“Spaccata a metà”: la lunga attesa della madre di Gaza per riunirsi ai suoi figli in Cisgiordania

Maha Hussaini da Gaza

29 marzo 2021 – Middle East Eye

Le organizzazioni per i diritti affermano che la “politica di separazione” israeliana sta mantenendo separate decine di famiglie.

Niveen Gharqoud ha visto solo uno dei suoi cinque figli. È rimasta separata dagli altri da quando li ha mandati a vivere con il padre a Qalqilya, una città nella Cisgiordania occupata a circa 100 chilometri di distanza.

Gharqoud, 39 anni, che vive con i propri genitori e con il figlio più giovane nel villaggio di Juhr al-Deek, nel centro della Striscia di Gaza, ha presentato dal 2018 alle autorità israeliane cinque distinte richieste di permesso di uscita nella speranza di riunirsi a suo marito e ai figli in Cisgiordania.

Non glien’è stata concessa nessuna.

Sono passati quattro anni dall’ultima volta che ho visto i miei figli. Prima dormivo con loro in cinque su un letto, e ora non riesco a vederli se non attraverso lo schermo di un cellulare”, ha dichiarato Gharqoud a Middle East Eye.

“È doloroso accettare l’idea che i miei quattro figli si prendano cura di se stessi senza una madre, mentre il padre lavora per la maggior parte del tempo”.

Politica di separazione

Gli abitanti della Striscia di Gaza assediata hanno bisogno di permessi di uscita da parte delle autorità israeliane per entrare nella Cisgiordania occupata attraverso il confine controllato da Israele a Erez, l’unico valico per le persone che vogliono spostarsi tra Gaza e il resto dei territori palestinesi occupati.

Nel 2007, un anno dopo aver vinto le elezioni legislative, Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza. Israele ha subito imposto all’enclave costiera un blocco soffocante, limitando il movimento di persone e merci dentro e fuori Gaza, in base a quella che il governo israeliano chiama “la politica di separazione”.

Secondo il governo israeliano la politica mira a limitare i viaggi tra Gaza e la Cisgiordania per evitare il passaggio di “una rete di terroristi” fuori dalla Striscia.

“Anche se il governo israeliano vuole ridurre quello che chiama il passaggio di terroristi nei territori palestinesi occupati, la sua politica di separazione imposta a oltre due milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza è semplicemente una punizione collettiva, proibita dal diritto internazionale umanitario”, ha detto a MEE Mohammed Emad, Il direttore del dipartimento legale dell’organizzazione per la difesa [dei diritti umani] Skyline International for Human Rights, con sede a Stoccolma.

“Tali restrizioni sono imposte ai civili in modo casuale e arbitrario e portano alla separazione di dozzine di famiglie”. Famiglie come i Gharqoud.

Una famiglia divisa

Niveen ha sposato Sami Gharqoud a Gaza 18 anni fa. Nel corso del loro matrimonio lui ha svolto vari lavori di manovalanza in Israele.

“Si spostava tra Gaza e la Cisgiordania”, dice Niveen. “Lavorava lì e veniva a trovarmi ogni tanto.

Non ha assistito a nessuna delle nascite dei nostri cinque figli, e non mi ha mai visto incinta se non nelle foto e attraverso le videochiamate”, racconta Niveen a MEE.

Andavo in ospedale con mia madre, trascorrevo da sola tutto il dolore [del travaglio], partorivo e tornavo a casa. Sarebbe venuto a trovarci solo dopo il parto di ogni bambino, sarebbe rimasto un paio di settimane e poi sarebbe partito di nuovo per la Cisgiordania”.

Ma dall’inizio dell’attuale blocco, Sami ha fatto visita alla sua famiglia a Gaza solo una volta.

“Prima dell’ultima guerra a Gaza [nel 2014] sono andata a trovarlo in Cisgiordania, sono rimasta per circa sei mesi e sono rimasta incinta del mio ultimo figlio, Ameer”, dice Niveen. Questa è risultata essere l’unica volta in cui ha potuto far visita a Sami.

Poi sono dovuta tornare a Gaza, perché le [autorità israeliane] mi hanno permesso di portare con me in Cisgiordania solo due dei miei quattro figli. Non mi hanno consentito deliberatamente di portare tutti e quattro i bambini. Volevano costringermi a tornare a Gaza. Quindi sono stata obbligata a rientrare “.

Sami non ha mai incontrato il suo figlio più piccolo, Ameer, che ora ha sei anni.

Niveen ha cercato di ricongiungersi al marito dalla nascita del loro ultimo figlio, nel 2014, ma le autorità israeliane non le hanno permesso di recarsi in Cisgiordania.

Nel 2016 ha deciso di mandare i suoi figli dal padre in anticipo, dopo che i suoi parenti e amici le avevano detto che questo l’avrebbe aiutata a ottenere in seguito un permesso per riunirsi a loro.

Mio padre ha preso i miei quattro figli e ha viaggiato attraverso il confine di Rafah [con l’Egitto] fino alla Giordania. Ma li ha lasciati al ponte Allenby [che collega la Giordania alla Cisgiordania] perché non poteva attraversarlo – la sua carta d’identità dichiara che vive a Gaza, a differenza dei miei figli e del loro padre, i cui documenti indicano che vivono in Cisgiordania.

Ora non posso mandare Ameer a ricongiungersi con i suoi quattro fratelli. La mia figlia più grande, che ora ha 17 anni, si assume già la responsabilità dei suoi tre fratelli e si prende cura di loro. È ancora una bambina, ma è sommersa da tutte quelle responsabilità “.

I quattro figli di Niveen a Qalqilya vedono il padre appena una o due volte a settimana a causa del suo lavoro e trascorrono il resto della settimana da soli. Ogni volta che hanno bisogno di qualcosa, i bambini chiamano la madre a Gaza.

“Circa due anni fa mia figlia mi ha chiamato urlando”, ricorda Niveen Gharqoud. “Ha detto che dell’acqua bollente era caduta sul viso del fratello minore mentre lei stava cuocendo alcune uova per dargliele da mangiare. Non sapevo cosa fare – ho chiamato la loro vicina e l’ho pregata di andare ad aiutarli”.

“Questa non è stata l’ultima volta in cui è successa una cosa del genere”, continua Niveen. “Qualche giorno fa, Malak [la sorella maggiore] mi ha chiamato spaventata. Mi ha detto che qualcuno stava cercando di aprire la porta del loro appartamento. Non potevo fare altro che dirle di chiudere bene la porta e di accendere la televisione per fare rumore”.

“Ho i numeri dei vicini per i casi di emergenza perché qui sono impotente, mentre il padre è assente per la maggior parte del tempo”.

Gharqoud spera ancora di riuscire a raggiungere i suoi figli e il marito a Qalqilya, ma dice che le autorità israeliane “non rispondono nemmeno alle mie domande per il permesso di uscita, le lasciano in sospeso”.

Quando un permesso di uscita viene negato o resta sospeso, i palestinesi della Striscia di Gaza devono aspettare tre mesi prima di poter presentare un’altra richiesta.

Una lunga storia di separazioni

Nel luglio 2003 il parlamento israeliano ha approvato una legge che impedisce il ricongiungimento familiare dei cittadini israeliani sposati con palestinesi dei territori palestinesi occupati.

Secondo Amnesty International la legge costituisce un “ulteriore passo nella politica israeliana di lunga data volta a limitare il numero di palestinesi a cui sia consentito di vivere in Israele e a Gerusalemme est”.

Israele è stato a lungo criticato per aver separato i bambini palestinesi dalle loro famiglie, compresi quelli della Striscia di Gaza che vengono inviati per cure mediche nei territori palestinesi occupati.

I dati raccolti dalla ONG Physicians for Human Rights Israel [Medici per i diritti umani, ONG no profit che utilizza medicina e scienza per documentare e difendere contro le atrocità di massa e le gravi violazioni dei diritti umani in tutto il mondo, ndtr.] hanno rivelato che più della metà delle domande presentate nel 2018 da genitori che cercavano di accompagnare i propri figli per cure mediche nei territori palestinesi occupati sono state respinte.

