Il boicottaggio dei prodotti israeliani nuovamente di fronte a un tribunale francese

Redazione di MEE

16 marzo 2021 – Middle East Eye

La militante Olivia Zemor è imputata di “diffamazione” e “istigazione alla discriminazione economica” per aver propagandato gli appelli al boicottaggio contro il gigante farmaceutico israeliano Teva.

La direttrice editoriale del sito Europalestine è stata citata in giudizio martedì 16 marzo davanti alla giustizia francese dall’azienda farmaceutica israeliana Teva, per aver propagandato un appello al boicottaggio lanciato a Lione da militanti della causa palestinese.

Olivia Zemor comparirà davanti al tribunale penale di tale città per diffamazione e istigazione alla discriminazione economica, dopo aver riportato sul suo sito, con il titolo ‘Teva, non ti vogliamo’, l’azione di militanti lionesi filopalestinesi davanti alla principale farmacia della città.

La società Teva Santé, con una filiale in Francia e la cui casa madre ha sede in Israele, è un leader mondiale dei farmaci generici.

Indossando felpe verdi sulle quali si poteva leggere “Free Palestine” e “Boycott Israel”, degli attivisti incitavano i consumatori a non acquistare farmaci prodotti dalla Teva.

L’azione si inseriva nel quadro del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), una campagna mondiale di boicottaggio economico, culturale e scientifico di Israele, allo scopo di ottenere la fine dell’occupazione e della colonizzazione israeliana dei territori palestinesi.

Teva non è coinvolta in un conflitto geopolitico, etnico o religioso e queste azioni compromettono la sua attività economica”, commenta Frédéric Jeannin, avvocato della società farmaceutica.

Con il suo apporto finanziario allo Stato di Israele, questo gigante farmaceutico contribuisce al finanziamento delle operazioni militari a Gaza e allo sviluppo della colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme est, in spregio dei diritti del popolo palestinese e delle risoluzioni internazionali, in totale impunità! Fare appello al boicottaggio nei suoi confronti è quindi necessario”, ha spiegato di rimando Olivia Zemor al Courrier de l’Atlas [giornale francese specializzato in problemi del mondo arabo in Europa, ndtr.].

Commistione pretestuosa

Il suo sito, Europalestine, ha anche accusato SLE, la filiale di Teva responsabile dello stoccaggio e della distribuzione dei vaccini contro il COVID-19, di consegnare i vaccini in Cisgiordania solo ai coloni.

Dei cinque milioni di dosi stoccate nello scorso gennaio, Teva, il cui senso etico si evince dalle sue numerose condanne per corruzione e condotta negligente nei confronti dei pazienti, non ha trovato modo di consegnarne ai palestinesi, compresi i circa 30.000 che lavoravano in Israele come manodopera a buon mercato, principalmente nel settore edilizio”, scrive Europalestine.

Per la cronaca, questa causa, che avrebbe inizialmente dovuto essere portata in giudizio al tempo del primo confinamento, giunge in tribunale dopo che lo scorso giugno la Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) ha condannato la Francia per la sua sentenza contro militanti filopalestinesi in una causa analoga (si erano introdotti in un supermercato in Alsazia per invitare al boicottaggio dei prodotti israeliani).

Il proseguimento di questo procedimento giudiziario è tanto più scandaloso in quanto la Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), con un’importante sentenza emessa l’11 giugno 2020, precisa che ‘l’azione di appello al boicottaggio per contestare la politica di uno Stato si configura come espressione politica e militante e riguarda un argomento di interesse generale’, nella misura in cui non implica conseguenze di violenza e odio o intenzioni razziste”, ha ricordato l’Associazione di Solidarietà franco-palestinese. La CEDU aveva ritenuto che i fatti “si configuravano come espressione politica e militante”.

Spero che i giudici di Lione sapranno applicare la legge, senza lasciarsi influenzare, leggendo con attenzione la sentenza della CEDU che afferma che le nostre azioni non costituiscono discriminazione”, afferma Olivia Zemor, per la quale la Francia è il solo Paese al mondo che mette sotto processo militanti che denunciano la politica di annessione e di apartheid di Israele.”

Eric Dupond-Moretti (Ministro della Giustizia) non chiede solo ai magistrati di condannarci penalmente, ma auspica anche che ci vengano imposte dei “corsi sulla Shoah”. Si vede bene qui la commistione pretestuosa che viene creata tra la difesa legittima dei diritti dei palestinesi e l’antisemitismo, che è un reato e va combattuto. È la politica di colonizzazione di Israele che genera l’antisemitismo e che mette in pericolo gli ebrei di ogni Paese”, ha denunciato Olivia Zemor sul Courrier d’Atlas.

Anche tre associazioni di difesa di Israele e di lotta contro l’antisemitismo si sono costituite parte civile a sostegno di Teva in questa causa.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




I rapporti fra Israele e Giordania sul punto di rottura per gli ostacoli frapposti alla visita reale alla moschea di Al-Aqsa

Osama al Sharif

16 marzo 2021 Al-Monitor

Re Abdullah II ne ha abbastanza delle provocazioni di Benyamin Netanyahu sul suo ruolo di custode della moschea di Al-Aqsa e dopo che Israele ha reso difficile la visita di suo figlio a Gerusalemme si è vendicato affossando il presunto viaggio storico del premier israeliano negli Emirati Arabi Uniti. Mentre Netanyahu combatte per la propria sopravvivenza politica alle elezioni della settimana prossima, i legami tra Giordania e Israele sono ora di nuovo al minimo.

Dopo quasi un decennio il tormentato rapporto tra il re di Giordania Abdullah II e il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu è finalmente esploso la scorsa settimana quando Amman ha affossato quella che doveva essere la visita storica del premier israeliano negli Emirati Arabi Uniti.

Il 10 marzo, il principe ereditario di Giordania Hussein ha dovuto annullare all’ultimo minuto il previsto viaggio ad Al-Haram Al-Sharif (quello che Israele chiama il Monte del Tempio) di Gerusalemme Est perché Israele, secondo la Giordania, ha violato i protocolli della visita. Israele ha affermato che la cancellazione del viaggio era dovuta a controversie sugli accordi di sicurezza per proteggere il principe giordano, ma la Giordania ha negato.

L’11 marzo il ministro degli Esteri giordano Ayman Al-Safadi ha detto ai media che Israele “ha cercato di porre ostacoli per impedire l’ingresso dei gerosolimitani alla moschea”, aggiungendo: “Abbiamo concordato con Israele le modalità della visita e siamo rimasti sorpresi che all’ultimo momento Israele abbia voluto imporre nuovi accordi e cambiare l’itinerario.”

Il principe voleva visitare la moschea di Al-Aqsa per celebrare una festività sacra musulmana. Doveva anche visitare le chiese cristiane nella Città Santa. Anche per la Giordania questa sarebbe stata una visita storica: la prima di un reale giordano da quando Giordania e Israele hanno firmato un trattato di pace nel 1994. Al-Monitor ha appreso che Abdullah, che a quanto pare ne ha avuto abbastanza dei tentativi di Netanyahu di sfidare il ruolo del re di custode dei luoghi santi musulmani ad Al-Haram Al-Sharif e di provocare i giordani, era così arrabbiato che ha ordinato al governo di non concedere a Netanyahu il permesso di venire ad Amman e salire a bordo del jet privato degli Emirati Arabi Uniti che gli era stato inviato per portarlo l’11 marzo ad Abu Dhabi. Quando finalmente ore dopo l’approvazione è arrivata, il piano di Netanyahu di una breve visita ad Abu Dhabi, dove avrebbe dovuto incontrare il principe ereditario Mohammad Bin Zayed, era fallito.

Più tardi nello stesso giorno Safadi ha detto alla CNN che ad Amman erano indignati: come poteva Netanyahu – che aveva compromesso una visita religiosa e pacifica del principe ereditario alla moschea di Al-Aqsa – aspettarsi di venire in Giordania e andarsene tranquillamente via?

La calibrata risposta dei giordani ha colpito Netanyahu dove fa più male: la sua candidatura per la rielezione la prossima settimana. “Se Netanyahu pensava di poter fare un giro trionfale volando negli Emirati Arabi Uniti a celebrare lo scambio di relazioni diplomatiche tra i due paesi a scapito di Amman, ebbene ha avuto qualcos’altro”, ha detto ad Al-Monitor una fonte ben informata vicina al governo, che ha chiesto di mantenere l’anonimato.

Al centro della questione c’è il problema della custodia da parte degli hashemiti dei luoghi santi musulmani di Gerusalemme Est. A dieci giorni dalla quarta elezione in due anni in Israele, Netanyahu voleva rendere quella custodia un tema elettorale per corteggiare gli elettori ebrei di estrema destra. Non sarebbe la prima volta che ha cercato di contestare il ruolo speciale della Giordania e di sfidare il re.

Per la Giordania, non esiste un caso legale o politico che Israele possa sollevare. Quel ruolo speciale è sancito nel trattato di pace del 1994 ed è stato confermato quando l’allora Segretario di Stato americano John Kerry mediò tra i due paesi nel 2014. Quell’intesa “ha ribadito l’impegno allo status quo per il complesso di Al Haram Al Sharif / Monte del Tempio”, riconoscendo nuovamente la custodia del complesso da parte della Giordania.

Ma subito dopo, Netanyahu aveva rinnegato di nuovo le sue promesse consentendo a funzionari israeliani e a gruppi ebraici estremisti di entrare nel complesso a recitarvi le preghiere. Le incursioni occasionali sono diventate regolari dal 2014 nonostante le continue proteste diplomatiche giordane. Alcuni di questi gruppi, che sostengono apertamente Netanyahu, dichiarano altrettanto apertamente di voler distruggere la Moschea di Al-Aqsa e costruire un tempio ebraico sulle sue rovine.

La custodia della Giordania non è stata smentita o contestata da altri. È stata sostenuta dalla Lega Araba, riconosciuta dall’Autorità Nazionale Palestinese e dalla comunità musulmana internazionale.

Ma il rifiuto della Giordania di accettare la decisione di Donald Trump di trasferire l’ambasciata americana a Gerusalemme e di riconoscere una Gerusalemme unita sotto la sovranità israeliana ha irritato Netanyahu e gli alti funzionari della Casa Bianca. Inoltre, quando Netanyahu minacciò di procedere con l’annessione unilaterale di gran parte della Cisgiordania, il re fece sapere che una tale mossa avrebbe avuto un effetto disastroso sul trattato di pace.

Non è un segreto che Abdullah abbia sempre diffidato di Netanyahu. Diverse fonti confermano che il re ha rifiutato molte proposte di incontro da parte di Netanyahu e che si è rifiutato di rispondere alle sue chiamate da quando il premier israeliano è venuto meno alla promessa di processare un diplomatico israeliano che aveva ucciso due giordani nell’ambasciata israeliana ad Amman nel 2017.

Lo scorso febbraio Abdullah ha fatto arrabbiare Netanyahu incontrando segretamente il ministro della Difesa Benny Gantz.

Gantz, rivale di Netanyahu, si è scagliato contro il suo primo ministro l’11 marzo quando ha affermato che la condotta di Netanyahu negli ultimi anni ha gravemente danneggiato le relazioni di Israele con la Giordania. Ha twittato: “La Giordania è un partner strategico di Israele. I nostri rapporti diplomatici e di difesa sono una pietra miliare nelle nostre prospettive di sicurezza nazionale.” Diversi funzionari della sicurezza israeliana hanno avvertito dei pericoli nel danneggiare i rapporti Israele-Giordania.

Con il destino politico di Netanyahu in bilico, è difficile dire dove stiano andando le relazioni con la Giordania. La fonte anonima ha confermato che la Casa Bianca di Joe Biden era a conoscenza della visita reale a Gerusalemme. Ha aggiunto che la questione del ruolo speciale della Giordania su Al-Haram Al-Sharif si presenterà di nuovo quando il re visiterà Washington nelle prossime settimane.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




In ricordo di Rachel Corrie

16 marzo 2021 – Monitor de Oriente

L’attivista di 23 anni assassinata da una scavatrice israeliana in Palestina

L’attivista statunitense per la pace Rachel Corrie, di 23 anni, venne assassinata da una scavatrice israeliana che nel 2003 stava per demolire una casa palestinese nella Striscia di Gaza. Da allora Corrie è diventata un’icona della solidarietà mondiale con il popolo palestinese.

Nata il 10 aprile 1979 a Olympia, Washington, Corrie ha dedicato la propria vita a difendere i diritti dei palestinesi. Nel 2003 andò nella Striscia di Gaza come militante del Movimento di Solidarietà Internazionale [International Solidarity Movement, ISM, ndtr.].

