. Le ordinanze militari israeliane fungono da apparato di repressione, come documentato e denunciato da esperti di diritti umani palestinesi, israeliani e internazionali,” ha detto la scorsa settimana War on Want alla presentazione del suo rapporto.

”Giudice, giuria e occupante” smaschera il mito diffuso che con gli accordi di Oslo nel 1993 ai palestinesi sia stato concesso l’autogoverno. Svela come i palestinesi non abbiano mezzi per sfuggire al razzista sistema giudiziario militare israeliano, che ha creato una realtà “separata e iniqua”. Per esempio, gli occupanti israeliani arrestati in Cisgiordania sono giudicati da tribunali civili in Israele, mentre i palestinesi sono processati in tribunali militari.

Tale trattamento così discriminatorio fra le due popolazioni è recentemente stato bollato da B’Tselem come apartheid in un documento storico. Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani, lo Stato sionista è colpevole di “far avanzare e perpetuare la supremazia di un gruppo – gli ebrei – su un altro – i palestinesi.”

Israele considera i palestinesi una minaccia alla sicurezza fin dalla culla, afferma il rapporto. Dal 1967, per esempio, Israele ha dichiarato illegali più di 411 organizzazioni palestinesi, inclusi tutti i principali partiti politici. I civili palestinesi sono stati perseguiti per “appartenenza e attività in un’associazione illegale”, uno strumento chiave per la repressione israeliana dell’attivismo contro l’occupazione.

Considerare i palestinesi come una minaccia alla sicurezza fin dalla nascita delegittima ogni opposizione all’occupazione illegale e giustifica la criminalizzazione di ogni sua forma. Secondo il rapporto “la rete complessa di leggi militari imposte sulla popolazione della Palestina occupata è concepita per ridurre fisicamente lo spazio dove vivono i palestinesi, per creare traumi psicologici e minare la loro possibilità di agire collettivamente come popolo.”

Questo rapporto esamina il funzionamento dei tribunali militari israeliani così come le istituzioni a loro connesse, le prigioni e i centri di detenzione in Cisgiordania e in Israele, dove sono detenuti i palestinesi in attesa di giudizio e che scontano le loro sentenze. Riguarda anche specificamente il modo in cui questo sistema di tribunali e prigioni mantenga ed estenda l’occupazione illegale israeliana in Cisgiordania e l’impatto sulle vite dei palestinesi nella loro patria storica.

Esortando le persone a unirsi alla lotta di War on Want contro “colonialismo, occupazione e apartheid” il rapporto rivela come il sistema militare israeliano abbia un impatto di vasta portata e profondamente discriminatorio sui palestinesi.

Dal 1967, quando è cominciata l’occupazione, oltre 800.000 civili palestinesi sarebbero passati dai tribunali militari israeliani. Questo sistema e la profonda ingiustizia che impone sui palestinesi devono finire, afferma War on Want.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Che cosa sta costruendo Israele nel sito nucleare di Dimona?  

Richard Silverstein

5 marzo 2021 – Middle East Eye

Foto satellitari suggeriscono che la costruzione prosegue da due anni, mentre Netanyahu continua a raffigurare l’Iran come il cattivo del Medio Oriente.

Una ONG internazionale impegnata contro la proliferazione di armi nucleari ha recentemente diffuso immagini satellitari che mostrano che Israele, per la prima volta da decenni, sta effettuando nuove costruzioni nel proprio sito nucleare di Dimona. Il reattore del sito, che divenne attivo dalla metà degli anni Sessanta, produce plutonio come combustibile per  l’arsenale nucleare israeliano, che si ritiene ammonti a ottanta testate.

 

Gli scavi hanno suscitato la curiosità degli esperti nucleari e delle agenzie di intelligence di tutto il mondo. Dal momento che il reattore di Dimona ha ormai da tempo superato la vita operativa prevista, alcuni hanno ipotizzato che Israele stia costruendo un nuovo reattore a plutonio.