Nel 2019 circa un quinto dei bambini inviati per cure mediche dalla Striscia di Gaza ha viaggiato senza i genitori.

Un rapporto pubblicato dall’organizzazione israeliana per i diritti umani Gisha nel 2020 affermava che nell’isolare la Striscia di Gaza e nell’imporre ai palestinesi restrizioni di movimento tra città e villaggi, Israele ha “perseguito una strategia del divide et impera” per ostacolare le possibilità da parte dei palestinesi di mantenere unite la vita sociale e familiare.

Le autorità israeliane al momento attuale non hanno risposto ad una richiesta di commento.

Separazione traumatica

Il figlio più giovane dei Garqouds, Ameer, ha accompagnato suo nonno e i fratelli al valico di confine di Rafah quando aveva tre anni. Una volta arrivati al confine, si è reso conto che il suo fratello più vicino d’età, Muhammed, e altri tre fratelli se ne stavano andando senza di lui. A differenza di loro, Ameer era troppo giovane per viaggiare senza un genitore.

“Quando è tornato a casa, era così scioccato che è svenuto”, ha detto Niveen. “Da allora ha tanta paura di essere lasciato solo da non recarsi neppure a scuola.

“Qualche mese fa sono andata al matrimonio di un parente. Quando sono uscita [da casa] Ameer ha iniziato a urlare ed è svenuto, pensando che tutti gli mentissero e che io fossi andata in Cisgiordania abbandonandolo”.

Per evitare di lasciarlo solo a scuola e temendo che la sua ansia possa peggiorare Gharqoud ora gli impartisce le lezioni a casa.

“Da quando ha visto i suoi fratelli andarsene, è diventato così bisognoso di attenzioni che mi segue ovunque, per assicurarsi che non lo abbandoni”.

“Manca la cucina della mamma”

“Tua sorella mi ha detto che l’altro giorno non sei andato a scuola, perché?” Niveen ha chiesto a Muhammed, il figlio di 10 anni, nel corso di una videochiamata.

“Mi sono svegliato, ho cercato i miei pantaloni e non sono riuscito a trovarli, quindi non ho potuto andare”, ha risposto.

“Se avesse una madre al suo fianco questo non sarebbe mai accaduto”, dice a MEE Niveen, seduta nel suo soggiorno.

Con Sami ancora in quarantena dopo essere risultato positivo al coronavirus, Niveen si assicura anche che i suoi figli abbiano mangiato il loro pranzo.

Di solito mangiamo panini o ordiniamo il cibo a domicilio perché non abbiamo nessuno che cucini per noi. Ma Malak a volte chiama mamma e chiede alcune ricette per sfamarci”, racconta a MEE Muhammed, 10 anni, il quarto figlio dei Gharqoud.

Niveen dice che evita di inviare foto di riunioni di famiglia ai suoi figli in modo che non si sentano abbandonati o desiderino “cibo che non possono avere”.

“Malak cucina bene”, afferma Muhammed, “ma mi mancano i piatti di mamma, che solo lei sa preparare bene”.

Malak, che ha festeggiato il suo 17° compleanno a febbraio, ha assunto il ruolo di sua madre: tenere sotto controllo gli studi dei fratelli e assisterli nelle loro necessità quotidiane.

“Qualche settimana fa, il suo vicino di casa di 23 anni ha chiesto la sua mano in matrimonio”, riferisce Niveen. “In una situazione normale, non accetterei mai l’idea di permettere a mia figlia di sposarsi a quell’età. Ma dal momento che non ha nessuno che si prenda cura di lei voglio che si senta emotivamente stabile con qualcuno su cui può fare affidamento.

“Inizialmente eravamo d’accordo sul suo fidanzamento, ma Malak si rifiuta ancora di procedere finché non potrò unirmi a loro e incontrare il [suo] ragazzo.”

Niveen dice che i suoi figli potrebbero facilmente tornare a Gaza, ma lei si rifiuta di riportarli a vivere lontano dal padre. Non è sicura, nel caso tornassero, che potrebbero ottenere un permesso per ripartire, e il viaggio attraverso la Giordania e l’Egitto è troppo costoso.

I miei figli stanno crescendo e hanno bisogno del padre nella loro vita. Sono spaccata a metà; li voglio qui con me, ma voglio anche che vivano in un ambiente sano con me e il loro padre insieme”, ha confidato a MEE.

“Cosa c’è di così difficile nel permettere a me e a mio figlio di sei anni di riunirci con la nostra famiglia?”

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Il boicottaggio dei prodotti israeliani nuovamente di fronte a un tribunale francese

Redazione di MEE

16 marzo 2021 – Middle East Eye

La militante Olivia Zemor è imputata di “diffamazione” e “istigazione alla discriminazione economica” per aver propagandato gli appelli al boicottaggio contro il gigante farmaceutico israeliano Teva.

La direttrice editoriale del sito Europalestine è stata citata in giudizio martedì 16 marzo davanti alla giustizia francese dall’azienda farmaceutica israeliana Teva, per aver propagandato un appello al boicottaggio lanciato a Lione da militanti della causa palestinese.

Olivia Zemor comparirà davanti al tribunale penale di tale città per diffamazione e istigazione alla discriminazione economica, dopo aver riportato sul suo sito, con il titolo ‘Teva, non ti vogliamo’, l’azione di militanti lionesi filopalestinesi davanti alla principale farmacia della città.

La società Teva Santé, con una filiale in Francia e la cui casa madre ha sede in Israele, è un leader mondiale dei farmaci generici.

Indossando felpe verdi sulle quali si poteva leggere “Free Palestine” e “Boycott Israel”, degli attivisti incitavano i consumatori a non acquistare farmaci prodotti dalla Teva.

L’azione si inseriva nel quadro del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), una campagna mondiale di boicottaggio economico, culturale e scientifico di Israele, allo scopo di ottenere la fine dell’occupazione e della colonizzazione israeliana dei territori palestinesi.

Teva non è coinvolta in un conflitto geopolitico, etnico o religioso e queste azioni compromettono la sua attività economica”, commenta Frédéric Jeannin, avvocato della società farmaceutica.

Con il suo apporto finanziario allo Stato di Israele, questo gigante farmaceutico contribuisce al finanziamento delle operazioni militari a Gaza e allo sviluppo della colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme est, in spregio dei diritti del popolo palestinese e delle risoluzioni internazionali, in totale impunità! Fare appello al boicottaggio nei suoi confronti è quindi necessario”, ha spiegato di rimando Olivia Zemor al Courrier de l’Atlas [giornale francese specializzato in problemi del mondo arabo in Europa, ndtr.].

Commistione pretestuosa

Il suo sito, Europalestine, ha anche accusato SLE, la filiale di Teva responsabile dello stoccaggio e della distribuzione dei vaccini contro il COVID-19, di consegnare i vaccini in Cisgiordania solo ai coloni.

Dei cinque milioni di dosi stoccate nello scorso gennaio, Teva, il cui senso etico si evince dalle sue numerose condanne per corruzione e condotta negligente nei confronti dei pazienti, non ha trovato modo di consegnarne ai palestinesi, compresi i circa 30.000 che lavoravano in Israele come manodopera a buon mercato, principalmente nel settore edilizio”, scrive Europalestine.

Per la cronaca, questa causa, che avrebbe inizialmente dovuto essere portata in giudizio al tempo del primo confinamento, giunge in tribunale dopo che lo scorso giugno la Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) ha condannato la Francia per la sua sentenza contro militanti filopalestinesi in una causa analoga (si erano introdotti in un supermercato in Alsazia per invitare al boicottaggio dei prodotti israeliani).

Il proseguimento di questo procedimento giudiziario è tanto più scandaloso in quanto la Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), con un’importante sentenza emessa l’11 giugno 2020, precisa che ‘l’azione di appello al boicottaggio per contestare la politica di uno Stato si configura come espressione politica e militante e riguarda un argomento di interesse generale’, nella misura in cui non implica conseguenze di violenza e odio o intenzioni razziste”, ha ricordato l’Associazione di Solidarietà franco-palestinese. La CEDU aveva ritenuto che i fatti “si configuravano come espressione politica e militante”.

