Attivisti di sinistra e palestinesi arrestati dopo lo scontro con coloni della Cisgiordania

Hagar Shezaf

26 settembre 2023 – Haaretz

Secondo la polizia lo scontro è iniziato quando gli attivisti sono arrivati nel villaggio palestinese di Khirbet Karameh, che si trova vicino a una colonia. L’incidente segue un periodo di rapida escalation di violenza sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza.

Sei palestinesi e tre attivisti israeliani di sinistra sono stati arrestati martedì dopo essersi scontrati con i coloni nell’insediamento di Otniel, in Cisgiordania, sulle colline a sud di Hebron.

Secondo una dichiarazione rilasciata dalla polizia lo scontro è iniziato quando gli attivisti israeliani e palestinesi sono arrivati al villaggio palestinese di Khirbet Karameh che si trova in prossimità della colonia.

Le forze di polizia arrivate sul posto hanno arrestato tre attivisti israeliani di sinistra per interrogarli con l’accusa di aggressione e danneggiamento. Sono stati rilasciati nonostante la polizia avesse chiesto di prolungare la loro detenzione.

La polizia ha anche arrestato sei palestinesi sospettati di aggressione, danneggiamento e violazione di domicilio. Nella tarda giornata di martedì è fissata l’udienza davanti ad un tribunale per discutere la proroga della loro detenzione.

Lo scontro a Otniel segue un periodo di rapida escalation di violenza sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza. Sabato un attacco di droni dell’esercito israeliano ha colpito una posizione di Hamas nel nord della Striscia di Gaza.

L’esercito israeliano ha affermato che l’attacco è stato condotto in risposta al fuoco di un militante che aveva sparato contro le truppe israeliane nella zona durante una manifestazione. Secondo l’esercito un miliziano di Hamas è stato colpito dal fuoco israeliano.

Domenica le organizzazioni palestinesi Hamas, Jihad islamica e il Fronte popolare per la Liberazione della Palestina hanno annunciato di aver concordato di continuare ad aumentare la tensione sulla sicurezza e le azioni violente contro Israele.

In una dichiarazione congiunta le fazioni hanno affermato di aver concordato di aumentare il coordinamento tra loro per “affrontare l’aggressione di Israele”. La decisione è stata presa nel corso di un incontro a Beirut a cui hanno partecipato alti funzionari dei gruppi militanti.

La settimana scorsa attivisti dell’organizzazione israeliana di estrema destra Im Tirtzu hanno importunato una delegazione di diplomatici stranieri in visita alle comunità palestinesi vicino a Ramallah in Cisgiordania guidata dal gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem.

Gli attivisti di estrema destra hanno molestato i diplomatici e hanno seguito il gruppo nella sua visita in un villaggio palestinese nell’’area B della Cisgiordania – un territorio sotto il controllo civile palestinese ma sotto controllo di sicurezza congiunto con Israele. Gli attivisti sono stati successivamente arrestati dalle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese e trasferiti in Israele.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




I pogrom funzionano: gli sfollamenti sono già in atto

B’Tselem

21 Settembre 2023 – B’Tselem Publications

Da decenni Israele mette in pratica una serie di misure programmate per rendere invivibile la vita all’interno di decine di comunità palestinesi in tutta la Cisgiordania. Ciò fa parte di un tentativo di costringere gli abitanti di queste comunità ad andarsene via, apparentemente di propria iniziativa. Una volta raggiunto questo scopo lo Stato potrà realizzare il suo obiettivo di impossessarsi del territorio. Per raggiungere questo obiettivo Israele vieta ai componenti di queste comunità di costruire case, strutture agricole o edifici pubblici. Non consente loro di collegarsi alle reti idriche ed elettriche o di costruire strade e quando, non avendo altra scelta, lo fanno Israele minaccia la demolizione, passando spesso alle vie di fatto.

La violenza dei coloni è un altro strumento utilizzato da Israele per creare ulteriori tormenti ai palestinesi che vivono in queste comunità.

Sotto lattuale governo tali aggressioni sono notevolmente peggiorate trasformando la vita in alcuni luoghi in un incubo senza fine e negando agli abitanti qualsiasi possibilità di vivere con un minimo di dignità. La violenza ha privato gli abitanti palestinesi della loro capacità di continuare a guadagnarsi da vivere. Li ha terrorizzati al punto da temere per le loro vite e ha inculcato in loro la consapevolezza che non c’è nessuno che li protegga.

Questa realtà non ha lasciato a queste comunità altra scelta e molte di loro si sono sradicate, abbandonando le proprie abitazioni per luoghi più sicuri. Vivono in simili condizioni decine di comunità sparse in tutta la Cisgiordania. Se Israele continuasse questa politica tutti gli abitanti potrebbero essere sfollati, permettendo a Israele di raggiungere il suo obiettivo e di impossessarsi della loro terra.

Lo sfondo

Decine di comunità di pastori palestinesi sono sparse in tutta la Cisgiordania. Poiché Israele classifica queste comunità come non riconosciute, non consente loro di collegarsi alle reti idriche ed elettriche o al sistema stradale. Israele considera inoltre illegalitutti gli edifici costruiti in queste comunità (case, edifici pubblici e strutture agricole) ed emette ordini di demolizione nei loro confronti, che in alcuni casi esegue. Alcuni edifici sono stati demoliti e ricostruiti più volte.

Negli ultimi anni i coloni hanno costruito con laiuto dello Stato decine di avamposti e piccole fattorie vicino a queste comunità e da allora la violenza contro i palestinesi che vivono nellarea è aumentata, con un’impennata particolare sotto lattuale governo. Durante questi attacchi violenti, diventati una terrificante routine quotidiana, i coloni mandano via i pastori e gli agricoltori palestinesi dai loro pascoli e campi, aggrediscono fisicamente gli abitanti delle comunità, entrano nelle loro case nel cuore della notte, danno fuoco a proprietà palestinesi, spaventano il bestiame, distruggono i raccolti, compiono dei furti e bloccano le strade. Gli abitanti palestinesi hanno anche riferito che i coloni hanno aperto le valvole dei serbatoi dell’acqua e hanno condotto le loro greggi a bere nei bacini idrici palestinesi.

In tali circostanze gli abitanti di queste comunità non hanno più potuto continuare a recarsi nei loro pascoli e campi agricoli. In alcuni luoghi, in assenza dei palestinesi, i coloni hanno iniziato a coltivare i loro campi sotto la protezione dei soldati. In altri luoghi i coloni hanno iniziato a far pascolare le greggi di loro proprietà in pascoli che fino a poco tempo fa erano stati utilizzati dai pastori palestinesi. Senza accesso ai pascoli, i palestinesi sono stati costretti ad acquistare a costi elevati foraggio e acqua per le loro greggi, il che ha causato perdite finanziarie significative, distruggendo di fatto i loro mezzi di sussistenza.

Lattuale governo gioca un ruolo significativo in questo stato di cose. Sebbene non abbia introdotto restrizioni riguardo alla costruzione e demolizione di case palestinesi e alluso della violenza da parte dei coloni per prendere il controllo della terra palestinese, conferisce piena legittimità alla violenza dei coloni contro i palestinesi incoraggiando e sostenendo pubblicamente i responsabili. Membri di questo governo sono stati in passato artefici di tali violenze. Ora sono loro le persone incaricate di programmare la politica. Stanziano i fondi che finanziano la violenza e sono responsabili dellapplicazione della legge sui coloni che attaccano i palestinesi.

Questo governo non si preoccupa nemmeno di esprimere quelle vuote condanne che un tempo si udivano dopo questi atti di violenza, elogiando al contrario i coloni violenti. Laddove i governi precedenti insistevano nel mantenere in piedi la farsa di un sistema giudiziario efficiente nell’indagare e perseguire gli israeliani che provocassero dei danni ai palestinesi, i membri di questo governo sono impegnati a cancellarne ogni traccia, con un ministro che chiede di cancellare Huwarah” [il ministro delle finanze Bezalel Smotrich a proposito del pogrom nella città palestinese nella Cisgiordania settentrionale, ndt.], membri dei partiti della coalizione che visitano in ospedale un israeliano sospettato di aver ucciso un palestinese e ministri che si rifiutano di condannare la violenza, il tutto tollerando e giustificando un pogrom dopo l’altro nelle comunità palestinesi.

Le prime a subire le conseguenze di questo cambiamento sono le comunità palestinesi più isolate e vulnerabili. Queste comunità vivono nelle condizioni più elementari, circondate da avamposti di insediamento coloniale i cui abitanti hanno carta bianca per far loro del male impunemente. Se i palestinesi di comunità più consolidate come Turmusaya e Um Safa non hanno ricevuto alcuna protezione mentre i soldati e gli agenti di polizia spalleggiavano i responsabili dei pogrom, che speranza hanno gli abitanti di sperdute comunità di pastori? Il timore per la loro stessa sopravvivenza, la consapevolezza che insieme ai propri figli essi siano stati abbandonati al loro destino, il tutto perdendo le fonti di reddito, li ha, comprensibilmente, privati della possibilità di continuare a vivere nelle loro comunità e li ha costretti ad andarsene.

Le comunità sfollate

Negli ultimi due anni almeno sei comunità della Cisgiordania sono state costrette a sfollare.

Quattro delle comunità vivevano a nord e nord-est di Ramallah. Alcuni dei loro componenti abitavano su terreni di proprietà di altri palestinesi che avevano accettato di lasciarli vivere lì dopo la loro cacciata da altri luoghi in Israele e in Cisgiordania. Negli ultimi anni, con laiuto dello Stato, attorno a queste comunità sono stati creati diversi avamposti coloniali residenziali e agricoli israeliani, il primo dei quali, Michas Farm, è stato fondato nel 2018. Come altrove in Cisgiordania, questi avamposti coloniali sono stati quasi immediatamente collegati alle reti idriche ed elettriche, nonché alla rete stradale. Hanno goduto dellimmunità dalle demolizioni e i loro abitanti lavorano in pieno concerto con i militari, che forniscono loro protezione. Alcuni di questi avamposti sono stati realizzati in aree dove, ufficialmente, non può essere costruita alcuna comunità, poiché Israele le ha dichiarate zone di tiro, ma hanno comunque ricevuto il sostegno dello Stato.

Le quattro comunità sfollate in quest’area sono:

  • Ras a-Tin: Il 7 luglio 2022, i circa 120 componenti di questa comunità, circa la metà dei quali minorenni, se ne sono andati via. La comunità venne fondata alla fine degli anni ’60 da palestinesi che Israele aveva sfollato dalle colline a sud di Hebron su terreni palestinesi di proprietà privata e registrati appartenenti ai residenti di Kafr Malik e al-Mughayir. Nel corso degli anni, lamministrazione civile ha emesso ordini di demolizione contro alcuni edifici degli abitanti e fino ad oggi Israele aveva demolito tre edifici non residenziali della comunità. L’Amministrazione Civile aveva emesso un ordine di demolizione anche per la scuola costruita dagli abitanti della comunità. Nel 2018 vicino alla comunità è stata costruita Michas Farm, un avamposto di insediamento coloniale, e in seguito alla sua fondazione gli abitanti della comunità hanno segnalato un aumento significativo di episodi di violenza, tra cui molestie, furti, atti di vandalismo e violenze verbali, che sono diventati una routine quotidiana.

  • Ein Samia: il 22 maggio 2023 gli ultimi abitanti rimasti della comunità di Ein Samia costituita da 28 famiglie per un totale di circa 200 componenti, hanno abbandonato le loro case. La comunità si stabilì in quel sito su terreni dati in affitto dagli abitanti della vicina Kafr Malik nel 1980, dopo essere stata costretta dagli israeliani a sfollare più volte da altre località. Nel corso degli anni l’amministrazione civile ha emesso ordini di demolizione contro alcuni edifici degli abitanti e fino ad oggi Israele ha demolito 21 case della comunità, che ospitavano 83 persone, tra cui 52 minori, oltre ad altri 28 edifici non residenziali. LAmministrazione Civile ha inoltre emesso un ordine di demolizione per la scuola della comunità, utilizzata da circa 40 bambini. Nell’ottobre 2022 il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha respinto una petizione presentata dagli abitanti del luogo perché ne venisse sospesa la demolizione. Gli abitanti se ne sono andati prima che l’ordine di demolizione fosse eseguito. Anche gli abitanti di Ein Samia hanno segnalato un aumento significativo della violenza dei coloni a partire dal 2018. Una settimana prima che la comunità se ne andasse, la polizia ha confiscato agli abitanti decine di pecore e capre con la falsa accusa che fossero state rubate ai coloni. Durante la notte i coloni sono entrati nella comunità, hanno attaccato gli abitanti e la scuola, hanno fatto volare un drone sopra di loro e hanno dato fuoco ai pascoli. Inoltre hanno lasciato libero il loro gregge nei campi agricoli della comunità e gli animali hanno consumato lintero raccolto.

  • al-Baqah: Il 10 luglio 2023 33 persone, tra cui 21 minori, sono state costrette a sfollare. Il 1 settembre 2023 è stata allontanata anche lultima famiglia rimasta, composta da 5 persone di cui un minore. La loro partenza è stata preceduta da attacchi quotidiani da parte di coloni che avevano costruito una fattoria a circa 50 metri dalle case della comunità, avevano installato pannelli solari, si erano collegati alle infrastrutture idriche che servono il vicino avamposto di Neve Erez e avevano preso il controllo della via di accesso della comunità alla strada principale. I coloni facevano anche pascolare il loro gregge, che contava tra 60 e 70 capi di pecore, nei pascoli della comunità e molestavano i pastori del luogo che portavano al pascolo le proprie greggi. Il 7 luglio 2023, intorno alle 6,30, una tenda della comunità, più isolata rispetto alle altre, è stata incendiata. La famiglia in quel momento era fuori, poiché sin dalla fondazione dell’avamposto trascorreva le notti altrove per paura di attacchi da parte dei coloni. La famiglia ha visto l’incendio da lontano e ha chiamato la polizia, ma non è intervenuto nessuno.