Era nota per il suo amore per la pace e per la difesa dei diritti dei palestinesi, e diffondeva con frequenza reportage fotografici in cui evidenziava le violazioni dei diritti umani commesse da Israele nei territori occupati.

Il 16 marzo 2003 nella città di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, Corrie si mise davanti a una scavatrice israeliana nella speranza di impedire la demolizione della casa di una famiglia palestinese del luogo.

Corrie pensava che i suoi lineamenti da straniera e i capelli biondi avrebbero dissuaso la scavatrice, ma si sbagliò. Secondo le testimonianze morì schiacciata quando il guidatore della pala meccanica la travolse varie volte.

La popolazione di Gaza accolse la notizia del suo assassinio con dolore e orrore, definendola una “martire” e organizzando all’attivista statunitense un funerale molto partecipato.

Da allora il nome di Rachel Corrie è diventato sinonimo della causa palestinese. È stata scelta per denominare una nave di soccorso irlandese partita in direzione di Gaza nel 2010 e la sua storia è stata narrata in molti documentari che raccontano le sofferenze dei palestinesi.

In seguito la sua famiglia ha presentato una denuncia contro le autorità israeliane per la morte della figlia. Tuttavia un tribunale israeliano ha assolto il guidatore della scavatrice con un verdetto del 2013 che ha provocato polemiche, una decisione denunciata da gruppi per i diritti umani.

In una lettera inviata alla sua famiglia da Gaza poco prima dell’assassinio Corrie aveva descritto le sofferenze dei palestinesi di cui era testimone.

“Nessuna lettura, partecipazione a conferenze, visione di documentari e quello che ho sentito raccontare avrebbero potuto prepararmi alla realtà di questa situazione,” scrisse. “Non puoi immaginarlo se non lo vedi.”

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Intervista: Quegli israeliani che si battono a fianco dei palestinesi

Hassina Mechaï

16 marzo 2021 – Orient XXI

Mentre si preparano le elezioni legislative israeliane del 23 marzo 2021, dominate dalla competizione tra partiti di destra estrema e di estrema destra, qualche voce dissidente si fa sentire. Parliamo con una di loro, Tali Shapiro.

Visto dalla Francia il campo politico [israeliano] può sembrare totalmente dominato da un misto di nazionalismo e religione, testimoniato dalle alleanze del Likud al potere con diversi piccoli partiti religiosi. Questa ideologia si incarna in Benjamin Netanyahu. Egli è stato primo ministro senza interruzione dal 2009, ma la sua prima elezione a questa carica risale al 1996.

Di fronte a quello che si potrebbe vedere come un blocco politico monolitico, la società civile israeliana offre delle sfumature che la dicono lunga sulle sfide che il Paese si trova ad affrontare, così come sulle sue contraddizioni. In questa società civile si distinguono i militanti israeliani che hanno scelto di agire, o di vivere, a fianco dei palestinesi. A volte definiti smolanim (estremisti di sinistra), detestati dalla destra e dall’estrema destra, propongono una voce dissidente che contraddice il discorso dominante, praticano la disobbedienza civile o l’obiezione di coscienza. Tra loro Tali Shapiro, una cittadina israeliana il cui percorso, anche se particolare, illustra una tendenza sicuramente minoritaria, ma che resiste.

Hassina Mechaï. — Come e perché è diventata una militante?

Tali Shapiro. — Sono cresciuta con una certa forma di ignoranza politica, più precisamente in una famiglia ashkenazita [ebrei di origine centro-europea, ndtr.] in cui i miti sionisti erano considerati scontati. A 20 anni circa ho avuto un fidanzato cresciuto in una famiglia più a sinistra della mia. È grazie a questo rapporto che ho sentito per la prima volta un discorso diverso, contrastante con quello con cui ero cresciuta. Mi ci sono voluti parecchi anni per mettere insieme i pezzi del puzzle. Ci è voluto del tempo, perché tentavo di mettere insieme i frammenti di informazioni che mi arrivavano. Non affrontavamo la questione in modo formale. Non erano che chiacchierate, in genere commenti sulle notizie che vedevamo o uno sguardo diverso sui media israeliani. Nel 2009, quando Israele bombardò Gaza [operazione Piombo Fuso, dal dicembre 2008 al gennaio 2009, ndtr.] tutto divenne chiaro. Lo choc e la rabbia mi spinsero ad avviare un processo di comprensione più rigorosa della situazione. Da allora lì mi sono rapidamente unita alle manifestazioni a Bil’in e in altri villaggi della Cisgiordania e grazie ad amicizie e rapporti stretti laggiù, al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

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H. M.Perché questo tipo di impegno?

T. S. — Partecipare alle manifestazioni nei villaggi è stato soprattutto un atto spontaneo. Volevo incontrare queste persone che soffrono perché io possa vivere una vita soddisfacente. Volevo essere veramente lì per loro, in un modo che avesse un senso per loro. Volevo anche, in modo molto viscerale, esprimere il mio rifiuto di partecipare alla distruzione, il mio rifiuto di fronte al meccanismo di cancellazione e di controllo sistematico che è l’occupazione.

Unirmi al movimento BDS si è inserito nella logica di questo impegno. Il BDS mina il cuore stesso del sistema israeliano di oppressione attraverso il ricorso a un’analisi economica, istituzionale e culturale. Mettiamo in evidenza il modo complesso con cui le imprese, le istituzioni educative e culturali, il governo, l’esercito e le colonie sono collegati all’oppressione e la perpetuano. Esigiamo la fine di questa complicità, sottolineando che il quadro giuridico, politico e sociale esistente deve essere messo in pratica perché questa situazione cessi.

H. M.Durante queste manifestazioni come agiscono i soldati israeliani con voi? C’è una differenza di trattamento tra voi e i manifestanti palestinesi?

T. S.— La prima cosa da capire è che gli israeliani e gli attivisti internazionali non sono un bersaglio dei soldati. Quando sparano i soldati praticano il profilamento etnico, con una preferenza per i ragazzi e gli uomini. Se hai la pelle scura o la barba sei un bersaglio privilegiato. Tuttavia il solo fatto di stare insieme ai palestinesi durante una manifestazione può avere delle gravi conseguenze. Se sei troppo vicino rischi di essere arrestato o picchiato. In generale i soldati sono estremamente ostili e le loro reazioni vanno dalla villania alla brutalità. Gli israeliani che manifestano con i palestinesi sono considerati dei traditori. Ma nel complesso le conseguenze per noi sono meno pesanti e gli arresti più brevi e meno brutali.

Ciò detto, le conseguenze personali non sono trascurabili. Nei miei otto anni di proteste sono stata ferita, arrestata, imprigionata e ho visto degli amici feriti con danni permanenti. Un momento particolarmente significativo è stato quando sono stata liberata sotto cauzione grazie ad amici palestinesi. Mentre uscivamo dal posto di polizia, il comandante che mi aveva arrestata mi ha detto che avrebbe preferito sparare a me piuttosto che a loro, perché loro li capiva, mentre io ai suoi occhi ero una traditrice.

H. M.Che difficoltà e ostacoli ha trovato dal punto di vista personale, familiare, istituzionale? Il suo impegno ha avuto un impatto sulla sua vita?

T. S.— Io sono probabilmente più fortunata della maggioranza delle altre persone a questo proposito. Sono una libera professionista e non ho rapporti o legami istituzionali. Per quanto riguarda la mia famiglia ci siamo sforzati di mantenere la pace in casa. È tutt’altro che una situazione ideale, ma ci siamo posti dei limiti accettabili entro i quali possiamo vivere tutti. Il mio impegno è comunque cambiato perché, dopo aver preso coscienza della brutalità della colonizzazione, non potevo continuare lungo la strada che avevo intrapreso fino ad allora. Mi sono dedicata quasi interamente alla lotta palestinese contro la colonizzazione. Ciò ha cambiato la mia visione della vita, la cerchia di amici, il mio percorso professionale e il contesto in cui ho scelto di vivere. Sono diventata critica, non solo della violenza che mi circonda, ma anche del sistema socio-economico che la perpetua. I miei amici e le persone che mi sono vicine sono tutti militanti. Ho abbandonato il sogno della mia vita, diventare un’artista, per accettare un lavoro qualunque e poter agire in questo modo. Ho anche scelto di vivere a Ramallah. Se a 18 anni mi avessero detto che a 38 anni avrei vissuto lì sarei rimasta sconcertata.?

H. M.Nota dei punti in comune tra i militanti israeliani che frequenta?

T. S.— È un percorso molto personale, che resta unico per ciascuno di noi. Ognuno proviene da contesti socio-economici, razziali, sessuali e religiosi diversi. L’adesione al movimento è individuale, con punti di partenza differenti per ognuno. Se sapessimo come riprodurre dei fenomeni di dissidenza interna, lo faremmo.

H. M.Come siete accolti dai palestinesi? Come lavorate con militanti palestinesi?

T. S.— Viviamo una relazione tra gruppi oppressi e alleati privilegiati. I palestinesi sono stati molto gentili e pazienti. Hanno accettato le nostre azioni di solidarietà e ci hanno permesso di partecipare direttamente alle loro campagne. È un rapporto molto delicato, che si basa sul nostro impegno a non tradirli, e sulla loro fiducia. È anche un rapporto diseguale, in cui loro hanno tutto da perdere e in cui noi arriviamo con un “credito di militanza”. È una realtà che deve essere riconosciuta. Noi rifiutiamo ogni approccio feticista e insulso, che il più delle volte serve a depoliticizzare i rapporti e a perpetuare la supremazia e gli abusi. Quando gli israeliani si guadagnano la fiducia dei palestinesi stringono delle vere amicizie.

H. M.La società israeliana è ricettiva nei confronti delle vostre azioni?

T. S.— Un maggior numero di persone firma il nostro appello al boicottaggio dall’interno. Attraverso le reti sociali abbiamo anche osservato che sempre più gente di sinistra è d’accordo con l’idea del boicottaggio. Tuttavia osservo un’evoluzione nella sinistra israeliana: oggi essa ha una comprensione più vasta del rapporto tra la colonizzazione e l’economia. Ci sono delle voci nuove, delle nuove alleanze, una maggiore apertura al movimento BDS. Ciononostante, anche se la sinistra si è evoluta, rimane ancora una parte marginale della società israeliana. D’altronde è questa constatazione che può portare molti ad unirsi al movimento BDS.

H. M.Le istituzioni israeliane (polizia, esercito, servizi di sicurezza) vi permettono di agire liberamente?

T. S.— Non penso che le autorità israeliane accordino per loro stessa natura questa libertà. Per quanto riguarda il modo in cui ostacolano le nostre libertà, ciò dipende. Diverse leggi impediscono la libertà di espressione, in particolare la legge che definisce il BDS un “reato civile”. Ciò ci può portare a dover pagare multe di decine di migliaia di shekel [1 shekel = 0,25 euro]. La questione della nostra possibilità di agire dipende molto dalla visibilità o meno delle nostre azioni per le autorità. Ci sono più probabilità di essere arrestati durante una manifestazione che per aver scritto una mail nell’intimità della nostra casa a un fondo pensioni per chiedergli di disinvestire dal mercato israeliano. I meccanismi di dissuasione ci sono. Poi è solo una questione di impegno.

H. M.Lei osserva un allontanamento morale e politico degli ebrei americani rispetto alla politica israeliana?

T. S.— Non penso affatto che gli ebrei americani siano disinteressati alla politica israeliana. Sono stati educati nel sionismo quasi quanto gli israeliani. Ciò avviene attraverso la famiglia, ma anche attraverso le organizzazioni religiose e le ramificazioni dell’Agenzia Ebraica. Tra il campo filoisraeliano e i dissidenti non penso che si possa trovare un solo ebreo americano che non abbia in realtà un’opinione in proposito.

H. M.La società israeliana è comunque più complessa di come la si percepisce a volte all’estero, in particolare riguardo alla vivacità del dibattito…

T. S.— Se la società israeliana fosse disponibile alla discussione su queste questioni il dibattito ci sarebbe. Penso che ciò che è tabù viene sanzionato in modo aggressivo. È così in tutte le società. Questo non significa che noi non dovremmo cercare e che non cerchiamo di creare le condizioni per poter fare questa discussione. Ciò significa anche che, in base alle nostre risorse limitate, dobbiamo scegliere le nostre battaglie. Una vittoria ne porta un’altra. Ogni coscienza politica non è una cosa statica, ma piuttosto una dinamica continua.