Ciò però pare improbabile, perché questo elemento ha una lunga durata e Israele ne ha già prodotto a sufficienza per le proprie esigenze presenti e future.

 

Alcuni hanno avanzato l’ipotesi che il reattore esistente sia sostanzialmente disattivato oppure in fase di smantellamento.

Se ad Israele non serve un nuovo reattore per sostituire quello vecchio, allora che altro potrebbe costruire nel sito? In una recente intervista all’Associated Press, Daryl Kimball, direttore esecutivo della Arms Control Association di Washington [organizzazione fondata nel 1971, con la missione autoproclamata di “promuovere la comprensione pubblica e il sostegno a efficaci politiche di controllo degli armamenti”, ndtr], ha segnalato un altro elemento cruciale per le testate nucleari: il trizio. Questo è un isotopo di idrogeno usato per aumentare la potenza delle testate nucleari; inoltre esso rende la reazione esplosiva più efficace, diminuendo quindi la quantità necessaria di combustibile (di plutonio, nel caso di Israele).

 

Il trizio ha consentito progressi nella progettazione di armi, inclusi piccoli ordigni con una maggiore potenza esplosiva. Esso viene utilizzato anche nelle bombe ai neutroni, che sono costruite per uccidere esseri umani ma hanno un raggio ridotto di esplosione. Kimball ha dichiarato all’Associated Press che Israele “potrebbe avere l’intenzione di produrre più trizio, un sottoprodotto radioattivo con un tempo di decadimento relativamente più breve che viene utilizzato per aumentare la potenza esplosiva di alcune testate nucleari”.

Il trizio, come il plutonio e altre sostanze, è prodotto nei reattori nucleari. Può essere realizzato tramite irradiazione del metallo di litio. L’isotopo è meno stabile del plutonio, di conseguenza occorre reintegrarlo più frequentemente per poterlo usare in un arsenale nucleare.

 

Se il vecchio reattore di Dimona deve essere dismesso, come ha ipotizzato Avner Cohen, uno dei maggiori esperti in ambito nucleare, allora Israele avrebbe bisogno di una nuova fonte per produrre il trizio. Forse si sta costruendo un reattore specificamente per tale proposito.

Se si analizzano le foto satellitari, parrebbe che la costruzione sia iniziata tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, vale a dire che i lavori procedano da circa due anni. Le immagini più recenti mostrano per lo più degli scavi, ma ancora nessun edificio ultimato.

Come mai questa lentezza? Potrebbe essere segno di indecisione fra i governanti su quando e se chiudere il vecchio reattore, oppure di limiti di bilancio che impediscono di procedere più velocemente con la costruzione.

 

Il vero pericolo nucleare

Ma perché quelle immagini sono divenute pubbliche solo ora, dopo due anni di costruzione? Dato il conflitto incombente fra Israele e il presidente degli USA Joe Biden sulla ripresa dei negoziati sul nucleare con l’Iran, è possibile che l’amministrazione USA voglia ricordare al mondo dove sta il vero pericolo nucleare – non certo in Iran.

Se la costruzione ha a che fare con la produzione di trizio, questo indicherebbe che Israele non sta costruendo una nuova classe di armi nucleari, quali le armi ipersoniche millantate dal Presidente russo Vladimir Putin – non a Dimona, perlomeno. Piuttosto Israele sta probabilmente perfezionando l’efficacia dell’arsenale esistente.

 

Il vero paradosso del progetto di Dimona sta nel fatto che nessuno mette in dubbio che Israele abbia diritto a produrre armi nucleari o ad aumentare la letalità del proprio arsenale. Fare uno scavo grande come un campo da football per costruire Dio-solo-sa-cosa? Faccia pure. Ma al contrario, se soltanto una singola particella di uranio dovesse cadere in una zona proibita dell’Iran, l’intera comunità internazionale darebbe inizio ad un coro di biasimo denunciando che Teheran sta per provocare una catastrofe nucleare.