  • al-Qabun: La comunità, che ospitava 12 famiglie per un totale di 86 residenti, tra cui 26 minori, è stata costretta a sfollare all’inizio dell’agosto del 2023. La comunità viveva in quel luogo dal 1996, dopo che Israele, nei primi anni ’50, aveva costretto i suoi componenti a lasciare il deserto del Negev. Nel corso degli anni lamministrazione civile ha emesso ordini di demolizione contro alcuni edifici degli abitanti e fino ad oggi Israele ha demolito sei case che ospitavano 41 persone, tra cui 18 minori, e 12 edifici non residenziali. Nel febbraio di questanno i coloni hanno realizzato un avamposto vicino alla comunità, allinterno di unarea che Israele aveva dichiarato zona di tiro. Gli abitanti hanno riferito di essere stati perseguitati dai coloni, che giravano intorno alle loro case fino ad entrarvi, arrivavano a tarda notte a cavallo e in fuoristrada, li intimidivano, si impossessavano dei loro campi coltivati e gli impedivano di portare al pascolo il loro gregge.

Nelle colline a sud di Hebron almeno altre due comunità sono state costrette a sfollare con la forza. La prima era Khirbet Simri, una frazione di due famiglie appartenenti a due fratelli con un totale di 20 componenti, di cui otto minorenni. Nel 1998 in cima alla collina dove viveva la comunità venne fondato l’avamposto coloniale di Mitzpe Yaire e ne seguì un aumento delle violenze. I coloni importunavano i membri della comunità, li minacciavano, entravano nelle loro case e impedivano loro di far pascolare le greggi. Nel 2020 i coloni hanno portato una mandria di bovini, che hanno pascolato su un terreno utilizzato dagli abitanti della comunità. Nel luglio 2022 questi hanno deciso di andarsene.

La seconda comunità ad andare via è stata Widady a-Tahta, anch’essa composta da 20 abitanti, tra cui 12 minori. La comunità viveva nel sito da circa 50 anni. Circa due anni fa i coloni hanno realizzato un avamposto a circa 500 metri dalle case della comunità. Da allora, i coloni hanno ripetutamente bloccato laccesso dei componenti della comunità ai pascoli attorno alle loro case, anche utilizzando un drone per spaventare e disperdere il gregge. Inoltre coloni armati penetravano ripetutamente a tutte le ore nelle case degli abitanti, in alcuni casi con un cane, aggredendo i componenti della comunità, picchiandoli e minacciandoli con le armi. Inoltre, circa un anno fa l’Amministrazione Civile ha emesso ordini di demolizione di tutti gli edifici del piccolo borgo: tre strutture residenziali e un recinto per il bestiame. Il 27 giugno 2023 due coloni armati sono entrati nella comunità e hanno minacciato uno degli abitanti che stava portando al pascolo le sue pecore vicino a casa. È fuggito per chiedere aiuto ai familiari e i coloni hanno cercato di rubare le pecore, ma quando hanno visto gli abitanti avvicinarsi le hanno abbandonate e sono tornati all’avamposto. La famiglia ha contattato la polizia, ma questa si è rifiutata di aiutarli. Dopo questo incidente la famiglia è giunta alla decisione che il pericolo era troppo grande e hanno dovuto andarsene.

Parte di una politica di lunga data

Queste comunità non hanno preso la decisione di lasciare tutto senza un motivo. È il risultato diretto della politica di Israele, progettata per raggiungere questo esatto risultato: costringere i palestinesi a sfollare e ridurre il loro spazio vitale per trasferire la loro terra in mani ebraiche. La politica si basa su una serie di restrizioni, misure e pratiche abusive da parte dello Stato e dei suoi rappresentanti, con vari livelli di durezza e perseguite sia ufficialmente che ufficiosamente.

Il percorso ufficiale: restrizioni estreme ad edilizia e ampliamento

Israele di fatto vieta ai palestinesi edilizia e ampliamento nellArea C [sotto controllo civile e di sicurezza israeliano, ndt.], che comprende il 60% della Cisgiordania. Larea ospita 200.000-300.000 palestinesi, migliaia dei quali vivono in decine di comunità di pastori e agricoltori. Sebbene la maggior parte degli abitanti palestinesi della Cisgiordania viva nelle aree definite A e B dagli Accordi di Oslo, firmati circa 30 anni fa sotto forma di intesa ad interim quinquennale, tutti i palestinesi sono colpiti dal divieto di costruire. Il motivo è che quando furono firmati gli Accordi di Oslo le Aree B[sotto controllo civile palestinese e di sicurezza israeliano, ndt.] e A [sotto totale controllo palestinese, ndt.] erano già in gran parte popolate, mentre le aree con un potenziale di sviluppo urbano, agricolo ed economico rimanevano per lo più nellArea C, e da allora la popolazione palestinese è quasi raddoppiata.

Per impedire l’edilizia palestinese nellArea C Israele ne ha stabilito il divieto per circa il 60%, assegnando diverse definizioni legali ad aree vaste (e talvolta sovrapposte): il terreno statalecomprende circa il 35% dellArea C, i campi di addestramento militare (zone di tiro) comprendono circa il 30%, le riserve naturali e i parchi nazionali coprono un altro 14% e le giurisdizioni degli insediamenti coloniali comprendono un altro 16% della stessa area. Israele sta conducendo una guerra incessante contro i palestinesi che vivono in queste aree, allontanandoli ripetutamente dalla loro terra con falsi pretesti, come l’addestramento militare, demolendo le loro case e confiscando le loro proprietà.

Nel restante 40% dellArea C Israele, che ha il controllo pieno ed esclusivo sull’edificazione e pianificazione in Cisgiordania, impone restrizioni estreme a edificazioni e ampliamenti. LAmministrazione Civile si rifiuta di preparare piani regolatori per la stragrande maggioranza delle comunità palestinesi in questarea. I pochi piani regolatori approvati dall’Amministrazione Civile, che rappresentano meno dell’1% dell’Area C e in aree in gran parte già edificate, non soddisfano i criteri di pianificazione accettati oggi nel mondo.

Le probabilità che un palestinese riceva un permesso di costruzione, anche su un terreno di proprietà privata, sono minime. Secondo i dati forniti dallAmministrazione Civile a da Peace Now [movimento progressista pacifista non-governativo israeliano, ndt.] nel decennio tra il 2009 e il 2018 sono stati approvati solo 98 permessi per costruzioni residenziali, industriali, agricole e infrastrutturali su 4.422 domande di autorizzazione presentate (2%). Secondo i dati forniti alla ONG israeliana Bimkom, su 2.550 domande presentate tra il 2016 e il 2020 ne sono state approvate 24 (meno dell1%). Il numero di domande di permesso presentate non riflette necessariamente le esigenze edilizie dei palestinesi, dal momento che la maggior parte dei palestinesi non si prende più la briga di presentare domande di permesso di costruzione, sapendo che verranno comunque respinte.

La mancanza di piani regolatori impedisce non solo ledilizia residenziale ma anche la costruzione per scopi pubblici, come scuole e strutture mediche, nonché le infrastrutture, compresi i collegamenti alla rete stradale e alle reti idriche ed elettriche. A causa del cambiamento climatico le restrizioni sulle infrastrutture rendono di anno in anno la vita più difficile per gli abitanti palestinesi. Non solo Israele nega agli abitanti il collegamento alle infrastrutture ma impedisce loro anche di prendersi cura dei propri bisogni in modo indipendente, vietando lo scavo di cisterne per lacqua e linstallazione di impianti solari e confiscando regolarmente i serbatoi dellacqua. Senza collegamenti allacqua corrente il consumo di acqua in queste comunità è di 26 litri al giorno per persona, equivalente al consumo di acqua nelle zone disastrate e circa un quarto dei 100 litri al giorno per persona raccomandati dallOrganizzazione Mondiale della Sanità.

Date queste condizioni i palestinesi sono costretti a promuovere l’ampliamento delle loro comunità e a costruire le loro case senza permessi. Lo fanno non perché siano criminali ma perché non hanno la possibilità di costruire legalmente. L’Amministrazione Civile emette ordini di demolizione contro questi edifici, talvolta con successiva messa in atto. Secondo i dati di BTselem, tra il 2006 e il 31 luglio 2023 Israele ha demolito in Cisgiordania 2.123 case. A causa di queste demolizioni 8.580 persone, tra cui 4.324 minori, hanno perso la casa. Durante questo periodo Israele ha demolito anche 3.387 edifici non residenziali.

Pertanto, utilizzando uno sterile vocabolario giuridico e di pianificazione urbana e agganciandosi a ordini militari e leggi sulla pianificazione e sull’edilizia, Israele riesce a cacciare i palestinesi dalle vaste aree che sono oggetto delle sue mire e a confinarli in aree più piccole dove tiene in sospeso le loro vite e applica politiche volte a negare loro qualsiasi sviluppo. I palestinesi sono costretti a vivere in una costante incertezza riguardo al loro futuro e nella paura senza fine che si presenti il personale dellamministrazione civile per consegnare ordini di demolizione o per demolire ciò che hanno già costruito. Vivono in uno stato di costante deprivazione, in condizioni che non possono essere paragonate a quelle degli insediamenti coloniali costruiti vicino alle loro comunità e spesso sulle loro terre.

Il percorso non ufficiale: la violenza dei coloni

Laccaparramento di terre da parte di Israele viene perseguito anche attraverso atti quotidiani di violenza compiuti da bande di coloni che operano senza timore di conseguenze, armate, sostenute, incoraggiate e finanziate dallo Stato, direttamente o indirettamente. Questi atti di violenza fanno parte di unampia strategia progettata per costringere i palestinesi dallArea C a sfollare.

Negli ultimi anni sono state create in tutta la Cisgiordania circa 70 fattorie agricole. Avviare unazienda agricola richiede molte meno risorse rispetto alla costruzione di un insediamento coloniale e attraverso il pascolo di pecore e bovini queste aziende agricole consentono una facile acquisizione di vaste aree che si estendono su migliaia di dunam, che di solito contengono pascoli, risorse idriche e terre coltivate dai palestinesi. I coloni che vivono in queste fattorie terrorizzano i palestinesi che abitano vicino a loro.

Le tattiche principali utilizzate dai coloni comprendono l’occupazione dei pascoli facendovi pascolare pecore e bovini, la corsa di quad contro greggi palestinesi e il sorvolo di droni per spaventare e disperdere gli animali, l’uso della violenza fisica contro gli abitanti palestinesi delle comunità, nei pascoli, nei campi coltivati e allinterno delle loro case, e il danneggiamento delle fonti dacqua.

Usando queste tattiche i coloni sono riusciti ad allontanare pastori e agricoltori palestinesi dai campi, dai pascoli e dalle fonti dacqua su cui hanno fatto affidamento per generazioni e a prenderne il controllo. Una ricerca condotta da B’Tselem circa due anni fa ha rilevato che cinque piccole fattorie di coloni, con solo poche decine di abitanti, di solito una famiglia o due e alcuni giovani, hanno preso il controllo di un’area che si estende per un totale di oltre 28.000 dunam (1 dunam = 1.000 metri quadrati) di terreni agricoli e pascoli utilizzati dalle comunità palestinesi per generazioni.

I militari, che sono ben consapevoli di queste azioni, evitano di affrontare i coloni violenti per una questione politica mentre invece a volte partecipano essi stessi a questi atti o proteggono i coloni a distanza. Linerzia di Israele continua dopo che si sono verificati gli attacchi dei coloni contro i palestinesi, dato che le autorità preposte allapplicazione della legge fanno tutto il possibile per evitare che qualcuno risponda a questi incidenti. Le denunce sono difficili da presentare e nei pochissimi casi in cui vengono effettivamente aperte le indagini il sistema le insabbia rapidamente. Non vengono quasi mai presentate accuse contro i coloni che danneggiano i palestinesi, e quelle che vengono stilate di solito citano reati minori, con sanzioni simboliche comminate nel raro caso di una condanna.

Non è una novità. La violenza commessa dai coloni contro i palestinesi è stata registrata fin dai primi giorni delloccupazione in innumerevoli documenti e dossier governativi; migliaia di testimonianze di palestinesi e soldati; libri; rapporti di organizzazioni palestinesi, israeliane e internazionali per i diritti umani e migliaia di storie dei media. Questa documentazione ampia e coerente non ha avuto praticamente alcun effetto sulla violenza dei coloni contro i palestinesi, che da tempo è diventata parte integrante della vita sotto loccupazione in Cisgiordania.

Questa politica ha lasciato i palestinesi senza alcuna protezione, negando loro persino il diritto di difendersi dalle persone che invadono le loro case. Quando i palestinesi cercano di respingere lattacco dei coloni, anche lanciando pietre, i soldati che fino a quel momento erano rimasti a guardare o avevano partecipato allattacco sparano contro di loro lacrimogeni, granate stordenti, proiettili di metallo rivestiti di gomma e persino proiettili veri. In alcuni casi i palestinesi vengono anche arrestati e alcuni vengono incriminati.

Lo Stato legittima non solo la violenza contro i palestinesi ma anche le conseguenze di questi atti, consentendo ai coloni di rimanere sulla terra che hanno sottratto con la forza ai palestinesi. Lesercito proibisce ai palestinesi di entrare in quelle aree e lo Stato sostiene pienamente gli insediamenti coloniali realizzati su di esse. Decine di avamposti, anche agricoli, costruiti senza permesso ufficiale vengono lasciati in piedi, mentre Israele fornisce sostegno attraverso i ministeri, la Divisione per gli Insediamenti dellOrganizzazione Sionista Mondiale e i consigli regionali in Cisgiordania. Inoltre lo Stato sovvenziona gli sforzi finanziari negli avamposti coloniali, comprese le strutture agricole, fornisce sostegno ai nuovi agricoltori e alla pastorizia, assegna lacqua e difende sul piano giuridico gli avamposti coloniali nel caso di petizioni a favore della loro rimozione.