H. M.Pensa che la soluzione a due Stati sia ancora possibile?

T. S.— Penso che il paradigma dei due Stati non avrebbe mai dovuto essere messo sul tavolo. È un consolidamento della colonizzazione. Ora, la colonizzazione è la dominazione o l’espulsione di una popolazione etnicamente identificata e la sua sostituzione con un’altra popolazione. Questo paradigma fallisce dopo il 1949. Israele, nonostante le apparenze, è uno Stato fallito che non riesce ad assicurare il benessere e neppure la sopravvivenza di milioni di esseri umani sotto il suo regime. Tuttavia pretende di non aver alcun obbligo giuridico nei loro confronti. Avrebbe dovuto essere creata una missione di pace per proteggere le popolazioni, permettere il ritorno immediato dei rifugiati. Avrebbero dovuto essere intraprese delle iniziative diplomatiche serie per giudicare gli autori di quei crimini. Tutto il paradigma della partizione era destinato a fallire.

H. M.Cosa pensa dell’attuale contesto politico israeliano? Sembra in grado di proporre una soluzione?

T. S.— L’attuale contesto israeliano non sembra in grado di proporre altro che un genocidio. Non è un’iperbole. Le elezioni si giocano tra Netanyahu, il promotore del piano di annessione Trump-Kushner, e Benny Ganz, che si vanta di aver “riportato Gaza all’età della pietra”, come se fosse un merito politico. Non penso che si debba chiedere a loro di trovare delle soluzioni al problema delle violenze che stanno perpetrando.

L’unica soluzione è la cessazione immediata della violenza e la rimozione dal potere degli autori di questi atti. Benché ci siano forze di opposizione, principalmente i partiti palestinesi, è poco, è come tappare con un dito una diga che sta crollando. Ma non è che a questa condizione che si potrà cominciare a prendere in considerazione delle azioni di riparazione e di responsabilizzazione. Tutto ciò dovrà essere fatto dalle vittime e incoraggiato dalla comunità internazionale.

Hassina Mechaï

Giornalista, coautrice con Sihem Zine de L’état d’urgence (permanent) [Lo stato d’emergenza (permanente)], uscito nell’aprile 2018, Edizioni Meltingbook (Parigi).

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 2 – 15 marzo 2021

Il 7 marzo, a Gaza, al largo della costa di Khan Younis, in una barca palestinese si è verificata un’esplosione che ha provocato la morte di tre pescatori, due fratelli e un loro cugino.

La causa è stata inizialmente attribuita al malfunzionamento di un razzo durante una prova effettuata da gruppi armati palestinesi, che hanno però negato tale ipotesi. A seguito di un’indagine, il Ministero dell’Interno di Gaza ha ipotizzato che i pescatori avessero tirato su con le loro reti un drone israeliano, caduto in mare e contenente esplosivo. Le autorità israeliane hanno negato qualsiasi coinvolgimento nell’episodio.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno ferito sessantadue palestinesi, inclusi nove minori [seguono dettagli]. Quarantuno di loro sono rimasti feriti in scontri verificatisi in cinque villaggi del governatorato di Nablus: da parte palestinese si è ricorso principalmente al lancio di pietre e da parte delle forze israeliane al lancio di lacrimogeni e proiettili di gomma. Sedici persone sono rimaste ferite in altri scontri scoppiati durante quattro operazioni di ricerca-arresto condotte nella città di Al Bireh (Ramallah) e nei Campi profughi di Ad Duheisha (Betlemme), Al Fawwar (Hebron) e Al Am’ari (Ramallah). I rimanenti feriti si sono avuti nei governatorati di Betlemme, Qalqiliya e Gerusalemme, in scontri con lancio di bottiglie incendiarie contro veicoli israeliani, durante una protesta settimanale e durante scontri ad hoc. Complessivamente, 35 palestinesi sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, nove sono stati colpiti da proiettili veri, 12 da proiettili di gomma e sei sono stati aggrediti fisicamente. Infine, un pastore palestinese è rimasto ferito per l’esplosione di un residuato bellico che stava maneggiando.

L’8 marzo, a Tubas, nel corso di una operazione di ricerca-arresto, due palestinesi e un soldato israeliano sono rimasti feriti; secondo fonti israeliane, uno dei palestinesi sarebbe stato colpito e arrestato nel corso dell’operazione mentre cercava di accoltellare un soldato. Sempre secondo fonti israeliane, in un altro episodio verificatosi lo stesso giorno, una donna palestinese è stata arrestata in un insediamento avamposto, prossimo al villaggio di Ras Karkar (Ramallah), per aver tentato di accoltellare una colona.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 193 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 172 palestinesi, inclusi 15 minori. Il governatorato di Ramallah ha registrato il maggior numero di operazioni (48), seguito dai governatorati di Hebron (37) e Gerusalemme (35).

In aree di Gaza adiacenti alla recinzione perimetrale e in mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco d’avvertimento in almeno 29 occasioni, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi]: due pescatori sono stati feriti, mentre la loro barca ha subito danni. In altre tre occasioni, le forze israeliane [sono entrate in Gaza e] hanno spianato terreni adiacenti alla recinzione. Non sono stati segnalati feriti.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 26 strutture di proprietà palestinese, sfollando 42 persone, di cui 24 minori, e colpendone in altro modo circa 120 [seguono dettagli]. Diciassette delle strutture interessate e tutti gli sfollamenti sono stati registrati in Area C. Due edifici sono stati demoliti nel villaggio di Ein Shibli (Nablus), sfollando 17 persone, sulla base di “Ordini militari 1797” che consentono la demolizione entro 96 ore dall’emissione di un ordine di rimozione”. I restanti sfollamenti derivano dalla demolizione di quattro case nelle Comunità di At Tuwani e Khallet Athaba a Hebron, e a Beit Jala a Betlemme. Il sostentamento di 20 persone è stato colpito dallo smantellamento di una bancarella per la vendita di ortaggi vicino alla città di Qalqiliya; altre 16 persone sono state colpite dalla demolizione di due case disabitate e dalla confisca di un container metallico a Isteih (Gerico). Due delle nove strutture prese di mira a Gerusalemme Est sono state demolite dal proprietario.

Nel governatorato di Hebron, coloni israeliani, o individui ritenuti tali, hanno ferito sei palestinesi e danneggiato proprietà palestinesi, compresi veicoli e alberi. Quattro dei feriti sono stati aggrediti fisicamente in tre diversi episodi [seguono dettagli]. Due ragazzi, di 13 e 14 anni, sono rimasti feriti in due distinti episodi avvenuti rispettivamente nell’Area H2 della città di Hebron e nella zona di Bir al ‘Idd; in quest’ultimo caso, l’asino che il ragazzo stava cavalcando è stato accoltellato. Un uomo e una donna sono stati aggrediti con mazze vicino al Mantikat Shi’b al Butum: l’uomo ha riportato gravi ferite alla testa. I restanti due feriti erano pastori, aggrediti con pietre e coltelli vicino a Bani Na’im (Hebron); tre delle loro pecore sono state ferite. In diverse altre occasioni a Hebron (Saadet Tha’lah) e Betlemme (Kisan), coloni israeliani hanno scacciato i pastori dalla zona. Almeno 42 alberi e alberelli sono stati sradicati nei villaggi di At Tuwani (Hebron) e Kafr Qaddum (Qalqiliya); inoltre, in quest’ultima località, nel corso dell’episodio citato, sono stati rubati attrezzi agricoli. Palestinesi hanno riferito che, a Yanun (Nablus), coloni hanno pascolato il loro bestiame su terreni appartenenti a palestinesi del villaggio, danneggiando ulivi, mentre a Ein Samiya (Ramallah), hanno aggredito agricoltori che lavoravano la loro terra, danneggiando un trattore. Secondo fonti palestinesi, nei villaggi di Jalud e Huwwara (Nablus) e Kafr ad Dik e Bruqin (Salfit), coloni israeliani hanno danneggiato almeno cinque veicoli, una casa e una struttura agricola.

Il 10 marzo, nel governatorato di Hebron, nei pressi dell’insediamento avamposto di Havat Maon, cinque ragazzi palestinesi di età intorno ai 10 anni, mentre raccoglievano erbe selvatiche, sono stati fermati da coloni. Sono stati poi portati dai soldati alla stazione di polizia di Kiryat Arba, a quanto riferito perché sospettati di aver tentato di rubare dei pappagalli. Sono stati rilasciati in giornata.

In quattro episodi, autori ritenuti palestinesi, hanno colpito con pietre e ferito quattro israeliani: due vicino agli insediamenti di Rimonim (Gerusalemme) e Gush Etzion (Betlemme), un autista entrato accidentalmente ad Al Isawiya (Gerusalemme Est) e un altro all’ingresso del villaggio di Bidiya (Salfit). Secondo fonti israeliane, venticinque veicoli israeliani che transitavano sulle strade della Cisgiordania, sono stati danneggiati da pietre.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Perché non posso vivere con il trauma di Gaza

Tamam Abusalama

15 marzo 2021 – Electronic Intifada

Mio padre rispose a una telefonata che lo avvertiva che tutta la nostra famiglia doveva evacuare la nostra casa. Stava per essere bombardata.

La chiamata veniva da qualcuno che lavorava per il comitato internazionale della Croce Rossa. Arrivò un giorno durante l’operazione Piombo Fuso, una pesante offensiva israeliana contro Gaza tra la fine del dicembre 2008 e le prime settimane del gennaio 2009.

Non ricordo la data esatta della chiamata. In quel periodo tutti i giorni sembravano uguali.

Per le strade vuote non c’era gente. Ma erano piene di macerie degli edifici che erano stati distrutti o danneggiati.

Nell’aria si sentiva l’odore degli esplosivi.

Era inquietante, ma non silenzioso.

I carri armati e gli elicotteri israeliani erano estremamente rumorosi. Più rumorosi di qualunque altra cosa riuscissimo a sentire.

Al-Saftawi, il quartiere in cui vivevano a nord di Gaza, era buio e spaventoso. Non c’erano acqua, cibo e quasi per niente energia elettrica.

Panico

Il giorno in cui abbiamo ricevuto quella chiamata ha lasciato una cicatrice nella mia anima.

Ricordo mio padre gridare il mio nome e quelli dei miei fratelli e sorelle. Doveva avvertire anche le altre persone che vivevano nel nostro caseggiato.

Sentivo il panico nella sua voce.

Ricordo i vicini affrettarsi verso di noi per aiutarci.

Uno mi teneva per mano mentre correvo. Ero scalza.

Avevo riempito una borsa con quelle poche cose che io, allora quindicenne, consideravo preziose.

In quella borsa finirono i miei vestiti preferiti e il mio diario. Avevo anche messo delle cose che mi avrebbero ricordato i miei migliori amici.

Ma ho dovuto abbandonare la borsa.

Quando ho implorato mio padre di permettermi di portarla, mi disse di uscire immediatamente.

Tutti quelli che abitavano nel nostro edificio si rifugiarono in un altro davanti a casa nostra.

Aspettammo.

Aspettavamo che Israele bombardasse tutto quello che avevamo.

La nostra casa aveva cinque piani e un giardino paradisiaco, con olivi, limoni, fichi e palme. Era stata costruita dai miei genitori con soldi guadagnati duramente. Sul retro avevamo un’altalena. Da bambina mi faceva sentire una privilegiata.

In casa avevamo una foto incorniciata dei nostri nonni. Era un ricordo costante delle traversie della nostra famiglia, di come noi fossimo dei rifugiati perché i nostri nonni erano stati espulsi dai loro villaggi natii di Beit Jirja e Isdud [il primo era un villaggio distrutto dagli israeliani nel 1948, la seconda è l’attuale città israeliana di Ashdot, n.d.tr.] dalle forze sioniste nel 1948.

Le affiliazioni politiche della nostra famiglia erano ovvie dalle foto sui muri.

La fotografia dei miei nonni era appesa accanto a quella di George Habash, il fondatore del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [storico gruppo marxista-leninista della resistenza palestinese, n.d.tr.].

La mia casa rappresentava tutto per me. Ora stavo aspettando che venisse fatta saltare in aria.

Aspettammo per quella che ci sembrò un’eternità. Non successe niente. Fortunatamente.

Non c’è tempo per rimarginare le ferite

L’operazione Piombo Fuso durò tre settimane, durante le quali Israele uccise circa 1400 palestinesi, principalmente civili, inclusi più di 300 minorenni.

Quando finì, avrei voluto che tutto si fermasse per alcuni giorni, così avremmo potuto elaborare quello che avevamo passato, la crudeltà a cui gli israeliani ci avevano sottoposto.

Ma non c’era tempo per metabolizzare. La vita doveva andare avanti.

I palestinesi a Gaza, me inclusa, devono fare i conti con paura e perdite fin da piccoli.