Spero che i giudici di Lione sapranno applicare la legge, senza lasciarsi influenzare, leggendo con attenzione la sentenza della CEDU che afferma che le nostre azioni non costituiscono discriminazione”, afferma Olivia Zemor, per la quale la Francia è il solo Paese al mondo che mette sotto processo militanti che denunciano la politica di annessione e di apartheid di Israele.”

Eric Dupond-Moretti (Ministro della Giustizia) non chiede solo ai magistrati di condannarci penalmente, ma auspica anche che ci vengano imposte dei “corsi sulla Shoah”. Si vede bene qui la commistione pretestuosa che viene creata tra la difesa legittima dei diritti dei palestinesi e l’antisemitismo, che è un reato e va combattuto. È la politica di colonizzazione di Israele che genera l’antisemitismo e che mette in pericolo gli ebrei di ogni Paese”, ha denunciato Olivia Zemor sul Courrier d’Atlas.

Anche tre associazioni di difesa di Israele e di lotta contro l’antisemitismo si sono costituite parte civile a sostegno di Teva in questa causa.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Che cosa sta costruendo Israele nel sito nucleare di Dimona?  

Richard Silverstein

5 marzo 2021 – Middle East Eye

Foto satellitari suggeriscono che la costruzione prosegue da due anni, mentre Netanyahu continua a raffigurare l’Iran come il cattivo del Medio Oriente.

Una ONG internazionale impegnata contro la proliferazione di armi nucleari ha recentemente diffuso immagini satellitari che mostrano che Israele, per la prima volta da decenni, sta effettuando nuove costruzioni nel proprio sito nucleare di Dimona. Il reattore del sito, che divenne attivo dalla metà degli anni Sessanta, produce plutonio come combustibile per  l’arsenale nucleare israeliano, che si ritiene ammonti a ottanta testate.

 

Gli scavi hanno suscitato la curiosità degli esperti nucleari e delle agenzie di intelligence di tutto il mondo. Dal momento che il reattore di Dimona ha ormai da tempo superato la vita operativa prevista, alcuni hanno ipotizzato che Israele stia costruendo un nuovo reattore a plutonio.

Ciò però pare improbabile, perché questo elemento ha una lunga durata e Israele ne ha già prodotto a sufficienza per le proprie esigenze presenti e future.

 

Alcuni hanno avanzato l’ipotesi che il reattore esistente sia sostanzialmente disattivato oppure in fase di smantellamento.

Se ad Israele non serve un nuovo reattore per sostituire quello vecchio, allora che altro potrebbe costruire nel sito? In una recente intervista all’Associated Press, Daryl Kimball, direttore esecutivo della Arms Control Association di Washington [organizzazione fondata nel 1971, con la missione autoproclamata di “promuovere la comprensione pubblica e il sostegno a efficaci politiche di controllo degli armamenti”, ndtr], ha segnalato un altro elemento cruciale per le testate nucleari: il trizio. Questo è un isotopo di idrogeno usato per aumentare la potenza delle testate nucleari; inoltre esso rende la reazione esplosiva più efficace, diminuendo quindi la quantità necessaria di combustibile (di plutonio, nel caso di Israele).

 

Il trizio ha consentito progressi nella progettazione di armi, inclusi piccoli ordigni con una maggiore potenza esplosiva. Esso viene utilizzato anche nelle bombe ai neutroni, che sono costruite per uccidere esseri umani ma hanno un raggio ridotto di esplosione. Kimball ha dichiarato all’Associated Press che Israele “potrebbe avere l’intenzione di produrre più trizio, un sottoprodotto radioattivo con un tempo di decadimento relativamente più breve che viene utilizzato per aumentare la potenza esplosiva di alcune testate nucleari”.

Il trizio, come il plutonio e altre sostanze, è prodotto nei reattori nucleari. Può essere realizzato tramite irradiazione del metallo di litio. L’isotopo è meno stabile del plutonio, di conseguenza occorre reintegrarlo più frequentemente per poterlo usare in un arsenale nucleare.

 

Se il vecchio reattore di Dimona deve essere dismesso, come ha ipotizzato Avner Cohen, uno dei maggiori esperti in ambito nucleare, allora Israele avrebbe bisogno di una nuova fonte per produrre il trizio. Forse si sta costruendo un reattore specificamente per tale proposito.

Se si analizzano le foto satellitari, parrebbe che la costruzione sia iniziata tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, vale a dire che i lavori procedano da circa due anni. Le immagini più recenti mostrano per lo più degli scavi, ma ancora nessun edificio ultimato.

Come mai questa lentezza? Potrebbe essere segno di indecisione fra i governanti su quando e se chiudere il vecchio reattore, oppure di limiti di bilancio che impediscono di procedere più velocemente con la costruzione.

 

Il vero pericolo nucleare

Ma perché quelle immagini sono divenute pubbliche solo ora, dopo due anni di costruzione? Dato il conflitto incombente fra Israele e il presidente degli USA Joe Biden sulla ripresa dei negoziati sul nucleare con l’Iran, è possibile che l’amministrazione USA voglia ricordare al mondo dove sta il vero pericolo nucleare – non certo in Iran.

Se la costruzione ha a che fare con la produzione di trizio, questo indicherebbe che Israele non sta costruendo una nuova classe di armi nucleari, quali le armi ipersoniche millantate dal Presidente russo Vladimir Putin – non a Dimona, perlomeno. Piuttosto Israele sta probabilmente perfezionando l’efficacia dell’arsenale esistente.

 

Il vero paradosso del progetto di Dimona sta nel fatto che nessuno mette in dubbio che Israele abbia diritto a produrre armi nucleari o ad aumentare la letalità del proprio arsenale. Fare uno scavo grande come un campo da football per costruire Dio-solo-sa-cosa? Faccia pure. Ma al contrario, se soltanto una singola particella di uranio dovesse cadere in una zona proibita dell’Iran, l’intera comunità internazionale darebbe inizio ad un coro di biasimo denunciando che Teheran sta per provocare una catastrofe nucleare.

Perché questo doppiopesismo? Perché il mondo crede che Israele abbia diritto ad avere questo immenso arsenale e che lo gestirà in modo responsabile, mentre l’Iran non ha diritto ad avere neppure un’arma – e che se dovesse comunque crearne una, farebbe saltare in aria il mondo intero? Che cosa ha mai fatto Israele per meritare tanto credito, e che cosa ha mai fatto l’Iran di tanto nefando per meritarsi tanta esecrazione?

Tenere in scacco i nemici

In uno scambio di messaggi su Facebook con Cohen, questi ha definito Benjamin Netanyahu come il premier israeliano più “entusiasta del nucleare” dai tempi di David Ben-Gurion, fondatore del programma nucleare nazionale. Netanyahu ha mostrato ancora più interesse nel progetto nucleare e ha fatto numerosi discorsi, sia a Dimona sia di fronte alla vicina tomba di Ben Gurion a Sde Boker [kibbutz nel deserto del Negev nel sud d’Israele che fu la casa di David Ben Gurion, ndtr] minacciando di distruzione nucleare l’Iran.

 

Da questo non consegue automaticamente che sia più probabile che Netanyahu usi tali armi rispetto ai precedenti primi ministri. Significa che egli considera fondamentale per Israele disporre di una credibile deterrenza nucleare per tenere in scacco i nemici. Questo è un elemento chiave della strategia geopolitica di Israele, una forma di proiezione di potenza e una garanzia di dominio nella regione mediorientale. Respinge la minaccia delle forze ostili di Iran, Siria e Iraq. In passato l’allora primo ministro Menachem Begin ordinò un attacco contro un reattore nucleare iracheno e l’ex primo ministro Ehud Olmert ordinò un attacco contro un reattore nucleare che la Siria stava costruendo nella sua zona desertica orientale.

 

Probabilmente l’ossessione di Netanyahu nei confronti del programma nucleare iraniano deriva dal non voler diventare il primo leader israeliano a permettere ad un nemico arabo [in realtà l’Iran non è un paese arabo, ndtr] di entrare nel club nucleare.