Così è iniziato il trasferimento forzato, ed è così che Israele continua ad impegnarsi per rendere miserabile la vita di chi abita nelle comunità situate nelle aree ambite, fino al punto che non possono più restarvi e le abbandonano, lasciando le loro case e la loro terra allo Stato. Questa politica viene attuata utilizzando due binari paralleli. Da un lato, sotto l’egida delle ordinanze militari, dei consulenti legali e della Corte Suprema lo Stato sfratta i palestinesi dalle loro terre. Sull’altro binario i coloni usano la violenza contro i palestinesi, aiutati e incoraggiati e talvolta con la collaborazione delle forze statali. Questa politica ha portato al trasferimento forzato di almeno sei comunità, ma molte altre in tutta la Cisgiordania sperimentano la stessa brutalità e sono sotto minaccia immediata di espulsione.

Questa è una politica illegale che implica per Israele il crimine di guerra del trasferimento forzato. Il diritto internazionale, che Israele è obbligato e si è impegnato a rispettare, vieta il trasferimento forzato degli abitanti di un territorio occupato, indipendentemente dalle circostanze. Il fatto che questo caso particolare non comporti che i soldati arrivino nelle case degli abitanti e li costringano fisicamente ad andarsene è irrilevante. Creare un ambiente coercitivo che non lasci agli abitanti altra scelta è sufficiente per ritenere Israele responsabile di questo crimine.

Queste comunità non vengono costrette a sfollare a causa di disastri naturali o altre circostanze inevitabili. È una scelta che il regime dell’apartheid sta facendo per realizzare il suo obiettivo di Cin tutta l’area compresa tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questo regime considera la terra come una risorsa destinata esclusivamente al popolo ebraico, e quindi la terra viene utilizzata quasi esclusivamente per lo sviluppo e l’espansione delle colonie ebraiche esistenti e per la creazione di nuove.

Pertanto opporsi ai trasferimenti in corso è un dovere e, ovviamente, non vi è alcun obbligo di continuare a collaborare all’attuazione delle politiche che li guidano. Segmenti crescenti dellopinione pubblica israeliana hanno recentemente dichiarato il loro rifiuto di prestare servizio nellesercito in un Paese non democratico. Non c’è niente di più degno del rifiuto ad essere partecipi nell’esecuzione di un crimine di guerra e nellattuazione di una politica di trasferimenti.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




In attacchi separati alcuni coloni hanno aggredito attivisti palestinesi e israeliani di sinistra in Cisgiordania

Hagar Shezaf

11 settembre 2023 – Haaretz

Nel primo incidente i coloni hanno colpito un pastore palestinese con una mazza, rompendogli una mano. Nel secondo i coloni hanno aggredito attivisti di sinistra arrestati dalla polizia. “È stato il peggio incidente in cui sia mai stato coinvolto,” afferma uno degli attivisti.

Sabato in Cisgiordania coloni israeliani hanno aggredito e ferito un palestinese e attivisti di sinistra in due incidenti separati

La prima aggressione è avvenuta nel nord della Valle del Giordano, dove coloni mascherati si sono avvicinati e hanno colpito con una mazza un pastore palestinese, rompendogli una mano.

Il secondo incidente si è svolto sulle Colline Meridionali di Hebron, nei pressi della colonia di Otniel, dove i coloni hanno attaccato militanti di sinistra mentre venivano arrestati dalla polizia. Secondo gli attivisti i coloni hanno colpito anche il poliziotto che si trovava sul luogo.

Due coloni sono stati arrestati in quanto sospettati di essere coinvolti nel secondo incidente, ma sono stati rilasciati dopo essere stati interrogati.

Nella Valle del Giordano, Ahmad e suo figlio sono usciti dalla loro casa nei pressi di Ein al-Sakut nel pomeriggio per portare le loro pecore a pascolare con tre militanti di sinistra che li accompagnavano per proteggerli.

Mentre stavano camminando hanno visto un gruppo di circa 10 uomini mascherati diretto verso di loro dalla colonia di Shadmot Mehola. Ahmad “ha visto un gruppo comparso improvvisamente, come in un film dell’orrore, con magliette bianche, tzitzit (frange rituali ebraiche tradizionalmente portate dagli uomini) e con in mano delle mazze,” dice Gali Hendin, una degli attivisti che facevano da scorta e testimone oculare dell’incidente.

Mentre gli attivisti cercavano di contattare l’esercito e la polizia, “Ahmad è corso avanti, perché stavano cercato di prendere alcune delle sue pecore. È stato colpito con una sbarra di ferro, e poi siamo corsi avanti e li abbiamo fronteggiati.” Ahmad racconta ad Haaretz che uno degli uomini lo ha colpito con una mazza. “In passato ci avevano spaventati, ma non era mai successo niente del genere,” aggiunge Hendin.

Gli attivisti hanno registrato lo scontro con gli uomini mascherati. Nella registrazione uno degli uomini dice: “Questa è casa mia. Andatevene dalla mia casa. Via. Io l’ho comprata.”

Ahmad è stato portato all’ospedale nella città palestinese di Tubas, dove gli è stata diagnosticata una frattura alla mano. Due degli attivisti hanno detto che un’ambulanza israeliana è arrivata sul posto e lo ha portato via, ma, poiché è palestinese e di conseguenza non gli è consentito entrare nella colonia, dichiarata area militare chiusa, l’ambulanza ha dovuto viaggiare su strade sterrate sconnesse per portarlo all’ospedale.

Hanno aggiunto che anche il responsabile della sicurezza della colonia ha assistito all’incidente, ma non ha fatto niente.

C’è una guardia che li lascia andare e venire,” dice Ahmad, commentando altri incidenti. “Ora sono a casa. All’ospedale mi hanno detto che non posso uscire al pascolo per 40 giorni, e i miei figli non possono andare a scuola perché sono io che li accompagno.”

Questo è stato il peggior incidente da sempre in cui siamo stati coinvolti,” afferma Herdin. “Ciò che mi dà più fastidio è come il loro contesto lo accetta. Ci sono persone di Shadmot Mehola che dicono che forse era successo qualcosa prima. È arrivata una soldatessa e ha detto lo stesso. Quella che è inquietante è la normalizzazione della situazione.”

La polizia ha affermato che “appena ricevuta l’informazione sull’incidente agenti e forze militari sono arrivati sul posto ed è stata aperta un’inchiesta, che è ancora in corso.”

Nel secondo incidente, nelle Colline Meridionali di Hebron, un militante che ha chiesto di rimanere anonimo ha affermato di essere arrivato sul posto, nei pressi di Otniel, insieme ad altri attivisti e a palestinesi dopo aver ricevuto l’informazione che coloni avevano piazzato tende su terra palestinese proprietà di un privato.

Poi si sono presentati dei soldati che hanno mostrato agli attivisti un ordine in cui si dichiarava la terra zona militare chiusa, e hanno sparato granate stordenti e lacrimogeni, che hanno appiccato un incendio. Ma secondo gli attivisti i soldati non hanno cacciato i coloni che si trovavano sul posto. Hanno invece arrestato due militanti e li hanno consegnati a un poliziotto arrivato dopo.

L’agente “ci ha detto di andare con lui alla sua macchina per portarci alla stazione di polizia,” afferma l’attivista. “Lungo il percorso, mentre stavamo camminando con lui, sono arrivati quattro o cinque coloni e chissà perché hanno iniziato a martellarci di colpi micidiali. Tutto ciò è avvenuto dopo che eravamo stati arrestati, ci trovavamo sotto la protezione della polizia e l’agente era a circa mezzo metro da noi.” E continua: “Il poliziotto ha afferrato il giovane che guidava l’aggressione,” aggiungendo che il colono ha colpito anche l’agente. L’attivista ha subito una ferita alla testa.

Successivamente i militanti arrestati sono stati portati alla stazione di polizia e interrogati in quanto sospettati di aver violato l’ordine che dichiarava il luogo zona militare chiusa. Uno è stato rilasciato a condizione che si tenga lontano dalla zona, mentre il ferito è stato rilasciato senza condizioni e portato allo Shaare Zedek Medical Center di Gerusalemme, dove è stato visitato e poi dimesso.

La polizia afferma che durante l’incidente quattro israeliani, due coloni e due militanti di sinistra, sono stati arrestati. Secondo il comunicato tutti e quattro sono stati rilasciati dopo essere stati interrogati.

Il portavoce dell’Israeli Defence Forces [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndt.] afferma che “vari israeliani e palestinesi si sono scontrati con alcuni abitanti dell’insediamento di Otniel, sottoposto alla giurisdizione della brigata della Giudea. I militari delle IDF che sono arrivati sul posto hanno chiesto ai presenti di andarsene, e quando questi non hanno acconsentito è stato usato equipaggiamento per il controllo dell’ordine pubblico. A causa di ciò sul luogo è scoppiato un incendio, ma è stato spento subito dopo.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Giovani contro la dittatura”: ecco la nuova categoria di obiettori di coscienza israeliani

Oren Ziv

5 settembre 2023, +972

Otto nuovi renitenti alla leva parlano dell’occupazione, delle proteste contro la riforma giudiziaria e dell’obiezione di coscienza come strumento di protesta.

Domenica pomeriggio centinaia di israeliani si sono riuniti davanti al liceo Herzliya Hebrew Gymnasium nel centro di Tel Aviv per pubblicizzare la nuova lettera dei giovani obiettori di coscienza sotto lo striscione “Giovani contro la dittatura”. Nonostante le pressioni dell’estrema destra e del Ministero dell’Istruzione, e nonostante la decisione del consiglio del liceo di annullare l’evento, centinaia di persone sono accorse per ascoltare la lettura della lettera, partecipare a seminari e sostenere i 230 giovani che hanno firmato la lettera e che intendono rifiutare l’arruolamento nell’esercito israeliano.

A differenza delle precedenti cosiddette “lettere refusenik” (della dissidenza), l’attuale lettera collega l’opposizione alla riforma giudiziaria del governo con l’obiezione di coscienza legata all’occupazione. Alcuni firmatari con cui +972 ha parlato hanno affermato di aver deciso di rifiutarsi di servire nell’esercito per protestare contro l’occupazione ancor prima che si formasse l’attuale governo.

Altri hanno deciso di farlo negli ultimi mesi, dicendo che è stato questo governo, il più estremista della storia israeliana, a far pendere l’ago della bilancia e spingerli al rifiuto. Alcuni di loro hanno spiegato che è stata la presenza del “blocco anti-occupazione” alle manifestazioni settimanali contro la riforma giudiziaria che li ha spinti a prendere la decisione, e che nel clima dell’opinione pubblica di oggi l’obiezione di coscienza è più accettata che in passato, soprattutto dopo il rifiuto di massa da parte dei riservisti dell’esercito seguìto alla riforma.

Nella dichiarazione si legge: “Come giovani donne e uomini che stanno per essere arruolati nel servizio militare israeliano diciamo NO alla dittatura in Israele e nei Territori palestinesi occupati. Con la presente dichiariamo che ci rifiutiamo di arruolarci nell’esercito finché la democrazia non sarà assicurata a tutti coloro che vivono all’interno della giurisdizione del governo israeliano.”

Nonostante sei mesi di lotta ostinata per una vera democrazia condotta nelle strade quasi ogni giorno, il governo continua a perseguire il suo rovinoso programma. Temiamo davvero per il nostro futuro e per il futuro di tutti coloro che vivono qui. Alla luce di ciò non abbiamo altra scelta che adottare misure estreme e rifiutarci di prestare servizio nell’esercito. Un governo che distrugge la magistratura non è un governo per cui possiamo prestare servizio. Un esercito che occupa militarmente un altro popolo non è un esercito al quale possiamo unirci”.

Abbiamo intervistato otto adolescenti che hanno firmato la lettera e parlato della loro decisione di rifiutarsi di servire nell’esercito.

Nuri Magen, 17 anni

Nuri Magen. (Oren Ziv)

Anche dopo che il governo aveva iniziato ad approvare la legge sul principio di ragionevolezza [per cui le disposizioni di legge devono essere adeguate al fine limitando le scelte arbitrarie, ndt.] pensavo che mi sarei arruolato. Prima di allora ero contrario all’occupazione, ma pensavo che avrei prestato servizio in una posizione in cui non sarei stato direttamente coinvolto. Pensavo di prestare servizio in Marina e in un certo senso potevo giustificarlo. Questo prima che iniziassero ad approvare le leggi.

Soprattutto mi spaventavano gli orrori che avrebbero potuto accadere in uno, due anni, mentre sarei stato bloccato [nell’esercito]. Non voglio sentirmi parte di questa cosa. Man mano che la situazione si fa più grave, anche le persone senza opinioni politiche o coloro che sono su posizioni di centro si stanno aprendo a opinioni che fino a poco tempo fa erano considerate “estreme”. Due anni fa gli obiettori di coscienza erano una piccolissima minoranza. Ora abbiamo occupato la scuola e organizzato un evento con centinaia di persone e i media; non era mai successo.

Sofia Orr, 18 anni

Sofia Orr. (Oren Ziv)

Ho firmato la lettera perché mi oppongo alla dittatura e voglio lottare per una vera democrazia per tutti, sia in Israele che nei territori occupati. Per me è stato importante firmare questa lettera perché stabilisce questo collegamento, che per me è evidente, che la riforma e l’occupazione non possono essere separate.