Dopo ogni evento traumatico si continua con le faccende quotidiane. Poi, inaspettato, si verifica un altro evento traumatico.

Dopo l’operazione Piombo Fuso ho fatto quello che ho potuto per vivere una vita ordinaria. Son tornata a scuola e ho fatto finta che tutto fosse a posto.

Ma non era così.

Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a sfuggire a quello che era successo il primo giorno dell’operazione Piombo Fuso. Il rumore degli elicotteri israeliani ronzava ancora nella mia testa.

Io e mia sorella Shahd eravamo a scuola il giorno in cui gli israeliani hanno attaccato una località vicina.

Siamo scappate da scuola insieme, ma fuori ci siamo separate. Per la strada continuavo a chiamare Shahd, ma non riuscivo a trovarla.

Fortunatamente, ci siamo ritrovate dopo poco. Ma da allora mi ha accompagnata il pensiero che quel giorno Shahd sarebbe potuta essere uccisa.

Sono ancora perseguitata anche dall’immagine dei miei compagni di scuola che correvano di qua e di là cercando disperatamente riparo.

E non dimenticherò mai come la nostra famiglia dovette dare la terribile notizia a una nostra amica che allora stava a casa nostra. Anche suo padre stava con noi e fu ucciso durante un’incursione aerea israeliana mentre andava a fare la spesa.

Abbiamo dovuto informare la mia amica e i suoi fratelli della morte del loro padre.

Nessun futuro

Anche se non riuscivo a togliermi queste cose dalla testa, sono riuscita a vivere con un certo grado di normalità fino agli inizi del 2011. Poi sono scoppiate le rivolte in Egitto e Tunisia.

I giovani a Gaza sono stati ispirati da quelle rivolte. Ci spronavano a lottare per i nostri diritti.

Abbiamo iniziato a progettare le nostre proteste e abbiamo cominciato a mobilitarci sui social.

Le attività politiche mi distraevano dai miei studi. Passavo le mattine a scuola e il resto del giorno nelle proteste o organizzandole con gli altri attivisti.

Quell’anno a marzo, abbiamo protestato per tre giorni consecutivi prima che le autorità guidate da Hamas mettessero fine alla nostra protesta. Poliziotti in borghese ci hanno picchiati.

Quel poco di ottimismo nato dalla rivolta egiziana e tunisina a Gaza non è durato a lungo.

L’assedio imposto da Israele ed Egitto ha continuato ad avere un effetto soffocante sulle nostre vite.

I giovani hanno continuato ad essere disperati. La disoccupazione era ancora alta e quasi tutte le famiglie dipendevano da aiuti alimentari, particolarmente delle Nazioni Unite.

Alla fine del 2011 mi sono iscritta all’università di al-Azhar a Gaza City. Ho cominciato un corso di laurea in letteratura inglese e francese.

Andare all’università dovrebbe essere un’esperienza gioiosa ed emozionante. Eppure sentivo che né io né qualsiasi altro giovane avrebbe potuto avere un bel futuro a Gaza.

Per le ragazze è ancora più difficile che per i loro coetanei maschi. Le autorità a guida Hamas non vedono di buon occhio, per usare un eufemismo, donne politicamente attive come me.

Decenni di colonizzazione israeliana hanno reso più pronunciata la cultura patriarcale a Gaza.

Il blocco totale imposto da Israele dal 2006 ci ha isolati dal resto del mondo.

Una conseguenza è che la società è diventata più conservatrice. L’uguaglianza di genere non è considerata come una priorità da molti nel momento in cui peggiorano le condizioni economiche.

Dopo meno di un anno all’università di al-Azhar, ho deciso di lasciare Gaza e trasferirmi in un posto più sicuro. Un posto dove avrei potuto vivere più libera.

Sono andata in Turchia, dove ho studiato giornalismo all’Università di Ankara.

Dalla Turchia ho fatto vari viaggi in Europa. Mi sono poi trasferita in Belgio, dove adesso studio francese.

Ora manco da Gaza da otto anni. Quasi la metà di questo periodo l’ho passato a Bruxelles, dove mi hanno concesso lo status di rifugiata.

Eppure gli orrori di cui sono stata testimone a Gaza non mi hanno abbandonata.

Ho spesso problemi a dormire. Quando riesco ad addormentarmi, spesso ho degli incubi.

Sono regolarmente assalita da paura e ansia. Mi sento insicura, instabile e incerta.

Ho dei flashback delle facce dei miei genitori quando ci hanno detto di andarcene di casa. Erano terrorizzati e impotenti, impossibilitati a compiere il loro dovere fondamentale di proteggere i loro figli.

Ho paura di perdere qualcuno che amo, o cose preziose che mi sono guadagnata con fatica.

Una sensazione di pericolo incombe su di me da molto tempo.

Sono ossessionata dal pensiero di programmare i giorni e talvolta persino le ore seguenti. Se le cose non vanno come avrei voluto, ho degli attacchi di panico.

Trauma complesso

Il trauma che ho subito è complesso e ho deciso che non posso conviverci.

La psicologia occidentale ha dei limiti quando si tratta di quello che i palestinesi hanno vissuto.

Spesso sentiamo che il disturbo da stress post-traumatico è prevalente a Gaza. Il prefisso “post” implica che il trauma è dietro di noi, mentre invece in realtà è costante.

Nonostante i limiti della psicologia occidentale, ho cominciato una terapia cognitivo-comportamentale in Europa occidentale.

Ho cominciato sapendo che il processo di guarigione sarebbe stato lungo e difficile, specialmente perché la violenza inflitta a Gaza sta continuando. Ma il processo è stato facilitato perché ho trovato la terapista giusta che ha capito che il mio trauma è simultaneamente personale e il risultato di quello che i palestinesi hanno vissuto per molte generazioni.

Il mio trauma è parte della memoria e della coscienza collettiva dei palestinesi.

Durante i miei incontri psicoterapeutici, ho imparato di più sull’origine di ognuna delle emozioni che provo.

Ciò mi ha aiutato a sviluppare una strategia. Cerco di affrontare, accettare ed esprimere le paure, invece di evitarle.

Sono costantemente conscia che devo vivere nel presente, invece di lasciare che i ricordi prendano il controllo.

La resilienza del mio popolo mi dà la forza e la speranza che mi servono per continuare.

Riconoscere il trauma che ho subìto mi ha fatta quello che sono oggi e ha modellato la mia consapevolezza delle altre ingiustizie nel mondo. Mi ha resa più forte.

Guerra psicologica

Israele combatte una guerra psicologica che fa parte dell’occupazione. È parte di una strategia deliberata.

Ariel Sharon, ex leader politico e militare israeliano, ha sviluppato una filosofia di quello che è stato definito “mantenere l’incertezza.”

L’analista Alastair Crooke ha scritto di come, implementando la filosofia di Sharon, Israele abbia “ripetutamente esteso e poi limitato lo spazio in cui i palestinesi possono operare attraverso un’imprevedibile combinazione di regolamenti mutevoli fatti rispettare in modo selettivo.”

La Palestina stessa è stata divisa con la costruzione di colonie israeliane e una rete di strade riservate per i coloni. Tutto ciò è inteso a indurre nei palestinesi un senso di “provvisorietà permanente,” scrive Crooke.

La guerra psicologica israeliana è diventata più estrema dopo l’operazione Piombo Fuso.

Durante i pesanti attacchi contro Gaza del 2012 e 2014, Israele ha adottato tattiche più possenti di quanto non ne abbia precedentemente impiegate per tormentare e perseguitare. Le forze israeliane hanno telefonato a palestinesi con messaggi ostili, lanciato da aerei volantini con contenuti intimidatori e interrotto programmi radiotelevisivi palestinesi per trasmettere propaganda israeliana.

La decisione della Corte Penale Internazionale di aprire un’indagine sui crimini nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza è significativa. Finalmente Israele potrebbe essere chiamato a rispondere di alcuni dei suoi crimini.

La decisione solleva anche domande.

Perché la CPI ha impiegato così tanto tempo ad arrivare a questa decisione?

Perché la CPI vuole indagare sulle attività sia di Israele che dei gruppi armati palestinesi? Perché sta trattando “entrambe le parti” – l’occupante e l’occupato – come se fossero uguali?

Perché l’indagine è limitata a eventi che sono successi dopo il giugno 2014? Ciò significa che molti dei crimini israeliani– inclusi quelli commessi durante l’Operazione Piombo Fuso – sono stati ignorati.

Finirà veramente mai l’impunità israeliana? Le vite dei palestinesi importeranno mai ai governi e alle istituzioni più potenti al mondo?

I palestinesi sanno molto bene che gli USA e l’Unione Europea sono complici dei crimini commessi contro di loro. Essi si presentano come avvocati dei diritti umani, eppure finanziano e consentono le violazioni israeliane dei diritti basilari dei palestinesi.

Alcuni dei protagonisti dell’operazione Piombo Fuso godono di una rispettabilità immeritata.

Gabi Ashkenazi, il generale che ha comandato l’offensiva, è ora ministro degli Esteri israeliano. Ciò significa che detiene la carica che Tzipi Livni ha occupato nel 2008 e agli inizi del 2009, quando incoraggiò le truppe israeliane a comportarsi con estrema violenza durante l’attacco contro Gaza.

Oggi, Livni siede nel consiglio di amministrazione dell’International Crisis Group [ong transazionale con sede a Bruxelles e che ha tra i fondatori George Soros, n.d.tr.]. Il sito web dell’International Crisis Group afferma che esso sta “lavorando per prevenire guerre e definire politiche che costruiranno un mondo più pacifico.”

Israele ha sempre agito come se fosse al di sopra del diritto internazionale. Sin dalla sua costituzione, Israele tratta i palestinesi fin dalla culla come una “bomba demografica ad orologeria”.

Sebbene Israele abbia sviluppato e messo in pratica una gamma di tecniche differenti per contenere e spezzare i palestinesi, noi non siamo andati via.

Come ha scritto Tawfiq Ziyad, uno dei nostri grandi poeti:

Qui noi rimarremo

Un muro sopra il nostro petto
affamati, nudi, cantiamo canzoni
riempiamo le strade
con dimostrazioni

e le prigioni con orgoglio
noi generiamo ribellioni
una dopo l’altra
come se fossimo una ventina di impossibilità restiamo

A Lydda, Ramleh, Galilea.

Tamam Abusalama è nata e cresciuta nella Striscia di Gaza. Ora vive in Belgio.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Vaccinare i palestinesi solo se è funzionale a Israele

Maureen Clare Murphy

12 marzo 2021 – The Electronic Intifada

Come direbbero i ragazzini, Il COGAT [Coordinatore delle attività governative nei territori: unità del ministero della difesa israeliano che coordina le questioni civili tra il governo di Israele, le forze di difesa israeliane, le organizzazioni internazionali, i diplomatici e l’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] ricomincia con le sue stronzate.

All’inizio di questa settimana l’ente militare israeliano ha twittato foto di lavoratori palestinesi mentre vengono vaccinati contro il COVID-19 ai posti di blocco in Cisgiordania.

Il COGAT, famigerato per la sua propaganda mediocre e strumentale, ha affermato che l’iniziativa sui vaccini “è un passo importante per assicurare la salute pubblica e la stabilità economica”.

“Fatevi vaccinare!” ha implorato il COGAT, il quale troppo spesso ritarda o nega ai palestinesi i permessi di viaggio per accedere alle cure mediche.

Tuttavia la stragrande maggioranza dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione militare israeliana, anche se lo volesse, non potrebbe essere vaccinata.

Mentre Israele si vanta della sua campagna di vaccinazione di tutti i suoi cittadini, ha rifiutato di fornire il vaccino ai palestinesi che vivono sotto occupazione, in base a quanto previsto dalla Quarta Convenzione di Ginevra.

Vaccinare i palestinesi a vantaggio di Israele

Israele ha recentemente iniziato a fornire vaccini a circa 130.000 palestinesi che lavorano nelle sue fabbriche, nei suoi cantieri e nelle sue colonie, il lavoro sottopagato e sfruttato da cui dipende l’economia israeliana.

Ma Israele non fornirà vaccini ai restanti oltre 5 milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Come ha detto un palestinese alla Reuters “ Anche i lavoratori palestinesi che [gli israeliani] hanno vaccinato, lo hanno fatto a vantaggio della comunità israeliana, non in funzione del benessere dei lavoratori”.

 

Omar Shakir, direttore del programma di Human Rights Watch [organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani, ndtr.] ha osservato che “vaccinare solo quei palestinesi che entrano in contatto con israeliani rafforza [l’idea] che per le autorità israeliane la vita palestinese conti solo nella misura in cui influisca sulla vita ebraica”.