Nel corso dell’ultimo decennio USA e Israele hanno giocato al poliziotto buono-poliziotto cattivo nei confronti della minaccia nucleare iraniana. I presidenti USA hanno impiegato una combinazione di sabotaggio segreto e diplomazia pubblica per portare avanti una politica di contenimento dell’Iran, mentre Israele ha talvolta spinto per un vero e proprio attacco militare.

Insieme hanno collaborato a distruggere le centrifughe di uranio mediante il malware Stuxnet [virus informatico il cui scopo era il sabotaggio delle centrifughe della centrale nucleare iraniana di Natanz, ndtr]

 

Però, nonostante le pressioni di Netanyahu, gli USA non sono mai stati disponibili a partecipare ad un attacco contro l’Iran. La domanda è se il leader israeliano darà prova di moderazione oppure se testerà la fermezza di Biden e l’impegno iraniano a negoziare continuando ad assassinare scienziati nucleari ed a compromettere in altri modi un approccio di tipo politico-diplomatico nei confronti della crisi.

Biden ha imparato dalle esperienze pregresse dell’ex presidente Barack Obama a non fidarsi di Netanyahu. Non è una posizione invidiabile doversi guardare sia dal proprio nemico (l’Iran) sia dal proprio alleato.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Richard Silverstein

Richard Silverstein è autore del blog Tikun Olam, dedicato a smascherare gli eccessi dello Stato di Israele in materia di sicurezza nazionale. I suoi lavori sono stati pubblicati da Haaretz, Forward,  Seattle Times e Los Angeles Times. Ha scritto per la raccolta di saggi dedicati alla guerra in Libano del 2006, “A Time to Speak Out” [Il momento di denunciare a voce alta] (Verso) e ha scritto anche un saggio per la raccolta “Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood” [Israele e Palestina: prospettive alternative di statualità] (Rowman & Littlefield).

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




Israele: migliaia di palestinesi non registrati temono la deportazione e la separazione dalle loro famiglie

Shatha Hammad

2 marzo 2021 – Middle East Eye

Molti vivono come in ‘una doppia prigione’ perché Israele continua a negare loro carte di identità, una politica rafforzata dopo lo scoppio della Seconda Intifada

La paura di essere deportata perseguita costantemente la cinquantenne Anna Morales. Per tutti i 23 anni durante i quali è vissuta in Palestina, questa madre di 6 figli non è riuscita ad ottenere un documento di residenza.  

Anna è un’americana che negli Stati Uniti ha incontrato e sposato Mohammad al-Mashni, ora deceduto.

Nel 1997 la coppia decise di stabilirsi in Palestina, dopo che Anna aveva ricevuto un permesso israeliano di ingresso nel Paese. Mentre all’epoca il marito non aveva una carta di identità palestinese, egli era poi riuscito a ottenerne una nel 2005, così come i loro sei figli.

Invece la domanda di Anna è stata respinta e lei continua a rimanere in Palestina illegalmente, secondo la legge israeliana. 

Anna vive con i sei figli nel villaggio di Surda, vicino a Ramallah nella Cisgiordania occupata. Suo marito è morto nel 2015 e lei è preoccupata per i figli e il loro futuro. 

Non si allontana dal villaggio se non in rarissime occasioni e non esce mai dal governatorato di Ramallah, per paura di attraversare i checkpoint israeliani, dove è necessario essere identificati. 

Vivo con una paura costante. Paura di essere deportata, paura di essere separata dai miei figli, paura di lasciarli da soli,” dice Anna a Middle East Eye

Non solo Anna non può lasciare Ramallah, ma, da quando è arrivata, non ha neanche potuto viaggiare all’estero.

“Mia madre è mancata senza che io potessi vederla per dirle addio. I miei fratelli si sono sposati e hanno avuto figli e in tutti questi anni non ci siamo mai ritrovati,” continua. 

Anna afferma che, anche se è vero che lei potrebbe trasferirsi negli USA con i figli, “noi amiamo la Palestina e le siamo leali e ci rifiutiamo di andarcene senza poter ritornare. Questo è il motivo per cui oggi sono ancora qui e soffro perché non posso ottenere un documento”.

Nel 2020 ha ricevuto una sentenza di deportazione dal tribunale israeliano che fa riferimento alla sua presenza illegale in Palestina per 23 anni. Anna e i suoi avvocati sono riusciti a bloccare temporaneamente l’ordine di deportazione. 

Tutti i palestinesi vivono in una grande prigione costruita da Israele. Quelli di noi che non hanno la carta di identità e quelli che sono a rischio di deportazione vivono in una doppia prigione,” dice. 

Anna è una delle migliaia di persone che vivono in Palestina in attesa di una carta di identità che Israele rifiuta di concedere dopo aver bloccato il processo di “ricongiungimento familiare” e le visite alle famiglie allo scoppio dell’Intifada di al-Aqsa, o Seconda Intifada, nel 2000. 

Prima Israele concedeva documenti di identità basandosi su procedure complesse che richiedevano molti anni, mentre molte domande venivano respinte, con il pretesto della sicurezza. 

L’ultimo lotto di documenti è stato rilasciato nel 2009, estendendo nel 2020 per un altro anno la proibizione del ricongiungimento delle famiglie. 

Noi vogliamo i documenti di identità’

Nonostante i rischi che affrontano per parlare ai media e alzare la loro voce su questo argomento, un gruppo di donne ha cominciato a rompere il silenzio fondando un movimento chiamato “Il Ricongiungimento Familiare È Un Mio Diritto”. Sono state attive sui social e nell’organizzare proteste. 

Davanti all’Autorità Generale Palestinese per gli Affari Civili a Ramallah, l’ente responsabile per far pressione su questo argomento e occuparsene presso le autorità israeliane, le attiviste scandivano: “Vogliamo i documenti di identità, vogliamo i documenti di identità.” L’arrivo delle donne a Ramallah da varie zone e città ha comportato un grande rischio personale. 

Nour Hijaji, una signora di 42 anni di origini tunisine, è andata alla protesta di Ramallah dal suo villaggio di Mas-ha, vicino alla città di Salfit, nel nord della Cisgiordania, per richiedere l’approvazione per la richiesta di ricongiungimento familiare che aveva presentato 13 anni fa. 

Dice a MEE che cinque anni dopo aver presentato la domanda di ricongiungimento famigliare è arrivata in Palestina nel 2013 dopo aver ottenuto un permesso valido solo per un mese.

L’attesa è stata più lunga di quanto mi aspettassi e speravo che la mia presenza in Palestina avrebbe fatto avanzare la pratica e ottenere una risposta, ma non è successo niente,” afferma. 

Durante la sua permanenza in Cisgiordania, Nour è diventata mamma di quattro figli, che hanno tutti documenti palestinesi. Lei si sposta a proprio rischio e non esce da Mas-ha eccetto che per motivi urgenti, il che le rende impossibile portare i figli in altre zone per motivi familiari, per divertimento o per altre ragioni. 

Dice a MEE che la sua esistenza l’ha lasciata priva di molti diritti fondamentali e sussidi, i più importanti dei quali sono l’assistenza sanitaria, guidare un veicolo o andare in altre parti della Palestina o all’estero.

“L’ostacolo maggiore che abbiamo è che non possiamo muoverci. Io non ho visitato [altre città] come Betlemme o Hebron. Questo per me è diventato un sogno.”

“Oggi siamo venuti tutti a Ramallah per consegnare il nostro messaggio alle autorità, in particolare a quelli che trattano con Israele. Noi chiediamo anche perché molti altri problemi non sono risolti, perché il tema del ricongiungimento famigliare non viene sollevato o non se ne parla,” aggiunge.

Separare le famiglie palestinesi  

Il blocco del ricongiungimento familiare attuato da Israele riguarda non solo quelli che si sono trasferiti qui dall’estero con i propri mariti o le proprie mogli, ma anche i discendenti di rifugiati palestinesi, i palestinesi che vivono a Gaza o in Cisgiordania che si sposano fra di loro e i palestinesi di Gerusalemme che sposano individui di una di queste aree.

Il controllo di Israele sul registro della popolazione palestinese significa in effetti che può decidere a chi concedere la cittadinanza in Palestina, chi è consentito sposare e dove la coppia ha il permesso di vivere. 