Penso che questo evento e il numero dei firmatari dimostrino come queste opinioni stiano lentamente iniziando a diventare opinione pubblica, o almeno che la pubblica opinione è pronta ad ascoltarle e ad essere coivolta. Questa è davvero una benedizione. Mostra il cambiamento che sta ora accadendo. Dobbiamo andare avanti e non lasciare che ci zittiscano. Cercare di metterci a tacere fa parte di quella politica dittatoriale a cui ci opponiamo.

Itay Gavish, 17 anni

Itay Gavish. (Oren Ziv)

Durante le proteste mi sono imbattuto nel blocco anti-occupazione, e lì ho capito che non volevo prendere parte all’occupazione e che mi sarei rifiutato di arruolarmi nell’esercito. Ho firmato la lettera per dimostrare che io e centinaia di altri giovani non avremmo prestato servizio nell’esercito di occupazione. In queste manifestazioni ho sentito che era legittimo uscire allo scoperto per protestare.

Penso di aver avuto paura di essere troppo radicale, e il blocco anti-occupazione era un luogo dove potevi andare a manifestare con gli altri sionisti e poi fare qualcosa di più. La lotta contro la riforma giudiziaria è fatta anche da persone che non hanno per forza a che fare con l’occupazione e non si preoccupano necessariamente del fatto che il rifiuto alla leva sia un importante strumento di protesta.

Lily Hochfeld, 17 anni

Lily Hochfeld. (Oren Ziv)

Mi sono chiesta quale fosse il mio limite, se fossi disposta a prestare servizio in qualsiasi esercito di qualsiasi paese. Ho deciso che ci sono eserciti in cui voglio credere che non mi sarei arruolata. Per me dare pieno sostegno alla violenza dei coloni, a decenni di governo militare e alla riforma giudiziaria che dà tutto il potere a politici corrotti e clericali supera totalmente il mio limite. Non posso più arruolarmi in un tale esercito senza temere per il mio futuro e per quello del mio Paese.

Le proteste hanno aperto il vaso di Pandora. All’improvviso, una mattina ci siamo svegliati e al governo sedevano persone che un tempo erano fuori dalla legalità anche per la destra, come [Itamar] Ben Gvir, che continua sulle orme di [Meir] Kahane [rabbino ortodosso, scrittore e politico ultranazionalista già parlamentare poi condannato per atti di terrorismo, ndt.] Il nuovo governo ha reso tutto chiaro: abbiamo capito le loro vere intenzioni.

Tal Mitnick, 17 anni

Tal Mitnick. (Oren Ziv)

Io e altri giovani ci siamo resi conto che la dittatura che esiste in Israele e la dittatura che esiste da decenni nei territori occupati sono inseparabili. Il maggior obiettivo dei politici e dei coloni è quello di intensificare l’occupazione e l’oppressione di più popolazioni all’interno di Israele e nei territori occupati, e di annettere l’Area C della Cisgiordania [che è sotto il pieno controllo militare israeliano].

Per molti di noi queste manifestazioni sono state una rivelazione. Non ero politicamente attivo prima delle proteste. Mi hanno fatto capire cosa significa manifestare come coscritti con centinaia di altri prima di essere arruolati e dichiarare “non faremo il servizio militare”.

Ella Greenberg Keidar, 16 anni

Ella Greenberg Keidar. (Oren Ziv)

Siamo stati intervistati dai media prima dell’evento di oggi. In quasi tutte le interviste, gli intervistatori hanno cercato di cogliere l’attimo [e chiederci]: “Sei contro l’occupazione o sei contro la riforma?” Perché, dicono, opporsi all’occupazione è irrilevante: è una notizia vecchia. Ciò che ci interessa sono coloro che rifiutano la riforma giudiziaria. Cosa c’entra l’occupazione? Questo è il tipo di discorso che fanno i manifestanti che vengono al blocco anti-occupazione con le bandiere israeliane.

L’opposizione all’occupazione è incompleta senza l’opposizione alla riforma giudiziaria e viceversa. Le persone che promuovono la riforma – Simcha Rothman, Itamar Ben Gvir, Bezalel Smotrich, sono coloni. La loro agenda è quella dei coloni, che prevede l’espansione dell’occupazione, la pulizia etnica e le espulsioni. La riforma ha lo scopo di ripulire l’Area C dai palestinesi, legalizzare nuovi avamposti e garantire ancora più privilegi, sanciti per legge, agli insediamenti e ai coloni. Voglio dire ai media e al pubblico di Kaplan [arteria principale nel centro di Tel Aviv dove si sono svolte le manifestazioni, ndt.] che queste cose sono correlate.

Ayelet Kovo, 17 anni

Ayelet Kovo. (Oren Ziv)

Ho firmato la lettera perché non sono pronto a far parte del braccio violento dello Stato, utilizzato per opprimere le persone. Non sono pronto per essere una persona che opprime i palestinesi nei territori occupati, né per essere quello che opprime il popolo ebraico e palestinese nelle manifestazioni in Israele. So che qui non c’è mai stata democrazia o parità di diritti, e non sono pronto ad arruolarmi per un paese che è fondamentalmente discriminatorio.

Iddo Elam, 17 anni

Iddo Elam. (Oren Ziv)

Ho firmato la lettera perché non accetterò di arruolarmi in questo esercito. È un esercito che occupa la Cisgiordania e milioni di palestinesi, l’esercito di un governo di estrema destra che cerca di portare la dittatura dai territori occupati in Israele. Lo vediamo bene in queste ultime settimane, con le minacce alla nostra manifestazione al liceo e con le violenze della polizia contro i manifestanti.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele: il movimento dei coloni si sente più forte e assapora la possibilità di “ebraicizzare” la Galilea

Ben Lynfield – Ramat Arbel, Israele

21 agosto 2023 – Middle East Eye

Oltre alle colonie illegali nella Cisgiordania occupata gli attivisti di estrema destra vogliono formare maggioranze ebraiche in aree con grandi comunità di palestinesi provvisti di cittadinanza israeliana

Lestrema destra religiosa israeliana, galvanizzata dal governo più a destra della storia, sta portando avanti la sua campagna per ebraicizzare” aree con consistenti comunità palestinesi.

Mentre lattenzione internazionale è focalizzata principalmente sullespansione degli insediamenti coloniali nella Cisgiordania occupata, le aree con una vasta popolazione araba allinterno dei confini israeliani precedenti al 1967 [confini stabiliti con l’armistizio del 1949 e oltrepassati da Israele in seguito alla guerra dei sei giorni del 1967, ndt.] stanno diventando sempre più il fulcro di unoffensiva demografica.

Fa parte di queste aree la regione settentrionale della Galilea, che ospita un gran numero di palestinesi con cittadinanza israeliana presi di mira da attivisti aderenti alla stessa ideologia che cerca di espandere il processo di colonizzazione nella Cisgiordania occupata.

Gi insediamenti coloniali in Galilea, Giudea, Samaria e nel Negev sono tutti eccellenti”, ha detto a Middle East Eye lattivista di destra Orit Spitz. Hanno tutti lo stesso valore, fanno tutti parte della Terra dIsraele”.

Il termine Giudea e Samaria” è spesso usato dagli israeliani per descrivere la Cisgiordania occupata.

Seguendo lesempio dei coloni ebrei in Cisgiordania, più di un anno fa Spitz ha contribuito a creare un avamposto coloniale illegale vicino alla città araba di Eilabun, in Galilea.

In Cisgiordania tali avamposti sono legalizzati retroattivamente, soprattutto sotto lattuale governo, in cui il leader di estrema destra del partito Sionismo Religioso, Bezalel Smotrich, detiene un ampio potere. Sembra che ora stia cominciando ad accadere lo stesso in Galilea.

Il mese scorso il governo di Netanyahu ha deciso che Ramat Arbel, l’avamposto coloniale la cui realizzazione ha visto l’impegno di Spitz, diventerà una città.

Agli occhi del movimento dei coloni la città servirà come punto di partenza di una missione nazionale volta ad alterare l’attuale equilibrio tra ebrei e arabi all’interno della popolazione della Galilea e raggiungere nell’area una netta predominanza ebraica.

Dobbiamo riempire la Galilea [di coloni] perché attualmente è a maggioranza araba”, spiega Spitz.

Condivisione di interessi e ambizioni

Lidea di incrementare la presenza ebraica in Galilea non è nuova. Ma oggi è supportata da un governo israeliano più ricettivo alle richieste dellestrema destra che in qualsiasi altro momento della storia dello Stato.

La deferenza di Netanyahu verso l’estrema destra deriva da una condivisione di interessi e valutazioni. Egli ha bisogno del sostegno dellestrema destra per mantenere intatta la sua coalizione, mentre lestrema destra condivide il suo obiettivo politico centrale di rimuovere la facoltà della Corte suprema israeliana di controllare il potere della coalizione.

Con la neutralizzazione della Corte lestrema destra avrebbe una libertà ancora maggiore nell’espropriare i palestinesi in Cisgiordania e degradare lo status dei cittadini palestinesi allinterno di Israele.

Considerando il passato di destra radicale di Netanyahu e il fatto che abbia conferito legittimità allestrema destra prima e dopo le elezioni dello scorso anno i critici ritengono che sarebbe un errore pensare che abbia dei dubbi riguardo a questi obiettivi.

Tra le figure chiave del governo ci sono il leader di Potere Ebraico e ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir, che ha fatto una campagna con la promessa di espellere gli “sleali” cittadini arabi e ebraici di sinistra, e il leader di Sionismo Religioso e ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che ha invitato a cancellare” un villaggio della Cisgiordania, Huwwara, e ha minacciato di tagliare i finanziamenti alle località arabe.

È chiaro che questo governo sta intensificando gli atteggiamenti razzisti discriminatori che favoriscono la comunità ebraica”, afferma Yousef Jabareen, ex membro della Knesset [parlamento israeliano, ndt.].

Quest’ultimo usa il termine apartheid strisciante” per descrivere misure governative tra cui lapprovazione di un disegno di legge che aumenta il numero di comunità ebraiche che possono escludere di fatto i cittadini arabi dalla residenza.

Il 1° agosto Ben-Gvir e altri “guru” dell’estrema destra, tra cui il deputato Aryeh Kellner del partito Likud di Netanyahu, hanno preso parte ad una celebrazione della decisione del governo di promuovere [la fondazione di] Ramat Arbel. Uno Spitz sorridente osservava i politici di sesso maschile ballare con i giovani coloni religiosi.

Un altoparlante annunciava che Ramat Arbel sarebbe diventata una grande città”. Ma non tutti gli ebrei che vivono nelle vicinanze sono entusiasti di questa prospettiva, soprattutto perché persone come Ben-Gvir sono considerati da molti come acerrimi nemici per aver sostenuto il tentativo di Netanyahu di accrescere i suoi poteri, come evidenziato da politiche come la riforma giudiziaria.

Spitz e i politici hanno affermato che Ramat Arbel è solo il primo seme di quella che il governo chiama la “ebraicizzazione della Campagna della Galilea”. I cittadini palestinesi affermano che liniziativa è unulteriore manifestazione del suprematismo e razzismo ebraico.

Secondo Spitz e Moshe Solomon, membro della Knesset per il partito Sionismo Religioso, è prevista la costruzione di una serie di nuove comunità ebraiche. Ciò mentre i cittadini palestinesi si trovano ad affrontare la scarsa disponibilità di terra, i tagli al bilancio e la mancanza di piani regolatori, fattori che hanno come conseguenza la demolizione delle case.

Nel sud il governo rifiuta di riconoscere i villaggi beduini e allinizio di questa settimana nel villaggio di Ras Jrabah centinaia di beduini hanno ricevuto lavviso che avrebbero dovuto lasciare le loro case per far posto alla costruzione di un quartiere a maggioranza ebraica nella città di Dimona [città israeliana adiacente a Ras Jrabah, ndt.]

Qui la maggioranza non è ebraica’

A Ramat Arbel, mentre i politici ballavano, più di un migliaio di manifestanti antigovernativi provenienti dalle zone ebraiche vicine hanno manifestato contro la presenza di politici di estrema destra. Sventolando bandiere israeliane gridavano Vergogna”, suonando corni e tamburi per sovrastare i canti festosi.

Ma dal frastuono affiorava, a mo’ di incitamento, una delle canzoni preferite dei coloni della Cisgiordania: Ti espanderai verso il mare, lest, il nord e il sud”. Daniella Weiss, un’influente leader dei coloni della Cisgiordania, scattava delle foto.

Questi sono momenti esaltanti per i membri della destra religiosa come Weiss. Recentemente lesercito ha permesso al suo gruppo Nachala di rioccupare un insediamento coloniale vicino alla città di Nablus, in Cisgiordania, su quella che secondo le organizzazioni per i diritti umani è una proprietà privata palestinese rubata.

I danzatori sorreggevano un cartello con l’emblema di Nachala, una mappa che comprende tutto il territorio che va dalla penisola egiziana del Sinai, Israele, i territori occupati, alla Giordania, la Siria e l’Iraq.

Solomon si è preso una pausa dalle danze per rispondere alle domande su dove sta andando la Galilea sotto il governo di estrema destra.

La ebraicizzazione della Galilea è un valore supremo. C’è un consenso nella società israeliana sulla colonizzazione, e sulla ebraicizzazione della Galilea. È un’area molto significativa. Siamo stati qui fin dai tempi della Bibbia ma con nostro rammarico qui la maggioranza non è ebrea”, ha detto Solomon allorgano di informazione australiano Plus61J Media.

Riferendosi ai cittadini palestinesi di Israele, dice: la loro presenza non è un problema ma vogliamo stabilirci qui, fondare colonie e portare le famiglie in questo bellissimo posto affinché ci siano abbastanza ebrei che possano vivere in pace.

Chiunque viva qui e non è ebreo va perfettamente bene finché non danneggi gli ebrei”, afferma Solomon.

Aggiunge che è importante che la Galilea abbia unaimpronta” ebraica.