Perché questo doppiopesismo? Perché il mondo crede che Israele abbia diritto ad avere questo immenso arsenale e che lo gestirà in modo responsabile, mentre l’Iran non ha diritto ad avere neppure un’arma – e che se dovesse comunque crearne una, farebbe saltare in aria il mondo intero? Che cosa ha mai fatto Israele per meritare tanto credito, e che cosa ha mai fatto l’Iran di tanto nefando per meritarsi tanta esecrazione?

Tenere in scacco i nemici

In uno scambio di messaggi su Facebook con Cohen, questi ha definito Benjamin Netanyahu come il premier israeliano più “entusiasta del nucleare” dai tempi di David Ben-Gurion, fondatore del programma nucleare nazionale. Netanyahu ha mostrato ancora più interesse nel progetto nucleare e ha fatto numerosi discorsi, sia a Dimona sia di fronte alla vicina tomba di Ben Gurion a Sde Boker [kibbutz nel deserto del Negev nel sud d’Israele che fu la casa di David Ben Gurion, ndtr] minacciando di distruzione nucleare l’Iran.

 

Da questo non consegue automaticamente che sia più probabile che Netanyahu usi tali armi rispetto ai precedenti primi ministri. Significa che egli considera fondamentale per Israele disporre di una credibile deterrenza nucleare per tenere in scacco i nemici. Questo è un elemento chiave della strategia geopolitica di Israele, una forma di proiezione di potenza e una garanzia di dominio nella regione mediorientale. Respinge la minaccia delle forze ostili di Iran, Siria e Iraq. In passato l’allora primo ministro Menachem Begin ordinò un attacco contro un reattore nucleare iracheno e l’ex primo ministro Ehud Olmert ordinò un attacco contro un reattore nucleare che la Siria stava costruendo nella sua zona desertica orientale.

 

Probabilmente l’ossessione di Netanyahu nei confronti del programma nucleare iraniano deriva dal non voler diventare il primo leader israeliano a permettere ad un nemico arabo [in realtà l’Iran non è un paese arabo, ndtr] di entrare nel club nucleare.

Nel corso dell’ultimo decennio USA e Israele hanno giocato al poliziotto buono-poliziotto cattivo nei confronti della minaccia nucleare iraniana. I presidenti USA hanno impiegato una combinazione di sabotaggio segreto e diplomazia pubblica per portare avanti una politica di contenimento dell’Iran, mentre Israele ha talvolta spinto per un vero e proprio attacco militare.

Insieme hanno collaborato a distruggere le centrifughe di uranio mediante il malware Stuxnet [virus informatico il cui scopo era il sabotaggio delle centrifughe della centrale nucleare iraniana di Natanz, ndtr]

 

Però, nonostante le pressioni di Netanyahu, gli USA non sono mai stati disponibili a partecipare ad un attacco contro l’Iran. La domanda è se il leader israeliano darà prova di moderazione oppure se testerà la fermezza di Biden e l’impegno iraniano a negoziare continuando ad assassinare scienziati nucleari ed a compromettere in altri modi un approccio di tipo politico-diplomatico nei confronti della crisi.

Biden ha imparato dalle esperienze pregresse dell’ex presidente Barack Obama a non fidarsi di Netanyahu. Non è una posizione invidiabile doversi guardare sia dal proprio nemico (l’Iran) sia dal proprio alleato.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Richard Silverstein

Richard Silverstein è autore del blog Tikun Olam, dedicato a smascherare gli eccessi dello Stato di Israele in materia di sicurezza nazionale. I suoi lavori sono stati pubblicati da Haaretz, Forward,  Seattle Times e Los Angeles Times. Ha scritto per la raccolta di saggi dedicati alla guerra in Libano del 2006, “A Time to Speak Out” [Il momento di denunciare a voce alta] (Verso) e ha scritto anche un saggio per la raccolta “Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood” [Israele e Palestina: prospettive alternative di statualità] (Rowman & Littlefield).