Secondo gli accordi di Oslo del 1993 la Cisgiordania e la Striscia di Gaza costituiscono una singola entità territoriale, per cui gli abitanti e le famiglie naturalmente dovrebbero avere il diritto di spostarsi tra l’una e l’altra. Invece le restrizioni di Israele comportano che le famiglie divise tra le due aree possono solo farsi visita l’un l’altra in casi “umanitari” eccezionali e non possono spostarsi o cambiare indirizzo in nessuna delle due zone. 

Dati ufficiali sui numeri di casi di ricongiungimento famigliare in sospeso sono scarsi e difficili da ottenere, ma si stimano in decine di migliaia. Secondo una relazione congiunta di gruppi per i diritti umani israeliani fra il 2000 e il 2006, ci sono state almeno 120.000 richieste di ricongiungimento familiare che Israele si è rifiutato di prendere in esame, eccetto per una manciata di casi. 

Imad Qaraqra, addetto alle pubbliche relazioni presso l’Autorità Generale Palestinese per gli Affari Civili, afferma di considerare il tema del ricongiungimento famigliare in cima alla lista delle sue priorità.

“Noi non sappiamo quando Israele potrà dare l’approvazione a questo dossier, ma noi lo chiediamo come uno dei nostri diritti,” dice a MEE

Aggiunge che fra il 2007 e il 2009, prima che Israele interrompesse completamente la procedura, l’ANP riusciva a ottenere l’approvazione di circa 52.000 domande di ricongiungimento familiare.

Helmy al-Araj, direttore del Centro per la Difesa delle Libertà e dei Diritti Civili, dice a MEE che privare le famiglie palestinesi della possibilità di vivere insieme e negare il loro diritto alla cittadinanza e residenza è una forma di punizione collettiva da parte di Israele.

Afferma che questa pratica costituisce un crimine di guerra, viola vari trattati, incluse la Quarta Convenzione di Ginevra, la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali. 

Gli individui privati di un documento di identità, dice, vivono in una condizione di arresti domiciliari e non possono esercitare il loro diritto basilare alla libera circolazione, per timore di essere deportati, il che costituisce una “violazione dei loro diritti civili fondamentali”. 

Al-Araj dice che Israele sta usando questo tema umanitario per fare pressione sull’ANP e ricattarla. Per esempio, dice, dopo che l’anno scorso l’ANP aveva annunciato la sospensione del coordinamento sulla sicurezza con Israele, quest’ultimo aveva rifiutato di registrare decine di neonati, ai quali fu impedito di lasciare il Paese.

Ramzi Abedrabbo, 57 anni è un rifugiato palestinese di Gaza. Ha incontrato la moglie, una palestinese della Cisgiordania, in Giordania, dove viveva. Dopo la nascita dei loro 6 figli in Giordania, nel 2000 la famiglia si è trasferita in Cisgiordania.

Abedrabbo e tre dei loro figli hanno ottenuto i documenti di identità in seguito alla richiesta di ricongiungimento presentata dalla moglie, mentre non si è data risposta alle richieste degli altri tre, mettendoli in pericolo di essere deportati in qualunque momento.

Uno dei figli non registrati, la figlia, è sposata e ha 4 bambini, dice. 

Ramzi, che soffre di emiparesi, ha partecipato alle proteste a Ramallah, dove si è recato dal villaggio di al-Ram, vicino a Gerusalemme. Ha portato tutti i documenti che provano la legalità della sua presenza in Palestina e che dovrebbero valere per i figli.

 Parlando a MEE, Ramzi afferma: “Dove andranno i miei figli se li deportano? La Giordania non li accetterà, né nessun altro Paese perché non hanno nessun altro documento.”

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il razzismo diffuso tra i giovani israeliani, in base a uno studio

Redazione di MEE

23 febbraio 2021 – Middle East Eye

Secondo l’università ebraica di Gerusalemme il 66% degli ultraortodossi, il 42% degli israeliani religiosi e il 24% dei laici “odiano gli arabi”, cioè la comunità palestinese che costituisce il 20% della popolazione israeliana

Un ampio studio dell’Università Ebraica di Gerusalemme rivela nella maggioranza degli adolescenti di diversi ambienti della società israeliana un razzismo generalizzato e una fede negli stereotipi.

Secondo Haaretz questo studio, condotto dal Centro aChord, aveva l’obbiettivo di stilare una “mappa dell’odio” in Israele e tra maggio e giugno 2020 ha contattato 1.100 giovani di età tra i 16 e i 18 anni (tra cui cittadini palestinesi di Israele, israeliani laici, israeliani ebrei religiosi e ultraortodossi).

Questo studio mostra che il 66% degli ultraortodossi, il 42% degli israeliani religiosi e il 24% dei laici “odiano gli arabi”, cioè la comunità palestinese che costituisce il 20% della popolazione israeliana e fa parte della Knesset (il Parlamento israeliano) e delle istituzioni governative.

Lo studio indica inoltre che il 49% degli israeliani religiosi e il 23% dei laici sono favorevoli all’idea di privare del diritto di voto i palestinesi cittadini di Israele. Quanto a questi ultimi, il 12% afferma di odiare i laici israeliani e il 22% di odiare gli israeliani religiosi e ultraortodossi.

Il 9% degli appartenenti alla comunità palestinese di Israele contattati nell’ambito dello studio dichiara di essere favorevole a privare gli israeliani laici del diritto di voto, il 13% sostiene la revoca del diritto di voto agli israeliani religiosi e il 19% afferma la stessa cosa riguardo alla comunità ultraortodossa.

Secondo lo studio, tra gli israeliani i livelli di odio variano. Tra i laici, il 7% ritiene che gli israeliani religiosi non dovrebbero votare alle elezioni e il 12% pensa che la comunità ultraortodossa dovrebbe essere privata del diritto di voto.

Inoltre il 23% degli israeliani laici dichiara di odiare la comunità ultraortodossa e l’8% esprime avversione per gli israeliani religiosi. Viceversa l’8% di questi ultimi afferma di odiare gli israeliani laici e il 10% di non gradire gli israeliani ultraortodossi.

Lo studio conclude che i giovani israeliani esprimono sentimenti e opinioni preconcette estremamente negative e non mostrano quasi nessuna disponibilità ad imparare a conoscere gli altri gruppi che fanno parte della società, che considerano marginali. 

Il Centro aChord, che si occupa di problemi sociali e psicologici per apportare un cambiamento nella società, riferisce che l’obbiettivo dello studio è quello di aprire la discussione sull’odio e di colmare la distanza tra le comunità e le fedi nel Paese attraverso il sistema educativo.

L’organizzazione chiede misure immediate per contrastare “l’intolleranza, l’odio e il rifiuto nei confronti dei giovani che sono diversi da loro.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




A questa famiglia palestinese vivere vicino alla moschea di Al-Aqsa costa molto caro

Aseel Jundi da Gerusalemme est occupata

20 febbraio 2021 – Middle East Eye

Da anni la famiglia Bashiti vive un ciclo senza fine di soprusi israeliani perché rifiuta di abbandonare la propria casa in posizione strategica

Mohammed Bashiti guida con estrema cautela la sua auto in via al-Wad, nella Città Vecchia di Gerusalemme. Al cartello di Bab al-Majlis [quartiere del centro storico di Gerusalemme, ndtr.] gira a destra verso la sua casa e parcheggia la macchina.

Bashiti si avvia con moglie e figlia verso un commissariato della polizia israeliana situato a destra dell’entrata della porta di Al-Aqsa ed entra in casa, solo a un metro dalla moschea di Al-Aqsa [principale edificio religioso della Spianata delle Moschee, ndtr.].

Mohammed, Binar e Baylasan sono gli unici membri della famiglia a cui è consentita questa parziale libertà di movimento. Gli altri tre figli, Hisham, Hatim e Abdul-Rahman, passano la maggior parte del loro tempo nelle prigioni israeliane, in centri di interrogatorio o agli arresti domiciliari.

Per capire le ragioni che stanno dietro queste continue vessazioni israeliane contro la famiglia è sufficiente entrare in casa, con le finestre e il cortile che si affacciano su Al-Aqsa.