Dove c’è una colonia ci sarà un’impronta ebraica. Dove c’è l’agricoltura ci sarà un’impronta ebraica. Dove passa laratro ci sarà un’impronta ebraica”.

Solomon sostiene che Israele fu costretto a lasciare la Striscia di Gaza e le aree della Cisgiordania settentrionale perché gli insediamenti coloniali ebraici lì non erano abbastanza forti. I luoghi in cui non eravamo abbastanza presenti ci sono stati portati via”, dice.

Più ebrei ci saranno qui, più ci saranno lavoro, cultura, istruzione e sicurezza”, aggiunge.

Ma gli arabi in Israele si sentono già più insicuri, preoccupati per i segnali che indicano che la coalizione è intenzionata ad attuare la legislazione razzista del 2018, la Legge sullo Stato Nazione che ha consacrato linsediamento coloniale ebraico come valore nazionale e che ai loro occhi, e a quelli dei critici, ha formalizzato lo status degli arabi come cittadini di seconda classe.

Quando non si lavora per migliorare le condizioni di vita dei villaggi e città esistenti e si creano nuove città e insediamenti coloniali moderni, questa è discriminazione”, afferma Reem Hazzan, leader di Arab Hadash, principale partito nella città settentrionale di Haifa.

Questo per non parlare del fatto che nella per la nostra memoria collettiva queste terre furono confiscate e appartenevano ai palestinesi. Invece di godere congiuntamente di queste terre, il loro usufrutto va esclusivamente agli ebrei”.

Anche Amir Wohl, uno dei manifestanti ebrei contro Ben-Gvir, esprime inquietudine.

“Sono preoccupato per una presa di potere da parte dei fondamentalisti ebrei. Ogni volta che i ministri vengono al nord, noi protestiamo contro di loro. Vogliamo vivere in una democrazia e loro vogliono uno Stato di diritto ebraico ortodosso senza arabi.”

Di Ramat Arbel, Wohl dice: Questa è solo una provocazione. Ci sono già molti insediamenti per ebrei in Galilea”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Basta ai palestinesi poter accedere alle proprie terre due volte all’anno?

Amira Hass

20 agosto 2023 Haaretz

L’Alta Corte di Israele ha respinto la petizione degli abitanti del villaggio di Anin per poter lavorare i propri terreni oltre il muro di separazione ogni giorno, ed ha stabilito che due volte a settimana fosse sufficiente. Ora l’esercito israeliano dice che gli agricoltori potranno accedere ai propri terreni solo due volte all’anno.

I contadini del villaggio di Anin vogliono lavorare la propria terra ogni giorno, perciò hanno chiesto che il varco nella barriera di separazione che divide i loro campi dal villaggio venisse aperto quotidianamente, non due volte a settimana. Hanno inoltrato questa richiesta nel 2007, circa cinque anni dopo che Israele ha costruito il muro sulla loro terra, ma è stata respinta.

Un anno fa hanno nuovamente fatto la richiesta, di nuovo rifiutata e in marzo hanno presentato una petizione all’Alta Corte di Giustizia. Allora l’esercito ha informato loro e la Corte che in realtà sta programmando di rendere “stagionale” l’apertura del varco: invece di due volte alla settimana, verrà aperto due volte all’anno per l’aratura e la raccolta delle olive. E se i contadini sono così desiderosi di recarsi sul proprio terreno ogni giorno potranno guidare per 25 chilometri, sia per andare che per tornare, attraverso un altro varco. Quindi l’Ufficio del Procuratore di Stato ha raccomandato alla Corte di respingere la petizione.

I giudici non hanno nemmeno tenuto un’udienza con i richiedenti e la loro avvocata, Tehila Meir dell’associazione israeliana per i diritti HaMoked. Nella prima settimana di agosto hanno semplicemente emesso la sentenza: due giorni alla settimana sono ampiamente sufficienti, ha scritto la giudice Ruth Ronnen in accordo con i suoi colleghi Yael Willner e Alex Stein. Se davvero il varco diventasse stagionale i richiedenti potrebbero tentare un ricorso legale, ha precisato.

Dei circa 17.000 dunam (4.200 acri) del villaggio in Cisgiordania, 11.000 sono incastrati tra il muro di separazione e la Linea Verde, in un’enclave di 31.000 dunam. E’ l’enclave di Barta’a, che ospita 7.000 palestinesi in sette villaggi, il più grande dei quali è la stessa Barta’a. Ci vivono anche circa 3.000 coloni in quattro insediamenti; c’è pure una zona industriale israeliana.

E’ difficile dire che è la Cisgiordania e non Israele. I lavori di costruzione e altri lavori per lo sviluppo nei villaggi palestinesi sono pesantemente limitati. I palestinesi che non vivono nell’enclave sono impossibilitati ad entrare, anche se pochi privilegiati ricevono un permesso speciale. Sono i residenti dei villaggi ad est del muro, i cui terreni si trovano ad ovest del muro di cemento (fino a poco tempo fa una staccionata), come gli abitanti di Anin.

Viaggio estenuante, lunga attesa

I soldati aprono il varco a Anin solo il lunedì e il mercoledì e solo due volte al giorno per brevi periodi: dalle 6,50 alle 7,10 del mattino e dalle 15,50 alle16,10 del pomeriggio. Il varco si trova a 5 minuti di cammino dalle case dei richiedenti e la loro terra dista dai 5 ai 20 minuti dal varco.

Prima del 1948 Anin aveva 45.000 dunam”, dice al telefono a Haaretz il capo del consiglio del villaggio Mohammed Issa. Circa 27.000 di essi sono finiti in Israele. Dal 2002 la maggior parte della terra coltivabile che ci è rimasta è al di là del muro. Ogni famiglia ha il terreno là.”

Ottenere un permesso per entrare nei terreni coltivabili è una procedura molto complicata; i permessi sono concessi solo agli abitanti i cui documenti di proprietà soddisfano le condizioni dell’Amministrazione Civile israeliana in Cisgiordania. Inoltre occorre provare la parentela diretta con i proprietari (cioè coniugi e figli; i nipoti non ottengono i permessi). Tutto ciò è sottoposto ad un rigoroso controllo burocratico e di sicurezza. Il permesso va rinnovato ogni pochi mesi, ogni anno o ogni due anni, a seconda del tipo di permesso.

Gli abitanti di Anin che fanno la procedura attraverso il controllo dell’Amministrazione Civile e il servizio di sicurezza dello Shin Bet possono raggiungere la loro terra attraverso il varco di Barta’a, 25 chilometri a sud. Questo varco è aperto tutti i giorni, ma è un viaggio di circa un’ora e mezza da Anin e la strada è in parte costituita da pista sterrata che solo un trattore o un veicolo fuoristrada possono percorrere.

Questo lontano posto di blocco è utilizzato da centinaia di palestinesi di altri villaggi che vivono nell’enclave di Barta’a o hanno dei permessi per attraversarla, perciò per passare di là vi sono lunghe attese specialmente al mattino – il momento migliore per l’attività agricola.

Tanto per cominciare, passare con un trattore richiede un permesso che spinge i richiedenti ad una corsa a ostacoli burocratica. I contadini che portano attrezzi da lavoro attraverso il varco di Barta’a devono subire un lungo controllo di sicurezza – e poi, dopo circa due ore in strada, devono tornare di nuovo verso nord per guidare fino al loro terreno che è a portata di vista e di cammino dalle loro case.

Anche gli alti costi del viaggio spaventano i richiedenti: 80 shekel (21,20 dollari) al giorno con il proprio veicolo, oppure 60 shekel al giorno col trasporto pubblico, che non è disponibile a tutte le ore del giorno.

Tutte queste argomentazioni, dettagliate nella petizione da Meir di HaMoked, non hanno convinto i giudici. Ronnen si è allineata all’esercito e all’Amministrazione Civile in ogni aspetto, affermando che “le uniche colture attualmente esistenti nei terreni sono uliveti che richiedono una coltivazione solo stagionale durante le stagioni dell’aratura e della raccolta.” Ha aggiunto che “i richiedenti non contestano questa affermazione”.

Invece i richiedenti la hanno contestata. Una replica di Meir alla risposta dell’Ufficio del Procuratore di Stato alla petizione afferma che prima della costruzione del muro di separazione i contadini del villaggio coltivavano cereali come grano e frumento e verdure come pomodori, cipolle, sesamo e cetrioli. La costruzione del muro e la limitazione dei giorni in cui si può attraversarlo hanno costretto gli agricoltori a rinunciare alle colture che necessitano di irrigazione, cura e sorveglianza quotidiane, ha detto Meir.

La linea dura della Corte

Durante una visita al varco a maggio, su iniziativa dell’esercito e dell’Ufficio del Procuratore di Stato dopo che è stata presentata la petizione, gli agricoltori hanno spiegato la situazione agli alti funzionari, come documentato da Meir, che ha partecipato all’incontro con altre persone di HaMoked. Meir ha allegato alla sua risposta un parere di Bimkom, un’associazione israeliana per i diritti che perora l’uguaglianza nella pianificazione ed ha lavorato per molti anni con le comunità palestinesi nell’enclave di Barta’a.

Fornendo dati e fotografie aeree, Bimkom dimostra che molti degli appezzamenti di terra di Anin, che prima del 2000 erano intensamente coltivati, sono inariditi a causa delle restrizioni all’ingresso. Gli alberi negli uliveti di Anin, che non necessitano di irrigazione, sono meticolosamente curati.

Alla domanda se gli abitanti del villaggio sperassero di tornare a coltivare verdura, grano e cereali, Issa, il capo del consiglio del villaggio, ha risposto a Haaretz: “Adesso stiamo parlando di come mantenere e salvare ciò che abbiamo, gli alberi che abbiamo.”

E’ indignato dalla sentenza secondo cui il varco sarà aperto solo due volte all’anno. “Una mandria di buoi (da un vicino villaggio israeliano nell’area di Wadi Ara) raggiunge i nostri alberi e li danneggia, perciò dobbiamo essere là ogni giorno”, ha detto Issa.

Il timore è che ciò che succede in altri luoghi dove l’esercito e l’Amministrazione Civile concede l’ingresso ai contadini solo due o tre volte all’anno avverrà anche ad Anin: gli uliveti verranno invasi dai cardi selvatici e devastati da frequenti incendi boschivi e la loro produzione diminuirà drasticamente.

Nella loro risposta alla petizione gli avvocati dell’Ufficio del Procuratore di Stato, Yael Kolodny e Jonathan Berman, hanno sostenuto a nome dell’esercito e dell’Amministrazione Civile che il varco viene usato dagli abitanti di Anin con permessi agricoli soprattutto per entrare senza autorizzazione in Israele. Hanno detto di sostenere questo sulla base di un filmato di un drone e di una improvvisa visita al varco alla fine di marzo, quando sono state interrogate le persone che lo attraversavano. Hanno detto che molti avevano con sé un cambio di abiti e alcuni erano “vestiti elegantemente”. Nessuno aveva attrezzi da lavoro, hanno aggiunto gli avvocati.

In risposta i contadini hanno detto a Meir che alcuni di loro effettivamente escono di casa in abiti puliti e si cambiano in tenuta da lavoro, che indossano anche per riparare veicoli, per costruire, per tinteggiare le case e svolgere altre attività. Inoltre i lavoratori che attraversano il varco normalmente lasciano i loro attrezzi nell’appezzamento piuttosto che portarli avanti e indietro. Meir ha scritto, citando Bimkom, che gli uliveti curati dimostrano che i contadini si recano regolarmente dove sono gli alberi e se ne prendono cura con dedizione.

Quanto al filmato del drone, Meir ha scritto che è stato ripreso in Cisgiordania e non mostra nessuno che entra in Israele. I richiedenti, che hanno notato il drone, dicono che il filmato è selettivo, mostra persone che salgono nelle auto (che secondo l’esercito le portano in Israele), ma non mostra quelli che continuano a piedi fino ai loro appezzamenti. I richiedenti aggiungono che alcuni contadini trovano dei passaggi in auto israeliane (di proprietà di palestinesi cittadini dello Stato) per arrivare più in fretta ai loro terreni.

Meir ha detto a Haaretz che la sentenza mostra un drastico peggioramento nel rispetto da parte della Corte degli obblighi dello Stato verso i palestinesi danneggiati dal muro di separazione. Ha sottolineato che la Corte ha approvato la costruzione del muro all’inizio del 2000 dopo che lo Stato si è impegnato a ridurre i danni ai palestinesi separati dai loro terreni al minimo indispensabile, consentendo loro un accesso ragionevole alle loro terre.

Ora che accade che l’accesso non sia ragionevole, la Corte respinge l’appello dei contadini senza un’udienza, ha precisato. “E’ triste vedere quanto poco costi considerare giustificabile danneggiare i diritti umani dei palestinesi che cercano di lavorare i propri terreni”, ha detto Meir.

HaMoked ha anche evidenziato un altro inquietante aspetto della sentenza: i giudici hanno stabilito che queste terre “formalmente” appartengono all’ “area di Giudea e Samaria”, la Cisgiordania, che è occupata da Israele dal 1967. Questa affermazione indica che nella sostanza, al contrario che nella forma, questo territorio palestinese, noto in gergo militare come “zona di congiunzione”, non fa parte dell’ “area di Giudea e Samaria.”

Così c’è soltanto un passo tra la sentenza della Corte ed il suo assenso all’annessione della terra oltre il muro. I giudici sanno bene che solo gli israeliani e i turisti stranieri hanno libero accesso a questa area, mentre i palestinesi ne sono del tutto impediti, e che solo le colonie e l’Amministrazione Civile vi possono mettere in atto piani edilizi, mentre le autorità locali palestinesi, che posseggono questa terra, non possono. Del resto la Corte ha approvato questo stato di cose nel 2011.

Fondamentalmente oltre 500 chilometri quadrati di terra (9,4% dell’intera Cisgiordania) sono imprigionati tra il muro di separazione e la Linea Verde. Quindi la realtà è che un’enorme fetta di terra è stata sostanzialmente annessa ad Israele senza una dichiarazione “formale”.