Nel frattempo le unità di terapia intensiva degli ospedali di alcune aree della Cisgiordania stanno attualmente operando al 100% della capacità, poiché nelle comunità palestinesi del territorio i casi di COVID-19 sono in aumento.

Nelle ultime due settimane le città palestinesi hanno introdotto blocchi totali per controllare la crescita del numero delle infezioni da COVID-19, proprio mentre il vicino Israele ha iniziato a revocare le restrizioni procede con una delle campagne di vaccinazione più veloci al mondo”, ha riferito la Reuters.

Apartheid sanitario

La disparità nell’accesso ai vaccini COVID-19 è un chiaro esempio del regime israeliano di apartheid imposto dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo.

“Il regime israeliano mette in campo leggi, pratiche e violenze di Stato progettate per cementare la supremazia di un gruppo – gli ebrei – su un altro – i palestinesi”, ha affermato l’associazione per i diritti umani B’Tselem [organizzazione israeliana non governativa che documenta le violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, ndtr.] in un recente studio.

La distribuzione del vaccino è una dimostrazione scioccante di come gli strateghi israeliani si muovano in modo di volta in volta differente riguardo ai gruppi sottoposti alle sue norme inique.

Mentre i palestinesi con cittadinanza o residenza israeliana hanno diritto a ricevere i vaccini da Israele, i palestinesi in possesso di documenti di identità della Cisgiordania sono stati cacciati dai siti di vaccinazione gestiti da Israele.

L’apartheid sanitario nei territori sotto il controllo di Israele non è una novità.

Physicians for Human Rights-Israel [Medici per i diritti umani: ONG no profit con sede negli Stati Uniti che utilizza medicina e scienza per documentare le gravi violazioni dei diritti umani in tutto il mondo, ndtr.] ha affermato che le disparità nelle condizioni della salute tra israeliani e palestinesi derivano direttamente dall’occupazione.

Uno studio del 2015 dell’organizzazione ha rilevato che l’aspettativa di vita dei palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gaza è di circa 10 anni inferiore a quella in Israele.

Lo stesso studio ha rilevato che la mortalità infantile e la mortalità materna erano quattro volte superiori in Cisgiordania e Gaza rispetto a Israele.

Nello stesso anno, uno studio dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, ha individuato nell’assedio da parte di Israele una delle ragioni dell’aumento a Gaza, per la prima volta in 50 anni, del tasso di mortalità infantile.

Le organizzazioni palestinesi per i diritti umani affermano che il regime dell’apartheid israeliano “ha portato per decenni alla frammentazione e al deterioramento del sistema sanitario” della Cisgiordania e di Gaza.

Ciò ha “negato ai palestinesi il diritto al soddisfacimento di standard ottimali di salute fisica e mentale”.

Vaccini al posto di blocco

La salute dei palestinesi è profondamente intrecciata con l’occupazione israeliana. Il COGAT lo dimostra inconsapevolmente nei suoi tweet sui lavoratori palestinesi che ricevono le vaccinazioni ai posti di blocco militari, che chiama eufemisticamente “punti di passaggio“.

Qualsiasi vaccino che i palestinesi ricevano, sia da Israele che da qualunque altro organismo, dovrebbe passare attraverso i posti di blocco israeliani.

Israele ha rallentato il primo trasferimento di dosi di vaccino agli operatori sanitari a Gaza poiché alcuni parlamentari hanno cercato di condizionare la spedizione a concessioni politiche da parte di Hamas.

Lo ha fatto mentre trasferiva vaccini in altri Paesi in cambio del loro sostegno politico:

giovedì i palestinesi di Gaza hanno ricevuto 40.000 dosi del vaccino russo Sputnik V.

Secondo quanto riferito, le dosi costituivano una donazione da parte degli Emirati Arabi Uniti, assicurata da Muhammad Dahlan, l’ex capo dell’intelligence dell’Autorità Nazionale Palestinese diventato signore della guerra e rivale del leader dell’ANP Mahmoud Abbas all’interno della fazione di Fatah.

Dahlan ha condotto una breve e sanguinosa guerra civile a Gaza dopo la vittoria di Hamas nelle elezioni legislative palestinesi del 2006. Le sue forze sono state sconfitte e Dahlan ora vive in esilio nello Stato del Golfo ricco di petrolio.

Secondo la Reuters, Dahlan ha dichiarato che metà della spedizione di vaccini a Gaza sarebbe stata assegnata ai palestinesi in Cisgiordania.

I pochissimi vaccini che sono arrivati ​​in Cisgiordania non sono stati distribuiti equamente dall’Autorità Nazionale Palestinese che, secondo quanto riferito, li ha assegnati alle élite del partito di Fatah, agli organi di informazione allineati e ai loro familiari.

Resta da vedere se Israele consentirà il trasferimento delle dosi da Gaza alla Cisgiordania, o se il COGAT scoprirà in esso una utilità propagandistica.

E così i palestinesi che vivono sotto l’occupazione militare continueranno ad aspettare mentre la loro salute viene gestita da Israele, da Dahlan e dall’Autorità Nazionale Palestinese in termini di battaglia politica e mentre i Paesi terzi stanno a guardare senza far nulla.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




In Nuova Zelanda il Super Fund dà il benservito alle banche israeliane che finanziano le colonie in Palestina

Roger Fowler

5 marzo 2021 The Palestine Chronicle

In Nuova Zelanda il fondo pensione statale multimiliardario NZ Super Fund ha finalmente disinvestito da cinque delle maggiori banche israeliane perché finanziano la costruzione di colonie illegali nei territori palestinesi occupati.

Il parlamentare del partito neozelandese dei Verdi Golriz Ghahraman ha affermato in una dichiarazione a Spinoff [rivista online neozelandese, ndtr] che il Partito dei Verdi ha accolto con entusiasmo la decisione:

“Da molto tempo i valori e gli obblighi morali della nostra nazione sono calpestati da investimenti che facilitano ciò che l’ONU ha ripetutamente definito un’occupazione illegale, che causa sofferenza al popolo palestinese e si traduce in ulteriori violazioni del diritto umanitario.”

Questa settimana il PSNA [Palestine Solidarity Network Aotearoa, rete neozelandese di associazioni nata nel 2013 per sostenere la causa palestinese, ndtr] ha dichiarato che i sostenitori della Palestina in Aotearoa/Nuova Zelanda [Aotearoa è la denominazione Maori del Paese, ndtr] hanno più volte denunciato queste banche al NZ Super Fund, specialmente dopo che un rapporto di Human Rights Watch del 2018 ha accertato che esse hanno contribuito attivamente alla costruzione delle colonie, in violazione della legge internazionale.

Nel 2012 NZ Super Fund aveva già messo fine per motivi etici ai suoi investimenti in tre compagnie israeliane che stavano costruendo colonie illegali su terre palestinesi.

Janfrie Wakim, portavoce di PSNA, ha dichiarato che Super Fund NZ ha finalmente condotto una indagine accurata arrivando alla conclusione definitiva che sarebbe stato immorale continuare ad investire con queste banche.

“Sia il grande numero di notizie certe sia la legge rendono insostenibile per Super Fund NZ la possibilità di continuare ad investire con queste banche. Nessuna istituzione neozelandese dovrebbe fornire alcun sostegno alla costante espropriazione del popolo palestinese nella sua stessa terra e alla brutale occupazione israeliana.”

“Il Fondo, che mantiene ancora investimenti in altre compagnie israeliane, sostiene che presterà la massima attenzione a tutti i futuri rapporti dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani che riguardino il coinvolgimento di altre compagnie israeliane nella costruzione di colonie illegali,” ha aggiunto Waakim.

Il governo neozelandese è “ancora in ritardo”

Janfrie Wakim ha inoltre affermato che la decisione di disinvestire da parte di NZ Super Fund – insieme con gli argomenti usati – ha evidenziato ciò che definisce un terribile ritardo del governo della Nuova Zelanda.

“Il primo disinvestimento di NZ Super Fund ha riguardato il produttore di armi Elbit Systems e risale ormai al 2012.”

“Eppure, il governo neozelandese ha ammesso che sta comprando forniture militari, collaudate sui palestinesi, da Elbit Systems, vale a dire dalla stessa compagnia che NZ Super Fund ha eliminato dal proprio portfolio di investimenti nel 2012,” ha proseguito Wakim.

Per leggere il documento di NZ Super Fund sulle banche israeliane fai click qui.

-Roger Fowler è uno storico attivista per la pace e rappresentante di comunità di Auckland, Aotearoa/New Zealand e coordina Kia Ora Gaza, che organizza il sostegno di convogli di solidarietà internazionale e di Freedom Flotilla per spezzare l’illegale blocco israeliano di Gaza. Roger è il direttore di kiaoragaza.net. Ha scritto questo articolo per The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




Il commercio illegale di armi da parte di Israele

Terry Crawford-Browne – World BEYOND War

Nel 2013 è stato realizzato un documentario israeliano dal titolo “The Lab”, proiettato a Pretoria e a Città del Capo, in Europa, in Australia e negli USA e che ha vinto molti premi, persino al Tel Aviv International Documentary Film Festival [i].

La tesi del film è che l’occupazione israeliana di Gaza e della Cisgiordania è un “laboratorio” in modo che Israele, per esportarle, possa vantare che le sue armi sono state “testate in guerra e collaudate”. E, in modo ancor più grottesco, come il sangue palestinese si trasformi in denaro!

L’ American Friends Service Committee (i quaccheri) a Gerusalemme ha appena reso pubblico il suo “Database of Israeli Military and Security Exports” [Database delle Esportazioni Israeliane Militari e per la Sicurezza] (DIMSE) [ii]. Lo studio dettaglia il mercato globale e l’uso delle armi e dei sistemi di sicurezza di Israele dal 2000 al 2019. India e USA sono stati i due maggiori importatori, con la Turchia al terzo posto. Lo studio rileva:

“Israele ogni anno si trova tra i primi dieci esportatori di armi al mondo, ma non informa regolarmente il registro delle Nazioni Unite sulle armi convenzionali e non ha ratificato il trattato sul commercio delle armi. Il sistema giudiziario israeliano non richiede trasparenza su questioni legate alla vendita di armamenti e attualmente non ci sono limitazioni legali riguardo ai diritti umani dei paesi in cui vengono esportate le armi israeliane, salvo rispettare l’embargo sulla vendita di armi quando disposto dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.”

Israele ha fornito ai dittatori del Myanmar equipaggiamento militare fin dagli anni ’50. Ma solo nel 2017, dopo le proteste internazionali contro i massacri dei musulmani rohingya e dopo che attivisti israeliani per i diritti umani hanno denunciato ai tribunali israeliani tale commercio, il governo israeliano è riuscito a sentirsi in imbarazzo [iii].

Nel 2018 l’ufficio dell’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani ha dichiarato che i generali del Myanmar dovrebbero essere processati per genocidio. Nel 2020 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia ha ordinato al Myanmar di evitare violenze genocide contro la minoranza rohingya e anche di conservare le prove degli attacchi del passato [iv].

Data la storia dell’Olocausto nazista, è diabolico che il governo e l’industria bellica di Israele siano attivamente complici del genocidio in Myanmar e in Palestina, oltre che in molti altri Paesi, compresi Sri Lanka, Ruanda, Kashmir, Serbia e Filippine [v]. È altrettanto scandaloso che gli USA proteggano Israele, uno Stato che è suo satellite, abusando del loro potere di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Nel suo libro intitolato War against the People [Guerra contro il popolo, Edizioni Epoké, 2017], il pacifista israeliano Jeff Halper inizia con una domanda: “Come fa Israele a farla franca?” La sua risposta è che Israele fa il “lavoro sporco” per gli USA non solo in Medio Oriente, ma anche in Africa, America latina e altrove vendendo armi, sistemi di sicurezza e mantenendo al potere dittature attraverso il saccheggio delle risorse naturali, tra cui diamanti, rame, coltan, oro e petrolio [vi].

Il libro di Halper conferma sia “The Lab” che lo studio del DIMSE. Nel 2009 un ex ambasciatore USA in Israele ha polemicamente avvertito Washington che Israele stava diventando sempre più “la terra promessa del crimine organizzato”. Ora la devastazione della sua industria bellica è tale che Israele è diventato uno “Stato canaglia”.

Nove Paesi africani sono inclusi nella banca dati del DIMSE: Angola, Camerun, Costa d’Avorio, Guinea Equatoriale, Kenya, Marocco, Sud Africa, Sud Sudan e Uganda. Le dittature di Angola, Camerun e Uganda sono legate da decenni all’appoggio militare israeliano. Tutti e nove i Paesi sono noti per la corruzione e le violazioni dei diritti umani, che invariabilmente sono interconnesse.