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




Gaza: cronaca della pandemia, tra voci e verità

Asmaa Rafiq Kuheil

4 marzo 2021 – Chronique de Palestine

Il 25 agosto era previsto il mio colloquio per il lavoro dei miei sogni: insegnare inglese all’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati [palestinesi].

Ho lavorato sodo in vista di questo colloquio. Per quasi un mese mi sono rifiutata di consultare le reti sociali, che spesso non sono altro che perdite di tempo! Ho aperto Facebook per non più di cinque minuti al giorno per vedere gli aggiornamenti di ‘We Are Not Numbers’ (Non Siamo Numeri, sito in cui palestinesi di Gaza raccontano le proprie esperienze, ndtr.) e verificare la posta importante su Messenger.

Il giorno prima del colloquio sono andata a dormire alle 22, per svegliarmi all’una del mattino per continuare la mia preparazione. L’elettricità era interrotta. Il mio ventilatore aveva la batteria quasi scarica in quella notte molto calda e tutta la mia famiglia nella nostra casa “al buio” dormiva. Mi sono fatta una tazza di caffè solubile, ho recitato due Rakaat [preghiere islamiche), poi ho acceso la torcia del mio cellulare ed ho cominciato a studiare nel nostro ampio soggiorno.

Come al solito ero sola, con il piccolo fascio di luce sul mio quaderno in mezzo all’oscurità. L’unico rumore era la voce dei grilli che arrivava dalla finestra.

Non so perché, alle 4,20 ho improvvisamente pensato che potevo dare uno sguardo a Facebook usando una scheda internet comprata da mio fratello. La connessione non era molto buona, ma volevo controllare qualche consiglio relativo al mio colloquio, dato che esiste un gruppo su Messenger a tale scopo.

Mi sono connessa e davvero vorrei non averlo fatto. Tutti si affrettavano a parlare delle ultime notizie: quattro persone a sud della Striscia di Gaza erano risultate positive al coronavirus, di cui abbiamo timore da tanto tempo. (Io pensavo davvero che noi lo avessimo scampato, “grazie” al rigido blocco cui siamo sottoposti.)

Sul momento non volevo credere a ciò che leggevo…finché non ho ricevuto un messaggio dell’UNRWA che diceva che tutti i colloqui, compreso il mio, erano stati annullati. Subito mi sono sentita molto male, ma poi mi è venuta voglia di saperne di più sul modo in cui il coronavirus era entrato a Gaza e ho rapidamente messo da parte i miei problemi personali.

Ho letto la storia di Heba Abu Nadi, una gazawi che aveva attraversato il valico di Erez per andare a Gerusalemme con la sua figlioletta ammalata, che doveva essere operata all’ospedale El-Makassed in quella città.

Inizialmente le autorità israeliane di occupazione le hanno rifiutato il permesso di transito da quel posto di controllo e lei ha finito per tornare a casa dopo aver trascorso quattro ore a tentare di accompagnare sua figlia.

Immaginate quanto abbia potuto sentirsi disperata…

Il giorno dopo ha tentato nuovamente di attraversare il blocco e questa volta ha avuto il permesso di uscire. In seguito ha fatto il test ed ha saputo di avere il coronavirus….

Questa sfortunata donna si è ritrovata ovunque sulle reti sociali. Alcuni la insultano per aver infettato i membri della sua famiglia mettendo in pericolo tutta Gaza. Altri pregano per lei. Altri ancora fanno sgradevoli battute!….

Quanto a me, mi metto al suo posto. Come sta ora sua figlia? Come si sente Heba, quando tutti la criticano come se lei fosse la causa della disastrosa situazione di Gaza? O come se si trattasse di un complotto israeliano per distruggere Gaza di cui quindi lei non sarebbe che una vittima?

Oh, gente di Gaza! Smettetela di prendervela con questa povera madre! Noi non sappiamo tutto ciò che è accaduto. Lei deve essere molto infelice, preoccupata per sua figlia e forse si rimprovera terribilmente per aver messo in pericolo quattro membri della sua famiglia.