Ma, poiché la famiglia conserva la proprietà rifiutandosi di venderla, le autorità israeliane hanno cercato di fare pressione su di loro provocando una difficoltà dopo l’altra, al punto che essi affermano di passare tutti i loro giorni a cercare di spegnere incendi.

I ragazzi Bashiti

Il figlio maggiore di Mohammed, il ventenne Hisham, è in prigione dall’ottobre scorso accusato di aver lanciato molotov contro forze di occupazione nella cittadina di Isawiya, nei pressi di Gerusalemme.

Si sono tenute udienze nei tribunali israeliani, ma non si è ancora raggiunto un verdetto.

Nel contempo il diciassettenne Hatim è stato il più fortunato tra i fratelli, in quanto quest’anno è riuscito a tornare a scuola e a prepararsi per la maturità.

Tuttavia continue angherie, compresi arresti, pongono ancora una minaccia alla sua istruzione e potrebbero spegnere i sogni di sua madre di vedere i figli con le uniformi di diplomati.

Il terzo figlio, Abdul-Rahman, un ragazzo di 16 anni affetto da diabete da quando ne aveva 4, recentemente è stato obbligato a lasciare la sua casa a Gerusalemme in seguito ad accuse poco chiare e attualmente è agli arresti domiciliari nella cittadina di Shuafat, a nord di Gerusalemme.

I servizi segreti israeliani hanno chiesto che i genitori rimangano con lui giorno e notte. Se devono andare nella Città Vecchia, la nonna rimane con lui finché non tornano. Mohammed, 46 anni, parla con Middle East Eye nella piccola casa di Gerusalemme per la quale la sua famiglia sta pagando un prezzo così alto per rimanervi.

Egli afferma che la causa principale che sta dietro tutto questo calvario è la posizione strategica della casa, con vista sulla moschea, oltre al rifiuto della famiglia di prendere in considerazione offerte allettanti perché lascino la proprietà.

Mohammed afferma che la sua famiglia ha delle proprietà nel quartiere di al-Sharaf, che è stato sotto il controllo di Israele dall’occupazione di Gerusalemme est nel 1967.

Nel 2004 denunciò il ministero israeliano degli Affari Religiosi chiedendo la restituzione delle sue proprietà confiscate, una delle quali era stata trasformata in una sinagoga.

Mohammed sostiene che i lavori di ristrutturazione della sinagoga vennero bloccati da un ordine del tribunale perché, riguardo a questa specifica proprietà, essa è effettivamente registrata a nome della famiglia Bashiti, come dimostra il catasto israeliano.

Tuttavia, date le spese elevate della causa e l’enorme pressione che la famiglia ha dovuto affrontare in mancanza di un qualunque appoggio ufficiale da parte palestinese, i Bashiti non ebbero altra scelta che rinunciare a proseguirla.

In seguito alla causa in tribunale le autorità dell’occupazione israeliana accentuarono la pressione su Mohammed ed iniziarono a fare irruzione più spesso nella sua casa di Gerusalemme.

Quando Hisham compì i 13 anni l’esercito israeliano iniziò a vessarlo, come è in seguito avvenuto ad Hatim e Abdul-Rahman.

“I miei tre figli e la loro sorella Baylasan non hanno mai goduto di un’infanzia pacifica,” afferma Mohammed. “Al contrario, la loro infanzia è stata segnata da irruzioni, incursioni, arresti, botte, tortura, separazione e arresti domiciliari. Le autorità dell’occupazione israeliana intendono piegarli perché vanno regolarmente a pregare nella moschea di Al-Aqsa e hanno un buon rapporto con la popolazione della Città Vecchia, una cosa che all’occupazione non piace.”

Un sacco di debiti

Fra le altre ragioni dei maltrattamenti c’è il ruolo della famiglia nella rivolta di Gerusalemme est nell’estate 2017, quando le autorità israeliane installarono metal detector e porte elettriche agli ingressi di Al-Aqsa.

I ragazzi della famiglia Bashiti appoggiarono i manifestanti che tenevano sit-in alla porta di Al-Nather, fornendo loro coperte, cibo ed acqua. Sorvegliarono e ripulirono anche la zona prima del sit-in del giorno successivo.

Mohammed lavora come badante di un anziano, ma qualche mese fa ha anche preso il lavoro di Hisham come guardia giurata per garantirgli uno stipendio mentre è in prigione. I debiti del padre aumentano di giorno in giorno.

A ogni nuovo arresto o separazione, deve pagare multe, soldi per la cauzione e costi legali, oltre a un sacco di altre spese che lo hanno oberato.

Mohammed è preoccupato di come riuscirà a far fronte ai debiti che deve rispettare e sta continuamente cercando nuovi garanti ogni volta che ha bisogno di soldi.

Ormai da anni passa la maggior parte del suo tempo in tribunali e in centri di interrogatorio, in carcere e in banca per cercare prestiti che lo aiutino ad affrontare le spese per gli arresti dei suoi figli. “Ho un armadio pieno di documenti riguardanti gli arresti dei miei tre figli, in cui ci sono decisioni del tribunale, ordini di arresto, ispezioni domiciliari, ammende e onorari,” afferma. “Ma semmai ciò non fa che aggiungere ancora più determinazione e risolutezza a rimanere in questa casa attigua a uno dei luoghi più sacri al mondo.”

L’undicenne Baylasan è seduta vicino a suo padre Mohammed. Mentre gioca con uno dei suoi giocattoli prima che tornino a Shuafat per rispettare l’ordine di risiedere con Abdul-Rahman, ascolta con attenzione quello che lui dice.

Fin dalla prima infanzia Baylasan ha assistito alle persecuzioni israeliane contro la sua famiglia, compresa la detenzione di suo padre e i continui arresti dei suoi fratelli, che sembrano non finire mai.

“Solo da poco ho iniziato ad accettare l’invito alla preghiera del muezzin della moschea di Al-Aqsa, perché per anni ho collegato la sua voce al momento in cui l’esercito attacca la nostra casa e arresta uno dei miei fratelli,” dice Baylasan a MEE.

“Ogni volta che compro vestiti nuovi da mettermi per un picnic con la famiglia o per andare da qualche parte ciò non avviene. Ora mi compro vestiti nuovi per andare a visitare mio fratello Hisham in prigione, dato che è diventata l’unico posto in cui vado.”

Baylasan parla della sua esperienza con l’esercito e i servizi segreti l’hanno perquisita mentre lei ripeteva loro che era lì da sola e non c’era nessun altro da arrestare.

“I colpi alla porta erano terrificanti e ho dovuto aprire. All’inizio ho cercato di controllarmi, ma quando è entrata mia madre ho perso il controllo ed ho iniziato a piangere in modo isterico,” dice.

“Spero che potrò vivere una vita pacifica come una qualunque bambina ovunque nel mondo, perché gli attacchi e le perquisizioni alla nostra casa e gli arresti dei miei fratelli mi terrorizzano e turbano il mio percorso educativo.” 

Mentre suo marito parla, Binar, sua moglie, ascolta in modo composto, ma la sua voce si rompe mentre parla degli anni di vessazioni contro i suoi ragazzi, soprattutto quando menziona il figlio malato, Abdul-Rahman, che è stato arrestato 20 volte in un anno. La scena della sua ultima detenzione è ancora vivida nella sua mente.

Abdul-Rahmam è stato arrestato all’alba del 4 gennaio mentre lui, suo fratello Hatim e due loro amici stavano mangiando sul tetto della casa. Il reparto Yamam della polizia, un’unità antiterrorismo, ha fatto irruzione nella casa e Binar ha sentito le parole “state fermi lì”.

Allora è corsa fuori e ha trovato i quattro giovani a terra e ammanettati, e Abdul Rahman le ha chiesto di dargli dell’acqua e il kit per il diabete. Dopo l’arresto Abdul-Rahman è stato trasferito in ospedale.

In seguito i suoi genitori hanno saputo dal medico di turno che era arrivato dal centro di interrogatorio a Gerusalemme est in uno stato molto grave, che avrebbe potuto portarlo a perdere la vista, in coma o persino alla morte.