Il dittatore angolano di lunga data Eduardo dos Santos è stato ritenuto l’uomo più ricco dell’Africa, mentre sua figlia Isobel è diventata la donna più ricca [vii]. Entrambi alla fine sono stati processati per corruzione [viii].  Sui depositi di petrolio in Angola, Guinea Equatoriale, Sud Sudan e Sahara occidentale (occupato dal 1975 dal Marocco in violazione delle leggi internazionali) vi è evidenza del coinvolgimento di Israele.

I diamanti insanguinati sono l’attrattiva di Angola e Costa d’Avorio (oltre che della Repubblica Democratica del Congo e Zimbabwe, non inclusi nello studio). La guerra nella RDC viene definita la “Prima Guerra Mondiale dell’Africa”, perché le sue cause sono cobalto, coltan, rame e diamanti industriali richiesti dal cosiddetto business della guerra nel “Primo Mondo”.

Nel 1997 il magnate dei diamanti Dan Gertler [uomo d’affari israeliano, N.d.T.] ha fornito sostegno finanziario attraverso la sua banca israeliana alla cacciata di Mobutu Sese Seko e alla presa del potere nella RDC da parte di Laurent Kabila. In seguito i servizi di sicurezza israeliani hanno mantenuto al potere Kabila e suo figlio Joseph, mentre Gertler saccheggiava le risorse naturali della RDC [ix].

In gennaio, qualche giorno prima di lasciare il potere, l’ex- presidente Donald Trump ha tolto Gertler dalla lista dei soggetti sottoposti a sanzioni in base alla [legge USA] Global Magnitsky [che impone sanzioni contro i responsabili di violazioni dei diritti umani nel mondo, N.d.T.], in cui Gertler era stato inserito nel 2017 per “accordi minerari poco chiari e corrotti nella RDC”. Il tentativo di Trump di “perdonare” Gertler ora è stato messo in discussione presso il Dipartimento di Stato e il Tesoro USA da trenta organizzazioni della società civile congolesi e internazionali [x].

Benché non abbia miniere di diamanti, Israele è il principale centro mondiale per il taglio e la lavorazione degli stessi. Fondato durante la Seconda Guerra Mondiale con l’aiuto del Sudafrica, il commercio di diamanti ha aperto la strada all’industrializzazione di Israele. L’industria dei diamanti israeliana è anche legata sia all’industria bellica che al Mossad [servizio per la sicurezza estera di Israele, N.d.T.] [xi].

Negli ultimi trent’anni la Costa d’Avorio è stata politicamente instabile e la sua produzione di diamanti irrisoria [xii]. Eppure il rapporto DIMSE rivela che il commercio annuale di diamanti della Costa d’Avorio raggiunge tra i 50.000 e i 300.000 carati, e le imprese di armamenti israeliane sono attivamente coinvolte nello scambio tra armi e diamanti.

Negli anni ’90 cittadini israeliani sono stati coinvolti in modo significativo anche nella guerra civile della Sierra Leone e nello scambio tra armi e diamanti. Il colonnello Yair Klein e altri hanno addestrato il Revolutionary United Front (Fronte Unito Rivoluzionario) (RUF). “La tattica che caratterizzava il RUF era l’amputazione di civili, col taglio di braccia, gambe, labbra e orecchie con machete e asce. L’obiettivo del RUF era terrorizzare la popolazione per ottenere il dominio incontrastato sulle miniere di diamanti” [xiii].

Allo stesso modo una società di copertura del Mossad avrebbe truccato le elezioni nello Zimbabwe durante l’era di Mugabe [xiv]. Il Mossad è sospettato di aver poi organizzato nel 2017 il colpo di stato con cui Mnangagwa ha sostituito Mugabe. I diamanti del Marange, nello Zimbabwe, sono esportati in Israele passando per Dubai [città degli Emirati Arabi Uniti, N.d.T.].

A sua volta Dubai – la nuova patria dei fratelli Gupta [ricchissima famiglia di origine indiana, N.d.T.], è nota come uno dei principali centri mondiali di riciclaggio ed è anche uno dei nuovi amici arabi di Israele – rilascia certificati falsi in osservanza al Kimberley Process [impegno a non commerciare diamanti provenienti da zone di conflitto, N.d.T.] che attestano che questi diamanti insanguinati non sono legati a situazioni di conflitto. Le pietre vengono poi tagliate e lavorate in Israele per essere esportate negli USA, destinati principalmente a giovani ingenui che si bevono lo slogan pubblicitario di De Beers secondo cui i diamanti sono per sempre.

Il Sudafrica si colloca al 47° posto nello studio del DIMSE. Dal 2000 le importazioni di armi da Israele riguardano sistemi radar e aerei modulari in base all’accordo BAE/Saab Gripens, veicoli antisommossa e servizi di sicurezza informatica. Sfortunatamente il giro di denaro non è noto. Prima del 2000, nel 1988 il Sudafrica aveva comprato 60 aerei da caccia non più in uso dell’aviazione israeliana. I velivoli, ribattezzati Cheetah, vennero rivenduti al costo di 1,7 miliardi di dollari e consegnati dopo il 1994.

Questa vicinanza a Israele è diventata politicamente imbarazzante per l’ANC [African National Congress, partito al potere in Sudafrica dalla fine dell’apartheid, N.d.T.]. Benché alcuni aerei fossero ancora imballati, questi Cheetah vennero venduti a prezzi scontati a Cile ed Ecuador. Poi vennero sostituiti da BAE Hawks britannici e BAE/Saab Gripens svedesi a un prezzo maggiorato di 2,5 miliardi di dollari.

Lo scandalo per la corruzione relativa alla vendita di armamenti BAE/Saab non è ancora stato chiarito. Nelle circa 160 pagine di deposizioni giurate dell’Ufficio Britannico Antifrode e degli Scorpions [reparto speciale anticorruzione della polizia sudafricana, N.d.T.] si dettaglia come la BAE abbia pagato tangenti per 2 miliardi di rand [circa 110 milioni di euro], a chi sono state pagate queste bustarelle e su quali conti bancari in Sudafrica e all’estero sono state versate.

L’accordo per il finanziamento attraverso la Barclays Bank di questi caccia Bae/Saab, garantito dal governo britannico e firmato da Trevor Manuel [all’epoca ministro delle Finanze sudafricano, N.d.T.], è un esempio da manuale dell’induzione all’indebitamento del “Terzo Mondo” da parte delle banche britanniche.

Benché rappresenti meno dell’1% del commercio internazionale, si stima che il mercato delle armi rappresenti dal 40% al 45% della corruzione mondiale. Questa stima straordinaria è stata fatta – guarda un po’ – dalla Central Intelligence Agency (la CIA) attraverso il Dipartimento USA per il Commercio [xv].

La corruzione legata al commercio delle armi arriva direttamente ai vertici. Include la regina, il principe Carlo e altri membri della famiglia reale britannica [xvi].  Con pochissime eccezioni include anche ogni membro del Congresso USA, indipendentemente dal partito politico. Nel 1961 il presidente Dwight Eisenhower ammonì sulle conseguenze di quello che definì “il complesso militare-industriale-parlamentare”.

Come descritto in “The Lab”, gli squadroni della morte brasiliani e almeno 100 agenti della polizia americana sono stati addestrati ai metodi utilizzati dagli israeliani per eliminare i palestinesi. Le uccisioni di George Floyd a Minneapolis e di molti altri afro-americani in altre città mostrano chiaramente che la violenza e il razzismo dell’apartheid israeliano sono esportati in tutto il mondo. Le proteste dei Black Lives Matter che ne sono derivate hanno messo in luce che gli USA sono una società estremamente diseguale e disfunzionale.

Già nel 1977 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU stabilì che l’apartheid e le violazioni dei diritti umani in Sudafrica costituivano una minaccia per la pace e la sicurezza internazionali. Venne imposto un embargo alla vendita di armi che venne violato da molti Paesi, in particolare da Germania, Francia, Gran Bretagna, USA e soprattutto da Israele [xvii].

Miliardi e miliardi di rand vennero versati ad Armscor [agenzia sudafricana incaricata dell’acquisto di armamenti, N.d.T.] e ad altri commercianti di armi per lo sviluppo di armi nucleari, missili e altre forniture, che si dimostrarono totalmente inutili contro l’opposizione interna all’apartheid. Tuttavia, invece di difendere con successo il sistema dell’apartheid, le spese sconsiderate per gli armamenti mandarono in bancarotta il Sudafrica.

Come ebbe a scrivere l’ex direttore di “Business Day” [quotidiano economico sudafricano, N.d.T.] il defunto, Ken Owen:

“Il male dell’apartheid apparteneva ai dirigenti civili, le sue follie erano interamente a carico degli ufficiali dell’esercito. È un’ironia della nostra liberazione che l’egemonia degli afrikaner [bianchi sudafricani di origine olandese, belga, tedesca e francese, N.d.T.] avrebbe potuto durare altri 50 anni se i teorici militari non avessero dirottato la ricchezza nazionale in imprese strategiche come Mossgas e Sasol [aziende energetiche, N.d.T.], Armscor [agenzia per l’acquisto e la produzione di armi, N.d.T.] e Nufcor [agenzia per l’acquisto di uranio, N.d.T.], che alla fine non ci hanno portato altro che bancarotta e disonore”[xviii].

Sulla stessa linea il direttore della rivista Noseweek [mensile sudafricano, N.d.T.] Martin Welz ha affermato: “Israele aveva il cervello ma non i soldi. Il Sudafrica i soldi, ma non il cervello.” In breve il Sudafrica finanziò lo sviluppo dell’industria bellica israeliana che oggi è la principale minaccia alla pace mondiale. Quando finalmente nel 1991 Israele si piegò alle pressioni USA e iniziò a fare marcia indietro rispetto all’alleanza con il Sudafrica, l’industria degli armamenti e i capi militari israeliani vi si opposero risolutamente.

Erano furibondi e insistettero che era un “suicidio”. Dichiararono: “Il Sudafrica ha salvato Israele.” Va anche ricordato che i fucili semiautomatici G3 utilizzati dalla polizia sudafricana nel massacro di Marikana [in cui vennero uccisi 34 lavoratori in sciopero e feriti gravemente almeno altri 78, N.d.T.]  del 2012 erano stati fabbricati dalla “Denel” su licenza israeliana.

Due mesi dopo il famoso discorso del Rubicone del presidente PW Botha [in cui egli affermò che il sistema di apartheid non sarebbe stato modificato, N.d.T.] nell’agosto 1985, quello che una volta era stato un banchiere bianco e conservatore diventò un rivoluzionario. All’epoca ero direttore del tesoro regionale di Nedbank [gruppo sudafricano di servizi finanziari, N.d.T.] per la provincia del Capo occidentale e responsabile delle operazioni bancarie internazionali. Ero anche un sostenitore della End Conscription Campaign [campagna per porre fine alla coscrizione obbligatoria] (ECC) e rifiutai di consentire che mio figlio, che era adolescente venisse registrato per il servizio di leva nell’esercito dell’apartheid.

La pena per il rifiuto di fare il servizio militare nell’esercito sudafricano era di sei anni di prigione. Si stima che 25.000 giovani bianchi abbiano lasciato il Paese per non essere arruolati nell’esercito dell’apartheid. Che il Sudafrica continui ad essere uno dei Paesi più violenti al mondo è solo una delle molte conseguenze persistenti del colonialismo, dell’apartheid e delle loro guerre.

Con l’arcivescovo Desmond Tutu e il defunto dottor Beyers Naude [religioso e attivista anti-apartheid afrikaner, N.d.T.] nel 1985 alle Nazioni Unite a New York lanciammo la campagna internazionale di sanzioni bancarie come ultima iniziativa nonviolenta per evitare una guerra civile e uno spargimento di sangue razziale. I paralleli tra il movimento americano per i diritti civili e la campagna mondiale contro l’apartheid erano evidenti agli afro-americani. Un anno dopo, superando il veto del presidente Ronald Reagan, venne approvato il Comprehensive Anti-Apartheid Act [legge Usa contro l’apartheid, N.d.T.].

Nel 1989, con la perestroika e l’imminente fine della Guerra Fredda, sia il presidente George Bush (Senior) che il Congresso USA minacciarono di vietare al Sudafrica di fare qualunque transazione finanziaria negli USA. Tutu e noi attivisti anti-apartheid non potevamo più essere tacciati di essere “comunisti”.  Questo era il contesto in cui tenne il suo discorso il presidente FW de Klerk nel febbraio 1990. De Klerk se ne rese chiaramente conto.