Anche prima di quest’ultima catastrofe la vita era molto peggiorata a Gaza. Non abbiamo più di quattro ore di elettricità al giorno e adesso siamo tutti in quarantena, il che aggiunge al danno anche la beffa.

Un messaggio su Facebook è stato come il sale su una ferita aperta: una ragazza di fuori Gaza ci diceva che ormai il COVID-19 è una cosa normale e che non c’è motivo di preoccuparsi.

Ma Gaza non è simile a nessun altro luogo! Gaza, questo punto minuscolo sulla mappa con due milioni di persone, non ha che un solo grande ospedale, dove recentemente sono state identificate molte persone contagiate, costringendo ad evacuare un intero reparto.

Sapete che i nostri medici rischiano la vita per un salario mensile di 300 dollari? Sì, cari lettori, 300 dollari, non 3.000. E migliaia di altri in questo periodo non ricevono alcun salario.

Il giorno dopo mio padre ha detto al mio fratellino Hamza di andare a comprare dell’acqua in bottiglia, perché ne avevamo poca. (L’acqua del rubinetto non è potabile in sicurezza). Ma mio padre ha ordinato a Hamza di restare poi in casa, dicendogli che gli avrebbe vietato di uscire se glielo avesse di nuovo chiesto. Rendendoci conto che era la nostra ultima occasione per molto tempo, tutti noi avevamo scritto un lungo elenco di altri prodotti di cui avevamo bisogno e che si trovavano nell’unico supermercato aperto nella nostra zona.

Per strada Hamza ha visto solo poliziotti che controllavano per impedire spostamenti non urgenti.

Intanto mio padre ascoltava la sua radiolina portatile accesa, cercando le notizie sul COVID. Mia sorella Walaa’, che studia per il Tawjihi (diploma di scuola secondaria generale) e che continua a studiare per gli esami finali, ha paura del prossimo futuro. Non sa se deve studiare, sedersi insieme a noi o parlare con i suoi amici di come hanno trascorso la giornata.

I miei fratelli e sorelle più giovani sono contenti che la scuola sia chiusa. Sono ancora troppo giovani per capire che cosa sia il coprifuoco.

Quanto a mia madre, cucina del manakish (la nostra versione della pizza, condita con timo e olio d’oliva). Lo fa sempre durante le guerre ed altre situazioni di emergenza. (E scommetto che non è la sola…in ogni casa ci sono tonnellate di timo e il manakish non costa molto se se ne cucinano grandi quantità). Le due cose sono diventate sinonimi.

Mi viene in mente improvvisamente il tema – che aveva vinto il premio – che avevo scritto per il concorso di scrittura We are not Numbers COVID-19. In questo testo affermavo che Gaza si è rivelata essere il luogo più sicuro al mondo per quanto riguarda la pandemia. Quando l’ho scritto pensavo paradossalmente che l’orrendo blocco israeliano di Gaza, che impedisce la maggior parte degli spostamenti all’interno e all’estero, per una volta ci avrebbe tenuti “al sicuro”, mentre gli altri avrebbero dovuto subire l’epidemia.

Il mio articolo stava per essere pubblicato, ma adesso ne vale la pena? E in caso affermativo, verrà letto? Oppure io sarò presa in giro e ridicolizzata come la povera Heba?

In ogni caso io mi atterrò alla mia convinzione che questi miserabili giorni finiranno – non semplicemente per la speranza, ma piuttosto per la mia fede profonda nel nostro dio e che tutto ciò che lui “scrive” è per il nostro bene, per quanto miserevole possa apparire a prima vista!

Asmaa’ Rafiq Kuheil, palestinese di Gaza, da tre anni è professoressa di inglese. Lavora come assistente di progetto presso l’UNRWA, dove contribuisce a costruire la propria Nazione con tutti i mezzi a sua disposizione. La sua arma è la scrittura.

27 août 2021 – WeAreNotNumbers – Traduction : Chronique de Palestine

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)