Per adempiere alla promessa dello Stato di permettere ai contadini di lavorare la propria terra sono stati costruiti 79 varchi nel muro di separazione. Solo cinque sono aperti tutto il giorno, 11 sono aperti per poco tempo due o tre volte al giorno e 10 sono aperti per alcuni brevi intervalli due o tre giorni alla settimana.

Con la chiusura del varco di Anin questo numero scenderà a 9 e il varco di Anin si aggiungerà a 53 altri “varchi stagionali”, aperti solo alcuni giorni all’anno per l’aratura, la raccolta e a volte per diserbare. La gente di Anin ha tempo fino a lunedì per fare appello contro la decisione di chiudere il loro varco.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Due israeliani sono stati uccisi in un attacco con armi da fuoco in Cisgiordania

Redazione di MEE

19 agosto 2023- Middle East Eye

L’ incidente mortale è avvenuto vicino alla città palestinese di Huwwara, teatro di recenti attacchi selvaggi da parte dei coloni israeliani.

L’esercito ha dato la notizia che due israeliani sono stati uccisi sabato da presunti palestinesi armati nella Cisgiordania occupata.

La sparatoria è avvenuta vicino alla città settentrionale di Huwwara, teatro di numerosi attacchi selvaggi da parte di coloni ebrei israeliani negli ultimi mesi.

I servizi di emergenza israeliani hanno detto che un uomo sulla trentina e un uomo sulla sessantina sono stati colpiti da due aggressori in un autolavaggio. Non si conoscono ancora le identità degli assalitori. Secondo i primi resoconti citati dai media israeliani, l’attacco avrebbe avuto “motivazioni criminali”.

L’esercito israeliano comunica di aver chiuso diverse strade nella zona e che è in corso una caccia all’uomo.

Huwwara, che gli israeliani attraversano per raggiungere gli insediamenti illegali, è diventata quest’anno un punto critico a seguito dei precedenti attacchi mortali contro israeliani e delle violente incursioni dei coloni israeliani “in cerca di vendetta”.

A febbraio a Huwwara e in altre città e villaggi della Cisgiordania un palestinese è stato ucciso e quasi 400 feriti sotto la furia dei coloni, come riportato dai funzionari sanitari palestinesi.

I coloni hanno bruciato almeno 35 case, ne hanno parzialmente danneggiate altre 40 e molti edifici sono stati dati alle fiamme mentre i loro abitanti palestinesi si erano rifugiati all’interno.

Inoltre più di 100 auto sono state bruciate o distrutte in altro modo.

Negli ultimi due anni la Cisgiordania ha registrato un picco della violenza a seguito dell’aumento delle incursioni israeliane e degli attacchi dei coloni.

Solo questa settimana due palestinesi sono morti per le ferite riportate in precedenza durante i raid delle forze israeliane.

Secondo un conteggio di Middle East Eye in un anno almeno 215 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano, tra cui 37 minori: un tasso di quasi una vittima al giorno.

Da gennaio in Cisgiordania e a Gerusalemme Est sono morte in totale 179 persone, rendendo il 2023 uno degli anni più sanguinosi nella Palestina occupata. Altre 36 persone sono state uccise nella Striscia di Gaza.

Nel frattempo i palestinesi, nello stesso periodo, hanno ucciso 28 israeliani, tra cui sei minori.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




I coloni volevano il potere supremo. Hanno invece avuto una ribellione

Meron Rapoport

15 agosto 2023 +972

Il movimento religioso sionista da due decenni è largamente penetrato nello Stato e nella società israeliani. La riforma giudiziaria potrebbe far crollare tutto.

Sembra strano se si pensa che alla vigilia delle ultime elezioni israeliane Benjamin Netanyahu e il suo partito Likud non hanno dato molto peso alla riforma giudiziaria che sta ora dilaniando il Paese. In effetti, il partito non ha fatto campagna elettorale sulla riforma e il Primo Ministro vi ha appena fatto cenno nella prima riunione di governo dopo le elezioni.

Che il graduale disfacimento del sistema giudiziario sarebbe stato l’ultimo disperato tentativo di Netanyahu di evitare il possibile carcere per i suoi scandali di corruzione è ormai risaputo. Ma il vero motore dietro la riforma non è mai stato il Likud: era e rimane il progetto di punta del settore nazional-religioso, su cui si è concentrata l’agenda del Partito Religioso Sionista (PRS) che cerca di “riavviare il sistema legale”.

Nei giorni che hanno preceduto le elezioni il capo del PRS Bezalel Smotrich e il presidente del Comitato Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset Simcha Rothman hanno resa nota quasi ogni singola clausola di quella che sarebbe diventata la riforma presentata dal ministro della Giustizia Yariv Levin. I due sono stati estremamente franchi sull’annullamento della clausola di ragionevolezza [conseguente al principio di uguaglianza impone che le disposizioni normative siano adeguate o congruenti al fine, ndt.], sulla politicizzazione dei consulenti legali del governo, sulla subordinazione del comitato per la nomina dei giudici ai capricci dei politici e, naturalmente, sulla clausola di deroga [in base alla quale una norma giuridica non trova applicazione oppure viene disapplicata in luogo di altra norma, ndt.]

Smotrich e Rothman non si sono preoccupati di nascondere i motivi razzisti e suprematisti della loro proposta di riforma. Attraverso la clausola di deroga, che consentirebbe alla Knesset di ribaltare con una maggioranza semplice qualsiasi decisione emessa dalla Corte Suprema, il governo potrà, secondo il suo programma, “rimandare gli intrusi [cioè i richiedenti asilo africani] al loro paesi di origine utilizzando il metodo della ‘selezione naturale’ [non si spiega cosa si intenda con questa asserzione biologica]; emanare una legge sulla coscrizione [per esentare gli ultra-ortodossi dal servizio militare]; rimettere in vigore la legge di regolarizzazione [emanata nel 2017 e revocata dalla Corte Suprema nel 2020, ndt.] che correggerà un’ingiustizia di lunga data e consentirà di legalizzare le colonie israeliane in Giudea e Samaria, stabilite in buona fede e con il coinvolgimento del Governo su terreni privati [palestinesi], fornendo un equo risarcimento a coloro che dimostrano dei diritti su quelle terre; emanare una legge di conversione di Stato [collegata alla legge sul ritorno per gli ebrei, ndt.] che impedirà l’assimilazione [agli ebrei] e la minaccia di una politica di immigrazione, e altro ancora “.

Contrariamente a quanto i suoi sostenitori possano affermare oggi, la riforma non riguarda ciò che Rothman ha chiamato in seguito “riparare le tubature”. È invece un’ambiziosa revisione che è stata progettata, prima di tutto, per stabilizzare l’apartheid nei territori occupati e sancire la supremazia religiosa e nazionale ebraica all’interno di Israele.

Proprio perché la riforma giudiziaria è in gran parte un progetto del movimento dei coloni – Rothman vive in un avamposto illegale a Gush Etzion e Smotrich a Kedumim nel nord della Cisgiordania – dovrebbe sorprendere che Makor Rishon, il giornale più identificato con la destra dei coloni, si sia espresso a favore di un blocco totale della riforma giudiziaria. “Con il consenso o senza il consenso, con la parola o con il silenzio, la riforma deve essere abbandonata”, ha scritto Hagai Segal, redattore del giornale e fino a poco tempo fa caporedattore. “Dobbiamo abbandonarla immediatamente e annunciare alla nazione: stiamo fermando tutto”.

Le parole di Segal sono state riprese da altri giornalisti di Makor Rishon. Suo figlio, Amit Segal, uno dei giornalisti più influenti del Paese, è arrivato persino a scrivere che Netanyahu è stato “trascinato” nella riforma dal Ministro della Giustizia Levin. Nel frattempo, in seguito all’approvazione il mese scorso del disegno di legge che abolisce la clausola di ragionevolezza, la destra dei coloni ha lanciato una campagna di love bombing [bombardamento amoroso, tentativo di influenzare le persone con dimostrazioni di attenzione e affetto, possibile parte di un ciclo di abusi, ndt.] per cercare di riunire israeliani di fazioni politiche opposte in un dialogo.

Nel complesso è chiaro che la riforma giudiziaria è al centro di un fallimento nelle pubbliche relazioni anche all’interno dell’estrema destra israeliana.

L’elite isreliana nel 2023

Per essere chiari, la destra dei coloni non ha riserve sulla riforma stessa. Come ha scritto Hagai Segal, se combattere la “tirannia dell’Alta Corte” è una necessità, è più importante “l’armonia domestica”, in modo che la nazione possa dedicarsi a compiti altrettanto importanti come “la sorveglianza dell’Area C in Giudea e Samaria [la Cisgiordania] e mantenere la meshilut [gestione] all’interno della Linea Verde”. In altre parole, andare avanti con la riforma può effettivamente interferire con la continuazione dell’occupazione.

Questo è un punto chiave. Per il movimento dei coloni il trauma del disimpegno da Gaza nel 2005 è stato più grave della rimozione di 9.000 coloni e lo smantellamento delle loro colonie; la ferita che non si è mai rimarginata, ai loro occhi, è l’idea che il movimento delle colonie sia stato lasciato solo nella lotta per il “Grande Israele”. La società in generale, compresi i tradizionali elettori di destra del Likud, era sembrata abbastanza disinteressata al progetto.

Infatti la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana era favorevole al disimpegno, come fu manifesto nelle elezioni del 2006: i partiti di destra contrari al ritiro da Gaza registrarono un minimo storico di 32 seggi (di cui 12 per il partito Yisrael Beiteinu di Avigdor Liberman, i cui elettori non erano troppo coinvolti nella lotta). Oggi, in confronto, il Likud e il Partito Religioso Sionista hanno un totale di 46 seggi alla Knesset.

La lezione per il movimento nazional-religioso fu che per mantenere la sua iniziativa nei territori occupati avrebbe dovuto lasciare la Cisgiordania e “stabilirsi nei cuori” della società ebraica. Questo è stato il progetto principale negli ultimi 15 anni: normalizzare gli insediamenti e rendere invisibili la Linea Verde e l’occupazione.

Questa mossa si è manifestata con una sempre maggiore presenza di ufficiali nazional-religiosi nell’esercito, una presenza molto ampia nella funzione pubblica a tutti i livelli (l’attuale commissario della funzione pubblica e il supervisore dei conti, l’ex procuratore generale e l’ex commissario di polizia provengono tutti dal settore nazional-religioso, e questa è solo la punta dell’iceberg), un ingresso massiccio nel panorama dei media e la creazione di una rete di think tank di destra, il più noto dei quali è il Kohelet Forum, un artefice della riforma.

Difatto se c’è un gruppo omogeneo che può valere come élite israeliana nel 2023 sono i coloni e i nazional-religiosi. Sette dei 33 ministri del governo provengono da questo settore, più due ministri non religiosi che vivono in Cisgiordania. La loro egemonia è evidente anche nel discorso pubblico: oggi è impossibile trovare parole come “occupazione”, “Cisgiordania” o persino “hitnahlut” [comune termine ebraico per le colonie nei territori occupati] nei media più popolari in Israele.

Ma è proprio la riforma giudiziaria – che i coloni hanno concepito per le loro urgenze nazionaliste-religiose e che avrebbe dovuto portarli all’apice del potere – che minaccia di distruggere ciò che erano riusciti a ottenere dal disimpegno di Gaza.

Ciò che è iniziato a gennaio con le educate manifestazioni della classe medio-alta israeliana si è trasformato in una ribellione non solo contro la riforma e l’attuale governo ma contro l’intero regime di destra e contro il nazionalismo teo-etnocratico che ne è alla base.

Di fronte a questa ribellione il movimento dei coloni si trova in una situazione particolarmente vulnerabile. I partiti ultra ortodossi (Haredi), che sono stati partner a pieno titolo nella riforma, possono ancora chiedere di correggere la rotta e sognare di partecipare ad un potenziale futuro governo guidato da Benny Gantz. Anche il Likud può fantasticare di un governo di unità nazionale, in particolare se Netanyahu finirà per firmare un patteggiamento sui suoi casi di corruzione. I nazional-religiosi sono entrati così a fondo nella destra fascista che se cade l’attuale governo, cadranno anche loro.


Rompere i tabù

È difficile per i nazional-religiosi legarsi al discorso anti-élite che sentiamo arrivare da certe correnti del Likud per screditare i manifestanti. Se i piloti e i lavoratori tecnologici sono già etichettati come “privilegiati ashkenaziti [ebrei di provenienza europea, ndt.]”, come saranno etichettati i sionisti religiosi la cui leadership è chiaramente ashkenazita, che in realtà godono di privilegi che non ha nessun altro gruppo nella società israeliana e che sono stati parte integrante del governo sin dalla fondazione dello Stato?

Ma, anche più importante, i coloni hanno inconsapevolmente creato un collegamento diretto tra la sfacciata violenza contro i palestinesi in Cisgiordania e il colpo di stato giudiziario. Il pogrom di Huwara, seguito dall’appello di Smotrich a spazzare via la città, è stato uno spartiacque nel modo in cui il movimento di protesta si è rapportato all’estrema destra. Slogan come “Dov’eri a Huwara?” diretti agli agenti di polizia sono diventati parte del repertorio delle proteste, anche tra coloro che in precedenza non avevano mai pensato molto all’occupazione.

I pogrom che sono seguiti hanno ulteriormente rafforzato questo legame. Oggi è difficile trovare un solo oratore che salga sul palco delle proteste a Tel Aviv e non faccia un collegamento tra la riforma giudiziaria, i pogrom in Cisgiordania e la supremazia ebraica – un collegamento che fino a poco tempo fa era tracciato esclusivamente dalla sinistra radicale. Il velo con cui il sionismo religioso ha cercato di nascondere la realtà dell’occupazione e dell’oppressione dei palestinesi è stato strappato.