Senza accesso alle sette maggiori banche di New York e al sistema di pagamento in dollari USA, il Sudafrica non sarebbero più stato in grado di commerciare con nessun Paese al mondo. Il presidente Nelson Mandela in seguito riconobbe che la campagna di sanzioni bancarie di New York era stata la strategia più efficace contro l’apartheid [xix].

Quanto successo in Sudafrica è una lezione di particolare rilevanza per Israele che, come il Sudafrica dell’apartheid, sostiene falsamente di essere una democrazia. Dire che le critiche sono “antisemite” è sempre più controproducente, in quanto sempre più ebrei in tutto il mondo si dissociano dal sionismo.

Che Israele sia uno Stato di apartheid è ora ampiamente documentato – anche dal Tribunale Russell sulla Palestina che si riunì a Città del Capo nel novembre 2011. Allora confermò che la condotta del governo israeliano verso i palestinesi rispondeva ai criteri giuridici dell’apartheid, ed era un crimine contro l’umanità.

All’interno dello stato di Israele vero e proprio più di 50 leggi discriminano i palestinesi cittadini d’Israele sulla base della cittadinanza, della terra e della lingua, con il 93% della terra riservata solo all’insediamento ebraico. Durante il Sudafrica dell’apartheid simili umiliazioni erano descritte come “piccolo apartheid”. Dall’altra parte della Linea Verde, l’Autorità Nazionale Palestinese è un bantustan del “grande apartheid”, ma con ancor meno autonomia di quella che avevano i Bantustan in Sudafrica.

L’impero romano, quelli ottomano, francese, britannico e sovietico alla fine sono tutti crollati dopo aver fatto bancarotta a causa dei costi delle loro guerre. Per dirla con le concise parole del defunto Chalmers Johnson [storico ed economista statunitense, N.d.T.], che ha scritto tre libri sul futuro crollo dell’impero americano: “Le cose che non possono durare per sempre, non durano” [xx].

Ora l’imminente collasso dell’impero USA è stato evidenziato dall’insurrezione di Washington istigata da Trump il 6 gennaio. Nelle elezioni presidenziali del 2016 l’alternativa è stata tra una criminale di guerra e un pazzoide. All’epoca ho sostenuto che il pazzoide fosse in realtà la scelta migliore perché Trump avrebbe demolito il sistema mentre Hillary Clinton lo avrebbe ritoccato e fatto durare di più.

Con il pretesto di “proteggere l’America”, centinaia di miliardi di dollari sono stati spesi in armi inutili. Che gli USA abbiano perso ogni guerra combattuta dalla Seconda Guerra Mondiale non sembra importare finché il denaro arriva a Lockheed Martin, Raytheon, Boeing e a migliaia di altri fornitori di armi, oltre che alle banche e alle imprese petrolifere [xxi].

Dal 1940 alla fine della Guerra Fredda nel 1990 gli USA hanno speso 5.8 trilioni di dollari solo per le armi nucleari e lo scorso anno hanno deciso di spendere altri 1.2 trilioni per modernizzarle [xxii].

Il trattato sulla proibizione delle armi nucleari è diventato una legge internazionale il 22 gennaio 2021.

Si stima che Israele abbia 80 testate nucleari puntate verso l’Iran. Nel 1969 il presidente Richard Nixon ed Henry Kissinger escogitarono la finzione che “gli USA avrebbero accettato lo stato nucleare di Israele finché Israele non lo avesse riconosciuto pubblicamente” [xxiii].

Come riconosce l’International Atomic Energy Agency [Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, con sede a Vienna, N.d.T.] (IAEA), l’Iran ha abbandonato l’obiettivo di sviluppare armi nucleari fin dal 2003, dopo che gli americani avevano impiccato Saddam Hussein, che era stato “il loro uomo” in Iraq. L’insistenza israeliana secondo cui l’Iran rappresenta una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale è falsa tanto quanto le false notizie dell’intelligence nel 2003 riguardo alle “armi di distruzione di massa” dell’Iraq.

I britannici “scoprirono” il petrolio in Persia [Iran] nel 1908 e lo depredarono. Dopo che un governo democraticamente eletto nazionalizzò l’industria petrolifera iraniana, nel 1953 il governo britannico e quello USA orchestrarono un colpo di stato e poi appoggiarono la brutale dittatura dello Scià finché essa venne rovesciata dalla rivoluzione iraniana del 1979.

Gli americani erano (e continuano ad essere) furiosi. Per vendetta e in collaborazione con Saddam e con molti altri governi (compreso il Sudafrica dell’apartheid), gli USA provocarono deliberatamente una guerra di otto anni tra Iraq e Iran. Dati questi precedenti e inclusa la revoca da parte di Trump del Joint Comprehensive Plan of Action [accordo sul nucleare iraniano firmato da Obama, N.d.T.] (JCPOA), non c’è da stupirsi che gli iraniani siano così scettici riguardo agli impegni USA di rispettare qualunque accordo o trattato.

Sono in questione il ruolo del dollaro USA come moneta di riserva mondiale e la determinazione degli USA a imporre la propria egemonia sia finanziaria che militare sull’intero pianeta. Ciò spiega anche la ragione dei tentativi di Trump di promuovere una rivoluzione in Venezuela, che ha le maggiori riserve di petrolio al mondo. Nel 2016 Trump ha sostenuto che avrebbe “prosciugato la palude” a Washington. Al contrario durante la sua presidenza la palude è degenerata in una fogna, come evidenziato dai suoi accordi per gli armamenti con l’Arabia Saudita, Israele e gli EAU, oltre al suo “accordo del secolo” con Israele [xxiv].

Il presidente Joe Biden deve la sua elezione all’affluenza alle urne degli elettori afro-americani negli “Stati blu” [Stati prevalentemente a favore del partito Democratico, N.d.T.]. Date le rivolte del 2020, l’impatto delle iniziative di Black Lives Matter e l’impoverimento delle classi medie e di quella operaia, la sua presidenza darà la priorità alle questioni dei diritti umani in patria e anche al disimpegno a livello internazionale.

Dopo 20 anni di guerre dall’11 settembre in poi, gli USA sono stati superati in astuzia dalla Russia in Siria e dall’Iran in Iraq. E l’Afghanistan ha ancora una volta confermato la sua storica fama di “tomba degli imperi”. In quanto ponte terrestre tra Asia, Europa e Africa, il Medio Oriente è vitale per le ambizioni cinesi di confermare la propria posizione storica come Paese dominante a livello mondiale.

Un’avventata guerra israeliana/saudita/statunitense contro l’Iran provocherebbe quasi certamente il coinvolgimento di Russia e Cina. Le conseguenze globali potrebbero essere catastrofiche per l’umanità.

L’indignazione internazionale dopo l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi è stata aggravata dalle rivelazioni secondo cui USA e Gran Bretagna (più altri Paesi, compreso il Sudafrica) sono stati complici, avendo fornito all’Arabia Saudita e agli EAU non solo armi, ma anche supporto logistico alla guerra di sauditi ed emiratini in Yemen.

Biden ha già annunciato che i rapporti tra USA e Arabia Saudita saranno “ridefiniti” [xxv]. Pur proclamando che “l’America è tornata”, la realtà che l’amministrazione Biden si trova davanti è una crisi interna. Le classi medie e lavoratrici si sono impoverite e, a causa delle priorità economiche dovute alle guerre dopo l’11 settembre e quindi le infrastrutture americane sono state trascurate in modo deplorevole. L’avvertimento di Eisenhower nel 1961 è stato ora confermato.

Più del 50% del bilancio del governo federale USA viene speso per preparativi bellici e per continuare a finanziare i costi delle guerre passate. Annualmente il mondo, per lo più gli USA e i suoi alleati della NATO, spende 2 trilioni di dollari per prepararsi alla guerra. Una frazione di questa somma potrebbe finanziare urgenti problemi legati al cambiamento climatico, alla povertà e a una serie di altre priorità.

Dalla guerra dello Yom Kippur del 1973 il prezzo del petrolio dell’OPEC è valutato solo in dollari USA. Con un accordo negoziato da Henry Kissinger il petrolio saudita ha sostituito l’oro come base monetaria [xxvi]. Le conseguenze globali sono immense, ed includono:

  • Garanzie di USA e Gran Bretagna riguardo alla famiglia reale saudita contro rivolte interne;
  • Al petrolio dell’OPEC è stato attribuito un prezzo solo in dollari USA, e i proventi sono depositati nelle banche di New York e Londra. Di conseguenza il dollaro è la valuta di riserva internazionale, e il resto del mondo finanzia il sistema bancario, l’economia e le guerre degli USA;
  • La Banca d’Inghilterra amministra un “fondo nero saudita”, il cui scopo è finanziare la destabilizzazione occulta di Paesi ricchi di risorse naturali in Asia e Africa. Se l’Iraq, l’Iran, la Libia o il Venezuela dovessero chiedere il pagamento in euro o in oro invece che in dollari, la conseguenza sarebbe un “cambiamento di regime”.

Grazie alla base monetaria in petrolio saudita la spesa militare altrettanto illimitata degli USA viene attualmente finanziata dal resto del mondo. Ciò include i costi di circa 1.000 basi militari USA in tutto il pianeta, il cui scopo è di garantire che gli USA, con solo il 4% della popolazione mondiale, possano conservare la propria egemonia militare e finanziaria. Circa 34 di queste basi sono in Africa, di cui due in Libia [xxvii].

L’“Alleanza dei Cinque Occhi” formata da Paesi anglofoni bianchi (che comprende USA, Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda e di cui Israele è di fatto membro) si è arrogata il diritto di intervenire quasi ovunque nel mondo. La NATO è intervenuta con risultati disastrosi in Libia nel 2011 dopo che Muammar Gheddafi ha chiesto il pagamento del petrolio libico in oro invece che in dollari.

Con il declino economico degli USA e la Cina in crescita, queste strutture militari e finanziarie non sono né adeguate né sostenibili nel XXI secolo. Dopo aver aggravato la crisi finanziaria del 2008 con massicce operazioni di salvataggio finanziario a favore delle banche e della borsa, la pandemia da COVID e un intervento di salvataggio finanziario ancora più esteso hanno accelerato il collasso dell’impero USA.

Ciò coincide con una situazione in cui gli USA non sono più nemmeno i principali importatori dal petrolio mediorientale o da esso dipendenti. Sono stati rimpiazzati dalla Cina, che è anche il maggior creditore dell’America e detentore di buoni del Tesoro USA. Le implicazioni per Israele come Stato di colonialismo d’insediamento nel mondo arabo saranno enormi, dal momento che il “grande padre” non può intervenire o non lo farà.

Il prezzo dell’oro e del petrolio erano il barometro con il quale venivano misurati i conflitti internazionali. Il prezzo dell’oro è stagnante e anche quello del petrolio è relativamente basso, mentre l’economia saudita è in grave crisi. Al contrario, il prezzo del bitcoin è salito alle stelle, da 1.000 dollari quando Trump ha assunto il potere nel 2017 a oltre 58.000 il 20 febbraio scorso. Persino i banchieri di New York improvvisamente prevedono che il prezzo del bitcoin possa addirittura raggiungere i 200.000 dollari entro la fine del 2021, mentre il dollaro USA continuerà a calare e un nuovo sistema finanziario globale sta emergendo dal caos [xxviii].

Terry Crawford-Browne è coordinatore per il Sudafrica di World BEYOND War [Mondo oltre la Guerra, organizzazione pacifista presente in una ventina di Paesi, N.d.T.] e autore di Eye on the Money [Occhi sul denaro] (2007), Eye on the Diamonds [Occhi sui diamanti], (2012) e Eye on the Gold [Occhi sull’oro] (2020).

 

[i] Kersten Knipp, “The Lab:  Palestinians as Guinea Pigs?” Deutsche Welle/Qantara de 2013, 10 December 2013.

[ii] Database of Israeli Military and Security Exports (DIMSA). American Friends Service Committee, November 2020. https://www.dimse.info/

[iii] Judah Ari Gross, “After courts gagged ruling on arms sales to Myanmar, activists call for protest,” Times of Israel, 28 September 2017.

[iv] Owen Bowcott and Rebecca Ratcliffe, “UN’s top court orders Myanmar to protect Rohingya from Genocide, The Guardian, 23 January 2020.

[v] Richard Silverstein, “Israel’s Genocidal Arms Customers,” Jacobin Magazine, November 2018.

[vi] Jeff Halper, War against the People: Israel, the Palestinians and Global Pacification, Pluto Press, London 2015

[vii] Ben Hallman, “5 Reasons why Luanda Leaks is bigger than Angola,” International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), 21 January 2020.

[viii] Reuters, “Angola moves to seize Dos Santos-linked asset in Dutch Court,” Times Live, 8 February 2021.