Il figlio è rimasto in isolamento per 20 giorni prima di essere rilasciato e messo agli arresti domiciliari, dove in qualunque momento potrebbe essere convocato per essere interrogato. Durante l’ultima detenzione Abdul-Rahman ha perso 10 kg.

Benché Binar sia estremamente preoccupata per il peggioramento delle condizioni di Abdul-Rahman, è ancora più preoccupata per il maggiore, Hisham, negli ultimi quattro mesi detenuto nel carcere di Majedo.

Hisham è stato arrestato a Isawiya dal Mustaribeen, un’unità d’élite israeliana in borghese che si finge palestinese. È stato duramente picchiato e di conseguenza è stato ricoverato in ospedale per tre giorni prima di essere spostato in una cella per gli interrogatori, dove è rimasto 45 giorni.

Quando è andata a visitarlo la prima volta, Hisham ha detto a sua madre: “Durante l’arresto non ho visto niente. Ho solo sentito aprirsi le portiere dell’auto dei Mustaribeen e armare le pistole, pronte a fare fuoco.

“Sono stato gravemente ferito e mi sono svegliato in ospedale.”

Binar dice che tutto quello che spera è avere una vita stabile con tutti i membri della sua famiglia sotto lo stesso tetto e che le autorità israeliane smettano di perseguitare i suoi figli ad ogni minimo segno di disordini, persino quando si dà il caso che in quei momenti siano lontani dalla Città Vecchia.”

Detenuti palestinesi

Anche Muhammad Mahmoud, l’avvocato che rappresenta i ragazzi Bashiti, pensa che la ragione che sta dietro al fatto che questa famiglia sia presa di mira sia la collocazione strategica della loro casa. Le autorità israeliane stanno cercando di spingere il padre alla disperazione con l’intento di obbligarlo ad accettare di abbandonare la sua casa, afferma.

“A un’udienza per il caso di Abdul-Rahman erano presenti un rappresentante del servizio segreto di Gerusalemme, il consigliere giuridico dello Shabak (Il servizio di sicurezza interna di Israele) e il rappresentante incaricato della stanza quattro del centro di interrogatori,” dice Mahmoud.

“Per me era una situazione stridente e ridicola: tutti quegli ufficiali di alto rango erano venuti di persona per un ragazzino a chiedere la prosecuzione della sua detenzione.” Durante la sua carriera l’avvocato ha notato che gli investigatori israeliani evitano di tenere giovani detenuti in isolamento, salvo nei casi che considerano estremi, come presunti tentativi di accoltellamento.

Secondo Mahmoud questo fatto rende la detenzione di Abdul-Rahman in isolamento per un periodo così lungo un mistero e una violazione sia delle leggi israeliane che del diritto internazionale.

Alcune organizzazioni palestinesi, tra cui il Palestinian Prisoners Club [Centro per i Detenuti Palestinesi], la Commission of Detainees’ Affairs [Commissione per le Questioni dei Detenuti], il Prisoner Support [Appoggio ai Detenuti], la Human Rights Association [Associazione per i Diritti Umani] e il Wadi Hilweh Information Center [Centro di Informazione di Wadi Hilweh], hanno pubblicato insieme un rapporto in cui affermano che nel 2020 le autorità dell’occupazione hanno arrestato 4.634 palestinesi, tra cui 543 minorenni e 128 donne.

Gli ordini di detenzione amministrativa [cioè senza capi di imputazione né sentenze di condanna, ndtr.] emessi nello stesso periodo hanno raggiunto il numero di 1.114.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele: l’elezione del nuovo procuratore della CPI solleva interrogativi sull’inchiesta per crimini di guerra

Alex MacDonald

17 febbraio 2021 – Middle East Eye

Dirigenti israeliani hanno accolto con favore la nomina del britannico Karim Khan al vertice dell’istituzione

Questo articolo è stato modificato il 18 febbraio 2021 per eliminare una frase che affermava erroneamente che l’avvocato irlandese Fergal Gaynor compariva tra i firmatari di una lettera pubblicata su Irish Times nel 2009 che chiedeva l’espulsione dell’ambasciatore israeliano a causa del bombardamento di Gaza. In realtà la lettera fu firmata dal dr. Fergal Gaynor, un accademico del Collegio Universitario di Cork.

L’elezione dell’avvocato britannico Karim Khan a Procuratore capo della Corte Penale Internazionale (CPI) ha ancora una volta agitato lo spettro della “politicizzazione” dell’organizzazione e sollevato preoccupazioni riguardo a cosa potrà significare questa nomina per l’inchiesta sui presunti crimini di guerra di Israele e di Hamas.

L’avvocato cinquantenne, che precedentemente aveva condotto un’inchiesta dell’ONU su crimini dell’Isis in Iraq, è stato eletto venerdì a scrutinio segreto, dopo che gli Stati membri della CPI non sono arrivati ad un accordo sulla sostituzione del suo predecessore, Fatou Bensouda.

Il voto, senza precedenti nella storia di 23 anni dell’istituzione, ha visto Khan prevalere di poco sull’irlandese Fergal Gaynor.

Sulla stampa israeliana sono stati pubblicati articoli secondo cui dirigenti israeliani “hanno sostenuto dietro le quinte la candidatura di Khan” ed hanno accolto la sua elezione come una vittoria per Israele, benché il Paese non sia membro della CPI.

Probabilmente Khan si sente sotto pressione politica da parte di Israele dopo che a inizio febbraio la CPI ha annunciato di avere giurisdizione per investigare su presunti crimini di guerra da parte di israeliani e palestinesi nella Striscia di Gaza assediata e nella Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate.

L’inchiesta della CPI è stata approvata da Bensouda e non è ancora chiaro quale sarà la posizione di Khan in merito.

Il nuovo Procuratore capo della CPI deve ignorare le inevitabili pressioni politiche perché rinunci ad ogni possibile inchiesta formale su presunti crimini di guerra commessi nei territori occupati nel 1967 da qualunque parte”, ha detto a Midlle East Eye Chris Doyle, direttore del ‘Council for Arab-British Understanding’ (Consiglio per l’intesa arabo-britannica, ndtr.).

La questione deve essere definita sulla base della legge e delle prove. Niente dimostra che Karim Khan farà qualcosa di diverso.”

Un’inchiesta ‘antisemita’?

L’avvio dell’inchiesta su crimini di guerra è stato accolto con rabbia dai dirigenti israeliani, che l’hanno denunciata come ‘antisemita’.

L’inchiesta indagherà sulle violazioni commesse durante la guerra di 50 giorni nel giugno 2014, che causò l’uccisione di 2.251 palestinesi – per la maggior parte civili – e di 74 israeliani, quasi tutti soldati.

Viene avviata dopo 5 anni di istruttoria preliminare della CPI.

In seguito all’annuncio di inizio febbraio, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha denunciato che “una Corte creata per impedire atrocità come l’Olocausto nazista contro il popolo ebraico sta ora prendendo di mira l’unico Stato del popolo ebraico.”

Quando la CPI indaga Israele per falsi crimini di guerra, si tratta di puro antisemitismo”, ha detto.

Bensouda, che ha presieduto l’apertura dell’inchiesta su Gaza, è stata un bersaglio al vetriolo da parte di Israele. L’amministrazione Trump, in solidarietà con l’irritazione israeliana riguardo all’inchiesta della CPI, le ha imposto delle sanzioni.

Nel dicembre 2019 il quotidiano israeliano vicino a Netanyahu Yedioth Ahronot ha pubblicato un articolo intitolato “Il diavolo del Gambia e la Procuratrice dell’Aja”, in cui tentava di coinvolgere Bensouda in crimini commessi dall’ex presidente del Gambia Yahya Jammeh.

Israel Hayom, un altro quotidiano di destra, l’ha accusata di essere stata “consapevolmente irretita” dalla “strumentalizzazione del sistema giudiziario internazionale per realizzare l’obbiettivo diplomatico di distruggere lo Stato di Israele”.