Mentre le proteste continuano a sfidare il dominio della destra e i politici di estrema destra iniziano a sostenere apertamente la violenza dei coloni, la destra stessa è diventata oggetto della rabbia dei manifestanti. L’uccisione all’inizio di questo mese da parte dei coloni di Qosai Jammal Mi’tan, un palestinese del villaggio di Burqa, ha portato questa connessione al culmine. “Falangi di ebrei fascisti intrisi di un falso senso di superiorità compiono pogrom nei villaggi arabi”, ha detto Shikma Bressler, leader de facto del movimento di protesta, sul palco di Tel Aviv. “Milizie assassine al servizio del governo che ci sta portando alla distruzione”.

Brothers in Arms, un’organizzazione di riservisti dell’esercito israeliano contrari alla riforma giudiziaria, di cui alcuni membri hanno attaccato il mese scorso gli attivisti del blocco anti-occupazione, ha definito i pogromisti a Burqa “braccio militare di Otzma Yehudit [partito politico di estrema destra, kahanista e anti-arabo, ndt.] – un corpo che dovrebbe essere dichiarato organizzazione terrorista.” Il generale di brigata Ilan Paz, ex capo dell’Amministrazione Civile, l’organo militare che sovrintende alla vita quotidiana in Cisgiordania, si è pubblicamente chiesto quando verrà il giorno in cui invocherà il rifiuto di massa a prestare servizio nei territori occupati.

E sebbene Hagai Segal abbia scritto il suo articolo prima dell’uccisione a Burqa, lui e altri nel campo nazional-religioso si rendono conto che il movimento di protesta non solo è molto più forte di quanto si rendessero conto all’inizio, ma che è disposto a infrangere tabù che nessuno immaginava si potessero infrangere, come l’obiezione di coscienza. Ai loro occhi, il mantenimento della riforma giudiziaria significa la continuazione delle proteste. E la continuazione delle proteste potrebbe erodere ulteriormente la volontà di molti nella società israeliana di continuare a finanziare il progetto delle colonie e rischiare la vita per difenderlo. Pertanto, è meglio rinviare le riforme fino a data da destinarsi.

Naturalmente i coloni sono tutt’altro che deboli. Smotrich sta rafforzando il suo controllo in Cisgiordania, la violenza dei coloni sta espellendo le comunità palestinesi e la probabilità che gli assassini di Mi’tan vengano processati è molto bassa. E nemmeno significa che vedremo un consenso, da Gantz a Bressler, per smantellare le colonie o un riconoscimento che l’obiettivo finale della riforma è preservare l’occupazione e l’apartheid – che devono essere entrambi smantellati per stabilire una vera democrazia tra il fiume (Giordano) e il mare (Mediterraneo). Ma è possibile a questo punto affermare che il movimento dei coloni non può più “stabilirsi nei cuori” della società israeliana.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato in ebraico su Local Call. Meron Rapoport è redattore di Local Call.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Sempre più sionisti stanno infine ammettendo l’apartheid israeliano, ma poi cosa succede?

Jonathan Ofir

14 agosto 2023 – Mondoweiss

Il generale israeliano in pensione Amiram Levin e il giornalista sudafricano Benjamin Pogrund sono gli ultimi a intervenire sull’apartheid israeliano. Adesso sorge la domanda: che cosa intendono fare in proposito?

Ora che vi è consenso all’interno della comunità dei diritti umani sul fatto che Israele sia uno Stato di apartheid, molti incominciano ad ammetterlo, persino alcuni insigni israeliani e apologeti di Israele. Ma anche se affermano ciò che è evidente, cercano comunque di limitare il danno e al tempo stesso di celare la propria personale responsabilità e provare a circoscrivere i possibili rimedi.

E’ cominciato forse all’inizio di quest’anno, quando lo storico giornalista israeliano di centro Ron Ben Yishai ha messo in guardia dall’incombente apartheid come il principale obbiettivo delle riforme giudiziarie dell’attuale governo. Ora il generale israeliano in pensione Amiram Levin ha rilasciato un’intervista alla radio Kan in Israele in cui ha fatto riferimento al “totale apartheid” nella Cisgiordania occupata:

Da 56 anni non vi è democrazia. Vige un totale apartheid. L’IDF (esercito israeliano), che è costretto a gestire il potere in quei luoghi, è in disfacimento dall’interno. Osserva dal di fuori, sta a guardare i coloni teppisti e sta iniziando a diventare complice dei crimini di guerra.”

In Israele Levin è considerato un liberale ed ha un passato scandalosamente razzista. In passato ha minacciato di “fare a pezzi i palestinesi” e “cacciarli in Giordania”, ha detto che “i palestinesi hanno meritato l’occupazione” e che nella maggioranza i palestinesi sono “nati per morire comunque, noi semplicemente li aiutiamo a farlo”. Eppure sì, egli vede un “totale apartheid”.

L’intervista viene sulla scia di una recente lettera agli ebrei americani che li rimprovera di ignorare l’apartheid, l’“elefante nella stanza”. Molti accademici e personaggi pubblici israeliani hanno firmato questa lettera che al momento ha ottenuto più di 1500 firme. Tra i firmatari vi sono anche convinti sionisti come Benny Morris. La lettera contiene suggerimenti di azione, compresa una richiesta al governo USA di sanzionare Israele:

Si chiede che i leader eletti negli Stati Uniti agevolino la fine dell’occupazione, impediscano che gli aiuti militari americani vengano usati nei Territori Palestinesi Occupati e mettano fine all’impunità israeliana alle Nazioni Unite e in altre organizzazioni internazionali.”

Un chiaro appello all’azione che, volutamente o no, riecheggia gli appelli che gli attivisti del BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) lanciano da quasi 20 anni. Ma non tutti approvano che il BDS si rafforzi come naturale risposta a questo apartheid.

La settimana scorsa Benjamin Pogrund, che è stato giornalista nel Sudafrica dell’apartheid, ha scritto un articolo su Haaretz intitolato “Per decenni ho difeso Israele dalle accuse di apartheid. Non posso più farlo.” Pogrund spiega di essere stato interpellato nel 2001 dall’allora Primo Ministro israeliano Ariel Sharon per far parte della delegazione governativa di Israele alla Conferenza Mondiale Contro il Razzismo a Durban: “Il governo Sharon mi invitò a causa della mia esperienza di un quarto di secolo come giornalista in Sudafrica; la mia specializzazione era riferire in dettaglio sull’apartheid.” Ma dice di non poterlo più difendere. Cita la legge razzista dello ‘Stato-Nazione’ del 2018, che codifica i diritti esclusivi per chi ha nazionalità ebrea. Poi c’è l’occupazione:

Israele non può più addurre la sicurezza come motivo del nostro comportamento in Cisgiordania e dell’assedio di Gaza. Dopo 56 anni la nostra occupazione non può più essere definita temporanea in attesa di una soluzione del conflitto con i palestinesi. Stiamo andando verso l’annessione, con la richiesta di raddoppiare i 500.000 coloni israeliani già presenti in Cisgiordania.”

Purtroppo Pogrund ha già “annesso” Gerusalemme est, che fa parte della Cisgiordania, che aggiungerebbe circa 250.000 persone al numero di coloni citati. Ma la sua osservazione sulla temporaneità è valida – è una parte importante del perché non può essere definita occupazione, che si presume essere temporanea. E poi, sorprendentemente, si scaglia contro il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni per quello che definisce “ignoranza e/o malevolenza”:

In Israele sono ora testimone dell’apartheid in cui sono cresciuto. Israele sta facendo un regalo ai suoi nemici del movimento Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni e ai loro alleati, soprattutto in Sudafrica, dove la negazione dell’esistenza di Israele è forte tra molti neri, nei sindacati e negli ambienti comunisti e musulmani. Gli attivisti del BDS continueranno a lanciare le loro accuse, frutto di ignoranza e/o malevolenza, diffondendo menzogne su Israele. Hanno trasformato ciò che è già negativo in grottesco, ma ora lo rivendicano. Israele gli sta dando ragione.”

Pogrund è stizzito. Questi attivisti BDS sono arrivati prima di lui nel chiedere di redarguire Israele, ma vuole avere il controllo su quando definire qualcosa apartheid e quando no, quando difenderlo e quando no. Gli attivisti BDS utilizzano una strategia consolidata per isolare lo Stato dell’apartheid. Pogrund non vuole che ciò accada, ma sa che è destinato ad accadere, perché Israele alla fine li legittimerà.

Che prospettiva confusa.

Sia Pogrund che Levin sono arrabbiati, ma è chiaro che la loro rabbia non è dovuta al crimine contro l’umanità che si compie contro i palestinesi, ma a ciò che accade a loro. Levin, un veterano dell’apparato di sicurezza di Israele e responsabile proprio del sistema che ora critica, si scaglia contro l’attuale governo. Non addita le proprie responsabilità e fa di tutto per dire che non sta esprimendo preoccupazione per i palestinesi.

Non sto dicendo questo perché mi importa dei palestinesi. Mi importa di noi. Ci stiamo uccidendo dall’interno. Stiamo disfacendo l’esercito, stiamo disfacendo la società israeliana”, dice. Ed è tutta colpa di “Bibi” (il soprannome di Netanyahu). “Bibi ha fallito”.

Ciò è estenuante: il tipico narcisismo israeliano. Non ci importa dei palestinesi. Guardate che cosa provoca a noi questa occupazione. 

E’ interessante come si stia diffondendo il riconoscimento dell’apartheid, ma dobbiamo stare attenti ai sionisti che cercano di prendere il controllo della narrazione e limitare il dibattito. L’apartheid israeliano non è qualcosa che accade “da qualche parte”. E’ l’apartheid dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo); è dovunque. E queste risposte sono anche un buon promemoria del perché la supremazia ebraica non porrà fine a sé stessa dall’interno, l’unica risposta è dall’esterno.

Jonathan Ofir

Musicista israeliano, conduttore e blogger che vive in Danimarca.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 25 luglio – 7 agosto 2023

1). Nel corso di quattro attacchi, tentati o presunti attacchi, condotti in Cisgiordania e Israele da parte di palestinesi, un poliziotto israeliano è stato ucciso e otto israeliani sono rimasti feriti. Negli stessi episodi sono stati uccisi sei palestinesi, tra cui un minore e due sono rimasti feriti (seguono dettagli).

Il 25 luglio, in seguito a uno scontro a fuoco avvenuto nei pressi del cancello del Monte Garizim, nella città di Nablus, forze israeliane hanno ucciso a colpi di arma da fuoco tre palestinesi; i tre uomini avevano aperto il fuoco sui soldati da un veicolo. Non sono stati segnalati feriti o vittime tra le forze israeliane.

Il 1° agosto, nell’insediamento di Ma’ale Adummim (Gerusalemme), un palestinese ha sparato ferendo sei israeliani prima di essere ucciso da un agente di polizia israeliano fuori servizio. In seguito all’episodio, forze israeliane hanno condotto un’operazione di ricerca-arresto nella vicina Al ‘Eizariya (Gerusalemme), dove viveva l’aggressore, arrestando due suoi fratelli.

Lo stesso giorno, 1 agosto, sulla strada 317, vicino all’insediamento israeliano di Shim’a, prossimo alla città di As Samu’ (Hebron), forze israeliane hanno sparato a un ragazzo palestinese di 15 anni. Secondo fonti israeliane, il ragazzo aveva tentato di accoltellare due soldati israeliani che aspettavano l’autobus alla fermata vicino all’insediamento e un soldato israeliano gli ha sparato.

Il 5 agosto, a Tel Aviv, un palestinese della Cisgiordania ha sparato, uccidendo un poliziotto israeliano e ferendo altre due persone; è stato colpito e ucciso sul posto. Successivamente, le forze israeliane hanno fatto irruzione a Rummana (Jenin), da dove proveniva l’autore del reato ed hanno fatto il sopralluogo della sua casa di famiglia; secondo quanto riferito in preparazione della demolizione punitiva. Alla fine del periodo in esame, le autorità israeliane hanno trattenuto i corpi dei sei palestinesi, compreso il minore.

2). Forze israeliane hanno ucciso sette palestinesi, tra cui due minori, in tre diverse operazioni che hanno comportato uno scontro a fuoco (seguono dettagli).

Il 26 luglio, forze israeliane hanno circondato un edificio residenziale nel Campo profughi di Ein Beit el Mai a Nablus ed hanno arrestato un palestinese. È stato segnalato uno scontro a fuoco con palestinesi: un palestinese è stato ucciso e altri due, tra cui una donna, sono rimasti feriti.

Il 4 agosto, forze israeliane hanno effettuato un’operazione militare a Tulkarm e nel suo Campo profughi; le forze israeliane hanno sparato proiettili veri contro palestinesi che, secondo quanto riferito, hanno lanciato contro di loro bottiglie incendiarie. Durante tali scontri, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un ragazzo palestinese di 17 anni e ferendo altri due palestinesi. Il 6 agosto, un’unità sotto copertura delle forze israeliane ha sparato uccidendo tre palestinesi, tra cui un ragazzo di 15 anni; i palestinesi si trovavano all’interno del loro veicolo nei pressi di ‘Arraba (Jenin). Secondo l’esercito israeliano, i tre erano in procinto di compiere un attacco armato contro israeliani. Alla fine del periodo di riferimento i corpi delle persone uccise risultavano ancora trattenuti.