[ix] Global Witness, “Controversial billionaire Dan Gertler appears to have used suspected international money laundering network to dodge US sanctions and acquire new mining assets in DRC,” 2 July 2020.

[x] Human Rights Watch, “Joint letter to the US on Dan Gertler’s License [No. GLOMAG-2021-371648-1], 2 February 2021.

[xi] Sean Clinton, “The Kimberley Process: Israel’s multi-billion dollar blood diamond industry,” Middle East Monitor, 19 November 2019.

[xii] Tetra Tech on behalf of US AID, “Artisanal Diamond Mining Sector in Côte d’Ivoire,” October 2012.

[xiii] Greg Campbell, Blood Diamonds: Tracing the Deadly Path of the World’s Most Precious Stones, Westview Press, Boulder, Colorado, 2002.

[xiv] Sam Sole, “Zim voters’ roll in hands of suspect Israeli company,” Mail and Guardian, 12 April 2013.

[xv] Joe Roeber, “Hard-Wired For Corruption,” Prospect Magazine, 28 August 2005

[xvi] Phil Miller, “Revealed: British royals met tyrannical Middle East monarchies over 200 times since Arab Spring erupted 10 years ago,” Daily Maverick, 23 February 2021.

[xvii] Sasha Polakow-Suransky, The Unspoken Alliance: Israel’s Secret Relationship with Apartheid South Africa, Jacana Media, Cape Town, 2010.

[xviii] Ken Owen, Sunday Times, 25 June 1995.

[xix] Anthony Sampson, “A Hero from an Age of Giants,” Cape Times, 10 December 2013.

[xx] Chalmers Johnson [who died in 2010] wrote numerous books.  His trilogy on the US Empire, Blowback [2004], The Sorrows of Empire [2004] and Nemesis [2007] focus on the Empire’s future bankruptcy because of its reckless militarism.  A 52-minute video interview produced in 2018 is an insightful prognosis and readily available free-of-charge.  https://www.youtube.com/watch?v=sZwFm64_uXA

[xxi] William Hartung, The Prophets of War: Lockheed Martin and the Making of the Military Industrial Complex, 2012

[xxii] Hart Rapaport, “The US government plans to spend over one trillion dollars on Nuclear Weapons,” Columbia K=1 Project, Center for Nuclear Studies, 9 July 2020

[xxiii] Avner Cohen and William Burr, “Don’t Like That Israel Has the Bomb? Blame Nixon,” Foreign Affairs, 12 September 2014.

[xxiv] Interactive Al Jazeera.com, “Trump’s Middle East Plan and a Century of Failed Deals,” 28 January 2020.

[xxv] Becky Anderson, “US sidelines Crown Prince in recalibration with Saudi Arabia,” CNN, 17 February 2021

[xxvi] F. William Engdahl, A Century of War: Anglo-American Oil Politics and the New World Order, 2011.

[xxvii] Nick Turse, “US military says it has a ‘light footprint in Africa: These documents show a vast network of bases.” The Intercept, 1 December 2018.

[xxviii] “Should the World Embrace Cryptocurrencies?” Al Jazeera: Inside Story, 12 February 2021.

Traduzione di Zeitun




Questo è nostro – e anche questo: la politica coloniale di Israele in Cisgiordania

Marzo 2021 B’Tselem

sommario del rapporto congiunto con Kerem Navot[associazione della società civile israeliana che dal 2012 analizza la politica territoriale di Israele in Cisgiordania, ndtr]

 

Lo Stato di Israele sta imponendo un regime di supremazia ebraica nell’intera zona fra il fiume Giordano ed il Mar Mediterraneo. Il fatto che la Cisgiordania non sia stata formalmente annessa non impedisce ad Israele di trattarla come se fosse un proprio territorio, soprattutto se pensiamo alle ingenti risorse investite nello sviluppo delle colonie e nella costruzione delle infrastrutture necessarie ai residenti. Questa politica ha permesso la creazione di più di 280 colonie e avamposti abitati da oltre 440.000 cittadini israeliani (esclusa Gerusalemme Est). Grazie a questa politica sono stati rubati, sia con mezzi ufficiali sia non ufficiali, oltre due milioni di dunam (200.000 ettari) di terre palestinesi; la Cisgiordania è attraversata in lungo e in largo da strade che collegano le colonie fra di loro e con il territorio sovrano di Israele, ad ovest della Linea Verde [il confine tra Israele e i territori occupati, ndtr.] e l’intera area è disseminata di zone industriali israeliane. Nel corso dei decenni tutto questo ha trasformato la geografia della Cisgiordania tanto da renderla irriconoscibile.

 Questo rapporto, che tratta dei meccanismi finanziari, legali e di pianificazione utilizzati dalle autorità israeliane da oltre cinquant’anni al fine di permettere la creazione, l’espansione e il mantenimento delle colonie, si concentra su due aspetti chiave. In primo luogo, gli sforzi intrapresi da diverse autorità statali per incoraggiare gli ebrei a trasferirsi nelle colonie e a sviluppare imprese economiche dentro e intorno ad esse. Lo Stato offre moltissimi benefici ed incentivi ai coloni e alle colonie tramite canali ufficiali ma anche non ufficiali – ampiamente esaminati nella relazione. I più significativi sono i sussidi per l’alloggio, che consentono di comprare case nelle colonie a quelle famiglie che non hanno capitali o fonti di reddito sufficienti. Questi sussidi spiegano in parte la rapida crescita della popolazione nelle grandi colonie ultra-ortodosse in Cisgiordania – Modi’in Illit and Beitar Illit. Oltre a ciò, agli abitanti di circa trenta colonie, alcune delle quali ricche, vengono offerte significative agevolazioni fiscali fino a 200.000 shekel, corrispondenti a circa € 50.600.

Alle zone industriali in Cisgiordania vengono offerti ulteriori benefici e incentivi, che comprendono imposte scontate sui terreni agricoli e sussidi per l’occupazione. Questi stimolano in modo significativo la crescita del numero di fabbriche in zona. Israele incoraggia inoltre gli ebrei a stabilire nuovi avamposti, che funzionano come aziende agricole e consentono l’acquisizione di pascoli e terreni agricoli palestinesi su vasta scala. Nel corso dell’ultimo decennio si sono create quaranta aziende agricole di questo tipo, che hanno di fatto incorporato decine di migliaia di dunam (un dunam equivale a 1000 mq).

 In secondo luogo, il rapporto analizza l’impatto territoriale dei due blocchi di colonie che attraversano la Cisgiordania. Un blocco, costruito a sud di Betlemme, si estende dagli agglomerati urbani di Beitar Illit and Efra ad ovest e gli insediamenti appartenenti al consiglio regionale di Gush Etzion, che circondano Betlemme ed i villaggi intorno, fino alla colonia di  Nokdim e dintorni ai margini del deserto della Giudea, ad est. L’altro blocco è situato nel centro della Cisgiordania e consiste delle colonie di Ariel, Rehelim, Eli, Ma’ale Levona, Shilo, nonchè degli avamposti costruiti intorno ad esse. Anche questo blocco attraversa la Cisgiordania, fino a raggiungere le colline che si affacciano sulla valle del Giordano.

Israele non risparmia alcuno sforzo per aumentare la popolazione di questi due blocchi e per estenderne l’impronta geografica. Ciò viene perseguito progettando nuove zone abitative, costruendo infrastrutture e preparando progetti e terreni per edifici e aree residenziali futuri. Nell’ultimo decennio queste iniziative hanno già portato ad una crescita demografica accelerata in entrambi i blocchi. Si prevede che la popolazione di Efrat raddoppierà o addirittura triplicherà nei prossimi decenni, che quella di Beitar Illit crescerà di 20.000 coloni e quella di Ariel di circa 8.000.

 L’impatto di questi due blocchi va ben oltre la superficie effettivamente coperta (che si estende su circa 20.000 dunam) ed il numero degli abitanti (un totale di circa 121.000 coloni). È la loro stessa esistenza a pregiudicare qualsiasi possibilità di sviluppo sostenibile per i palestinesi nella zona, oltre a colpire direttamente i mezzi di sostentamento e il futuro di decine di migliaia di palestinesi in numerose comunità

    Il blocco a sud di Betlemme si estende dalla Linea Verde ad ovest fino ai margini del deserto della Giudea ad est, quasi al confine municipale meridionale di Gerusalemme – incluse le parti della Cisgiordania annesse poche settimane dopo l’occupazione – e si estende a sud fino al campo profughi di al-‘Arrub. Le colonie ed avamposti di questo blocco interrompono lo spazio palestinese in quanto tagliano fuori la zona di Betlemme da quella di Gerusalemme a nord e da Hebron e dintorni a sud. Inoltre frammentano la stessa area di Betlemme, in quanto trasformano i villaggi in aree isolate, impediscono il futuro sviluppo della città e controllano la Route 60 – la maggiore arteria di traffico che attraversa la Cisgiordania da nord a sud e mette in collegamento Gerusalemme, Betlemme e la Cisgiordania meridionale.
  Il blocco centrale taglia in due la Cisgiordania da ovest ad est, interrompendo la contiguità di una serie di comunità palestinesi. Le colonie di Eli e Shilo con gli avamposti intorno ad esse sono state edificate in una delle aree più fertili e popolose della Cisgiordania, che sono state utilizzate da generazioni come aree rurali palestinesi, in cui gli abitanti affidavano alla coltivazione intensiva della terra il proprio sostentamento. I coloni di questa zona hanno gradualmente e accanitamente spogliato i palestinesi di migliaia di dunam di terreni fertili, privandoli così dei loro mezzi di sopravvivenza.

In seguito alla creazione di questi due blocchi di insediamenti, i palestinesi hanno perduto l’accesso a migliaia di dunam di terre fertili, sia direttamente (in aree dichiarate “terreno demaniale” o chiuse su ordine militare) oppure in conseguenza dell’effetto dissuasivo della violenza dei coloni che ha il sostegno dello Stato e impedisce a molti palestinesi di tentare di entrare nelle proprie terre. Intorno alle colonie di Tekoa and Nokdim, i palestinesi hanno perso l’accesso ad almeno 10.000 dunam, mentre nei dintorni di Shilo, Eli e avamposti connessi, gli è precluso l’accesso ad almeno 26.500 dunam.

Questo rapporto dovrebbe essere letto contestualmente al documento di sintesi pubblicato recentemente da B’Tselem, il quale afferma che il regime israeliano, impegnato a promuovere e perpetuare la supremazia ebraica nell’intera area fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, è un regime di apartheid. La linea politica del regime volta alla ebreizzazione dell’area non è circoscritta ai due blocchi di insediamenti discussi in questo rapporto, ma viene implementata su tutto il territorio in base alla logica che la terra sia una risorsa che deve andare a beneficio primario della popolazione ebraica. Ne consegue che la terra viene usata per sviluppare ed ampliare le colonie ebraiche esistenti e costruirne di nuove, mentre i palestinesi vengono espropriati e rinchiusi in piccole affollate enclave. Questa politica della terra è praticata all’interno del territorio sovrano di Israele dal 1948, e dal 1967 si applica ai palestinesi nei territori occupati.

 

i coloni aggrediscono i raccoglitori di olive a huwarah, distretto di nablus. fotogramma da video. video: muhammad fawzi, 7 ottobre 2020.

 

Il rapporto è l’ennesima dimostrazione che, anche se il progetto dell’annessione de jure della Cisgiordania può esser stato accantonato, questo si rivela in pratica irrilevante. Le costruzioni e gli interventi infrastrutturali effettuati recentemente in Cisgiordania non raggiungevano da decenni una simile portata. Questo sviluppo su larga scala è inteso a facilitare un’ulteriore significativa impennata nel numero dei coloni residenti in Cisgiordania, che secondo le previsioni dei leader delle colonie arriverà in poco tempo a un milione.

 Questi massicci investimenti rafforzano ulteriormente la stretta di Israele sulla Cisgiordania a dimostrazione dei progetti a lungo termine del regime. Uno di questi consiste nel suggellare la posizione di milioni di palestinesi quali soggetti privi di diritti e di protezione, a cui è negata qualsiasi possibilità di decidere del proprio futuro e che vengono costretti a vivere in enclave separate, in declino, senza alcuna possibilità di sviluppo economico. Spogliati di sempre più terre, sono costretti a guardare mentre si costruiscono quartieri e infrastrutture per i cittadini ebrei. Sono passati due decenni dall’inizio del XXI secolo e Israele sembra più che mai deciso a proseguire nel mantenimento e rafforzamento nell’intera area di un regime di apartheid sotto il suo controllo per i prossimi decenni.

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)