Il 7 agosto, un ragazzo palestinese di 17 anni è morto per le ferite riportate il 2 agosto, quando una guardia dell’insediamento israeliano gli sparò con proiettili veri, vicino al villaggio di Silwad (Ramallah). Secondo fonti israeliane, il ragazzo palestinese aveva lanciato una bottiglia incendiaria contro l’insediamento israeliano di Ofra prima di essere ferito, con arma da fuoco, dalla guardia dell’insediamento. Il numero di palestinesi uccisi (167) nel 2023, in Cisgiordania e in Israele, da forze israeliane, ad oggi, ha superato il numero totale di palestinesi uccisi da forze israeliane in tutto il 2022 (155); anno che aveva già registrato il maggior numero di vittime in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, dal 2005.

3). Durante un attacco di coloni nel villaggio di Burqa (Ramallah), un colono israeliano ha sparato uccidendo un palestinese e ferendone altri due (seguono dettagli).

Il 4 agosto, coloni israeliani armati sono entrati a Burqa (Ramallah) con le loro pecore. I palestinesi hanno lanciato pietre contro di loro e i coloni hanno lanciato pietre e sparato proiettili veri, provocando l’uccisione di un palestinese e il ferimento di altri. Le forze israeliane sono arrivate sul posto e, secondo quanto riferito, hanno arrestato due coloni, compreso uno che è stato successivamente posto agli arresti domiciliari. Secondo i media israeliani, uno dei coloni arrestati è rimasto ferito. In Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, dall’inizio del 2023, fino al 7 agosto, coloni israeliani hanno ucciso sette palestinesi; tre delle vittime erano autori, o presunti autori, di attacchi contro israeliani.

4). A Qalqilya un minore palestinese è morto in un’operazione di ricerca-arresto israeliana. Il 27 luglio, un ragazzo palestinese di 13 anni è morto per le ferite riportate dall’esplosione incontrollata di un ordigno artigianale.

5). In Cisgiordania, durante il periodo in esame, 276 palestinesi, tra cui almeno 60 minori, sono stati feriti da forze israeliane, tra cui nove colpiti da proiettili veri. Novantanove (99) feriti sono stati segnalati durante manifestazioni contro l’espansione degli insediamenti a Deir Istiya (Salfit) e le restrizioni di accesso all’insediamento a Kafr Qaddum (Qalqilya). Altri 21 feriti si sono verificati durante 13 operazioni di ricerca-arresto e altre operazioni condotte da forze israeliane in tutta la Cisgiordania. In altri tre casi, forze israeliane hanno ferito 118 palestinesi a Nablus e Hebron. Questi sono stati conseguenti all’intrusione di coloni israeliani, accompagnati da forze israeliane, nel villaggio di Asira al Qibliya (Nablus), e al loro ingresso nella tomba di Giuseppe nella città di Nablus e nella tomba di Othniel nell’area controllata dai palestinesi della città di Hebron. Nell’episodio registrato nel villaggio di Asira al Qibliya, coloni israeliani avevano appiccato il fuoco a terreni agricoli, provocando danni a proprietà palestinesi. I residenti palestinesi hanno lanciato pietre e le forze israeliane hanno sparato proiettili veri e lacrimogeni. Durante l’episodio registrato nella città di Nablus, si è verificato uno scontro a fuoco tra palestinesi e forze israeliane. In questa circostanza, secondo quanto riferito, forze israeliane hanno impedito ai palestinesi l’accesso alla parte orientale della città, scavando la strada e creando cumuli di terra. Nel caso occorso nella città di Hebron, i palestinesi hanno lanciato pietre e le forze israeliane hanno sparato proiettili di gomma e lacrimogeni. Venticinque feriti aggiuntivi sono stati segnalati durante due casi di demolizione a Beita (Nablus) e Al Mughayyir (Ramallah). I restanti 13 feriti palestinesi sono stati registrati quando palestinesi hanno lanciato pietre contro forze israeliane posizionate all’ingresso di Beit Ummar (Hebron) e Tuqu’ (Betlemme). Complessivamente, 242 palestinesi sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, nove sono stati colpiti da proiettili veri, 15 sono stati feriti da proiettili di gomma, due da schegge, sei sono stati feriti da granate assordanti o lacrimogeni e due sono stati aggrediti fisicamente. In Cisgiordania, dall’inizio dell’anno, un totale di 683 palestinesi sono stati feriti da forze israeliane con proiettili veri; più del doppio rispetto al periodo equivalente del 2022 (307).

6). In Cisgiordania sei palestinesi, tra cui un minore, sono stati feriti da coloni israeliani, e persone conosciute come coloni, o ritenute tali, hanno danneggiato proprietà palestinesi in altri 14 casi. Ciò si aggiunge alle vittime palestinesi da parte di coloni e forze israeliane nei già citati episodi relativi a coloni (seguono dettagli).

Il 27 luglio, coloni, secondo quanto riferito provenienti da Sdeh Boaz, hanno aggredito fisicamente un palestinese che stava lavorando la propria terra vicino al villaggio di Al Khadr (Betlemme) e gli hanno sguinzagliato contro i loro cani che lo hanno morso.

Lo stesso giorno, il 27 luglio, un palestinese è stato aggredito fisicamente e ferito da coloni israeliani (accompagnati da forze israeliane) che hanno lanciato pietre, hanno aggredito fisicamente i residenti di Asira al Qibliya (Nablus) e hanno dato fuoco a terreni agricoli e veicoli.

Il 27 luglio, migliaia di israeliani, compresi coloni, hanno marciato attraverso la Città Vecchia di Gerusalemme, scandendo slogan anti-palestinesi, molestando i residenti e aggredendo fisicamente e ferendo un anziano palestinese. Questo è avvenuto nelle vicinanze della moschea Al Aqsa, nella Città Vecchia di Gerusalemme, in seguito alla visita del ministro israeliano della sicurezza nazionale, accompagnato da membri della Knesset e da migliaia di israeliani.

Il 28 luglio, un palestinese è rimasto ferito vicino al villaggio di Al Mughayyir (Ramallah), quando coloni israeliani hanno lanciato pietre contro il suo veicolo.

Il 4 agosto, nell’area H2 della città di Hebron, un minore palestinese è stato investito e ferito da un colono israeliano.

Lo stesso giorno, un palestinese è stato ucciso da proiettili veri (vedi sopra) e un altro ferito da schegge mentre coloni israeliani entravano nel villaggio palestinese di Burqa (Ramallah). Residenti e coloni palestinesi si sono lanciati pietre reciprocamente e coloni hanno sparato proiettili veri.

In sei episodi registrati a Umm ad Daraj (Hebron), Azzun (Qalqiliya), Burin (Nablus), Silat adh Dhahr (Jenin), Sarta (Salfit) e Ein al Hilwa (Tubas) coloni sono entrati nelle Comunità, causando danni a una struttura di sostentamento, un ricovero per animali, colture e due abitazioni; inoltre, presumibilmente, hanno rubato bestiame e serbatoi d’acqua, oltre a ferire capi di bestiame. In altri sei casi segnalati in Cisgiordania, coloni israeliani hanno lanciato pietre, danneggiando nove veicoli palestinesi.

7). Nove israeliani, tra cui una donna, sono stati feriti da palestinesi in quattro distinti episodi registrati tra la Cisgiordania e Israele (seguono dettagli).

Il 1° agosto, un palestinese ha aperto il fuoco all’interno dell’insediamento israeliano di Ma’ale Adummim e ha ferito sei coloni israeliani, prima di essere colpito e ucciso da un agente di polizia israeliano fuori servizio (vedi sopra).

Il 2 agosto, una donna israeliana è rimasta ferita e la sua auto ha subito danni, dopo che un aggressore, ritenuto palestinese, è uscito dal suo veicolo e ha sparato contro il veicolo con targa israeliana. Il 5 agosto, a Tel Aviv, un palestinese della Cisgiordania ha sparato uccidendo un poliziotto israeliano e ferendo due israeliani prima di essere colpito e ucciso sul posto.

In altri due casi registrati il 6 e il 7 agosto, vicino all’insediamento di Beit El (Ramallah) e ad Al ‘Isawiya (Gerusalemme Est), palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani, provocando, secondo fonti israeliane, il ferimento di un israeliano e il danneggiamento di due veicoli.

8). A Gerusalemme Est e nell’Area C della Cisgiordania le autorità israeliane hanno demolito, confiscato o costretto le persone a demolire 56 strutture, comprese sei case, adducendo la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, che sono quasi impossibili da ottenere. Di conseguenza, 23 palestinesi, tra cui 12 minori, sono stati sfollati e sono stati colpiti i mezzi di sussistenza di oltre 3.500 altri. Sei delle strutture colpite erano state fornite da donatori in risposta a una precedente demolizione nella Comunità beduina di Az Za’ayyem nel governatorato di Gerusalemme, durante la quale erano state demolite un totale di 35 strutture in una unica circostanza. Cinquantatre (53) delle strutture interessate sono state demolite in Area C, compresa l’infrastruttura di un parco pubblico a servizio della Comunità di Al Mughayyir (Ramallah). Le restanti tre strutture sono state demolite a Gerusalemme est, provocando lo sfollamento di quattro famiglie, comprendenti 16 persone, tra cui sette minori. Tutte le strutture demolite a Gerusalemme Est sono state demolite dai proprietari per evitare il pagamento di multe alle autorità israeliane.

9). Le residue famiglie di Al Baqa’a e Ras nelle Comunità di pastori di Tin nel governatorato di Ramallah hanno lasciato la loro Comunità; questo a causa della violenza dei coloni e la perdita dell’accesso ai pascoli (seguono dettagli).

In seguito alla creazione di un insediamento israeliano nella Comunità palestinese di Al Baqa’a (Gerusalemme) il 20 giugno, una delle due famiglie palestinesi rimanenti, composta da otto persone, tra cui cinque minori e una donna incinta, il 28 luglio ha lasciato la Comunità. Stessa sorte era toccata a 36 persone della stessa Comunità che, all’inizio di luglio, hanno smantellato le loro case e strutture di sostentamento, trasferendosi in un luogo più sicuro. Il 4 agosto, 12 famiglie a Ras al Tin (Ramallah) comprendenti 89 persone, tra cui 39 minori, hanno smantellato le loro strutture residenziali e di sostentamento, hanno lasciato le loro Comunità e si sono trasferite in luoghi più sicuri. Secondo le famiglie, la loro decisione era dovuta all’aumento della violenza e delle molestie da parte di coloni, seguite alla creazione di nuovi avamposti di insediamenti agricoli. I coloni si sono impadroniti di pascoli appartenenti alla Comunità e hanno piantato vigneti, riducendo l’area di pascolo necessaria ai pastori palestinesi per sostenere le proprie greggi. Nel 2022, 100 membri della stessa Comunità sono stati sfollati in circostanze simili. Circa 477 persone, tra cui 261 minori, sono partite da Ras al Tin, Wadi as Seeq, Ein Samiya e Al Baqa’a (tutte nel governatorato di Ramallah), Lifjim (Nablus) e Wedadie e Khirbet Bir al ‘Idd (entrambe a sud di Hebron ) tra il 2022 e il 2023, adducendo come ragioni principali la violenza dei coloni e la perdita dell’accesso ai pascoli. Di conseguenza, tre di queste sette Comunità sono state interamente svuotate, mentre nelle altre rimangono solo poche famiglie.

10). Nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale israeliana o al largo della costa, in almeno 14 casi, forze israeliane hanno aperto il “fuoco di avvertimento”. Questi episodi hanno interrotto il lavoro di agricoltori e pescatori. Un pescatore è rimasto ferito e due barche hanno subito danni.

11). Il 4 agosto, a Deir Al Balah, un ragazzo palestinese di 16 anni è rimasto ferito dalla esplosione di un ordigno che stava maneggiando.

12). Il 30 luglio e il 4 agosto, nella Striscia di Gaza, migliaia di palestinesi hanno manifestato per protestare contro le interruzioni di corrente e il peggioramento della situazione economica. I manifestanti hanno lanciato pietre contro la polizia palestinese ed hanno dato fuoco a pneumatici; sono stati segnalati 12 feriti e almeno 23 persone sono state arrestate dalle Autorità de facto di Gaza. Il 1° agosto, la centrale elettrica di Gaza ha acceso la sua quarta turbina dopo che il governo del Qatar ha fornito ulteriore carburante. L’impianto elettrico è attualmente in funzione a pieno regime, con una produzione aumentata da 65 a 100 megawatt. Nel mese di luglio i blackout giornalieri hanno superato mediamente le 12 ore, a causa dell’aumento stagionale della domanda. Ciò ha gravemente condizionato la vita quotidiana e la fornitura di servizi sanitari e WASH. Secondo l’Health Cluster, l’ospedale Kamal Odwan aveva trasferito i pazienti in un’altra struttura, a causa di un guasto ai generatori di energia di riserva.

Ultimi sviluppi

Questa sezione si basa su informazioni iniziali provenienti da diverse fonti. Ulteriori dettagli confermati saranno forniti nel prossimo rapporto.

– Il 10 agosto, forze israeliane sotto copertura hanno fatto irruzione a Zawata (Nablus); ne è seguito uno scontro a fuoco con palestinesi e un palestinese di 23 anni è rimasto ucciso.

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Note a piè di pagina

1 – Vengono conteggiati separatamente i palestinesi uccisi o feriti da persone che non fanno parte delle forze israeliane, ad esempio da civili israeliani o da razzi palestinesi malfunzionanti, così come quelli la cui causa immediata di morte o l’identità dell’autore rimangono controverse, poco chiare o sconosciute. In questo periodo di riferimento viene conteggiato un palestinese ucciso da un colono israeliano.

2 – Le vittime israeliane in questi rapporti includono persone che sono state ferite mentre correvano ai rifugi durante gli attacchi missilistici palestinesi. I cittadini stranieri uccisi in attacchi palestinesi e le persone la cui causa immediata di morte o l’identità dell’autore rimangono controverse, poco chiare o sconosciute, vengono conteggiate separatamente.

La protezione dei dati dei civili da parte dell’OCHA include incidenti avvenuti al di fuori dei Territori Palestinesi Occupati

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