Nel maggio 2010 il Ministro israeliano Yuval Steiniz ha detto che Bensouda aveva assunto una “tipica posizione anti-israeliana” relativamente alla CPI ed era determinata a “recare danno allo Stato di Israele e infangare il suo nome.” E a febbraio l’ex ambasciatore israeliano all’ONU Danny Danon l’ ha accusata di “ignorare Paesi che compiono terribili violazioni dei diritti umani.”

Se qualcuno deve stare sul banco degli imputati, questa è la Procuratrice capo della CPI Fatou Bensouda”, ha twittato.

Al momento, la nomina di Khan è stata accolta calorosamente da molti politici israeliani.

Il deputato Michal Cotler-Wunsh, un importante parlamentare israeliano che si occupa delle questioni della CPI, ha detto che Khan ha accolto “il potenziale della CPI di adempiere alla sua importante missione di sostenere, promuovere e proteggere i diritti di tutti coloro che hanno bisogno della sua esistenza in quanto tribunale di ultima istanza.”

Israel Hayom ha riferito che l’elezione di Khan potrebbe addirittura “portare dirigenti di Gerusalemme a riconsiderare il boicottaggio della CPI.”

Altri sono meno ottimisti. Funzionari che hanno parlato in forma anonima a Israel Hayom hanno detto che Khan dovrà ancora essere “giudicato in base alle sue azioni.”

Il fatto che altri si sono comportati male non significa che la sua scelta sia buona”, hanno detto.

Uno strumento politico’

Mentre Khan assumerà ufficialmente la carica di Bensouda a giugno, resta ancora da vedere se seguirà la strada di chi lo ha preceduto e continuerà l’inchiesta, o si piegherà alle pressioni politiche.

Da quando è nata nel 1998 la CPI ha sempre subito critiche perché è sembrato che si stesse concentrando eccessivamente sui Paesi in via di sviluppo africani, facendo invece poco per chiamare a rispondere delle proprie azioni Stati più potenti.

Il successo o il fallimento di un’inchiesta formale sulla guerra di Gaza potrebbe portare a dare o togliere credibilità all’istituzione.

Un’inchiesta formale dovrebbe essere annunciata e condotta con energia e giustizia. Mettere tutte le parti di fronte alle loro responsabilità per le proprie azioni è essenziale. È il modo più efficace per assicurare che simili crimini non saranno più consentiti in futuro”, ha detto Doyle.

Fallire in questo renderà la CPI agli occhi di molti un mero strumento politico delle grandi potenze piuttosto che il luogo della giustizia e della sanzione in difesa di quanti ne sono privati.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Vaccini anti Covid-19: Gaza riceverà il primo lotto del russo Sputnik V

MEE e agenzie

17 febbraio 2021 – Middle East Eye

Israele ha ammesso di aver ritardato la consegna di vaccino a Gaza per motivi politici

Mercoledì (17 febbraio) la striscia di Gaza assediata riceverà il suo primo lotto di vaccini anti Covid 19 la cui consegna era stata ritardata da Israele. 

Mille vaccini russi Sputnik V arriveranno dal valico di Betania fra la Cisgiordania occupata e Israele a Gaza al valico di Erez [tra Israele e Gaza, ndtr.].

I vaccini, donati dalla Russia, saranno somministrati al personale sanitario nel territorio assediato. 

All’inizio della settimana, Israele aveva ammesso di aver rallentato il trasferimento dei vaccini per motivi politici. 

Il Cogat, l’ente militare israeliano responsabile della gestione israeliana dei territori palestinesi occupati, ha detto all’agenzia AFP che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) aveva richiesto il trasferimento a Gaza di 1000 dosi di vaccino, ma che “questa richiesta è in attesa di una decisione politica”.

Citando fonti israeliane, l’AFP afferma che permettere il trasferimento dalla Cisgiordania a Gaza non è una semplice misura amministrativa di competenza del Cogat, ma piuttosto una decisione politica probabilmente legata alle trattative fra Israele e Hamas, il gruppo politico che di fatto governa la Striscia di Gaza dal 2007.

L’ANP ha anche accusato Israele di bloccare la consegna del vaccino dalla Cisgiordania dopo la sua richiesta di trasferimento a Gaza. 

Mai al-Kaila, la Ministra della Salute palestinese, ha detto che Israele ha la “totale responsabilità” per il blocco dell’invio.

“Oggi, 2.000 dosi dello Sputnik V, il vaccino russo, sono state trasferite per entrare nella Striscia di Gaza, ma le autorità dell’occupazione impediscono il loro ingresso” ha detto Kaila nella sua dichiarazione di lunedì. 

“Queste dosi erano destinate al personale medico che lavora in reparti di terapia intensiva per pazienti Covid-19 e a coloro che operano in quelli di emergenza.”

A quel che si dice solo metà delle 2.000 dosi sono state trasferite mercoledì a Gaza.

Consegne ritardate

All’inizio del mese, l’ANP ha cominciato a somministrare le prime vaccinazioni al personale sanitario in prima linea, attingendo a un iniziale approvvigionamento di 10.000 dosi del vaccino Sputnik V e anche alle dosi di Moderna fornite da Israele.

Ma il lancio del vaccino in Cisgiordania è stato ritardato dall’intoppo delle consegne.  

Comunque, L’ANP, che ha un limitato autogoverno nella Cisgiordania occupata, ha detto che condividerà la sua limitata fornitura di vaccino con l’enclave costiera.

Dall’inizio della pandemia a Gaza ci sono stati più di 53.000 casi e almeno 537 morti.

Israele, che sta portando avanti una delle campagne vaccinali più veloci al mondo pro capite, sta facendo i conti con critiche internazionali perché non ha condiviso le forniture di vaccini con i palestinesi che vivono nella Cisgiordania occupata e a Gaza sotto blocco israeliano. 

All’inizio del mese, dopo le critiche, Israele ha inviato all’ANP 5.000 dosi da somministrare nella Cisgiordania occupata, dove risiedono circa 3 milioni di palestinesi. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Esperti ONU chiedono a Israele di porre fine alla tortura e ai trattamenti inumani nei confronti dei palestinesi

Redazione MEE

9 febbraio 2021 – Middle East Eye

Un gruppo di esperti sui diritti umani afferma che Israele ha utilizzato ‘un pericoloso cavillo del sistema giudiziario israeliano’ per difendere l’uso della tortura

Esperti ONU sui diritti umani hanno chiesto a Israele di porre fine all’uso della tortura e di altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti, che, hanno sottolineato, è stato unanimemente vietato dal diritto internazionale, contro i palestinesi.

Israele dovrebbe “urgentemente e completamente rivedere, sospendere e/o abrogare la clausola della difesa per necessità applicata nelle indagini penali, e tutte le leggi, i regolamenti, le politiche e le prassi che autorizzano, giustificano, avallano o in qualunque modo comportano l’impunità per tali gravi violazioni dei diritti umani”, hanno affermato lunedì gli esperti in una dichiarazione.

Il gruppo di esperti di diritto – che include Stanley Michael Lynk, relatore speciale sui diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967 – ha affermato di essere allarmato per l’uso di “tecniche di interrogatorio potenziate” utilizzate dalle forze di sicurezza israeliane contro il palestinese Samer al-Arbeed.

Arbeed è stato arrestato nel 2019 in quanto sospettato di essere coinvolto in un attacco nella Cisgiordania occupata. Nel settembre 2019, dopo aver subito l’interrogatorio da parte del servizio interno di intelligence israeliano Shin Bet, è stato trasferito all’ospedale Hadassah di Gerusalemme in condizioni critiche. Soffriva di blocco renale e frattura delle costole.

Siamo allarmati perché Israele non ha perseguito, punito e posto rimedio alle torture e ai maltrattamenti perpetrati nei confronti di Mr. Al-Arbeed”, ha affermato il gruppo di esperti.

Occuparsi di simili violenze non è a discrezione del governo o della magistratura, ma costituisce un obbligo assoluto in base al diritto internazionale.”

Nel 1999 la Corte Suprema israeliana emise una sentenza che vietava tali torture. Tuttavia la legge contiene un cavillo per cui chi svolge gli interrogatori può difendere l’uso della forza quando ci sia il timore di un imminente attacco.

Gli esperti ONU hanno affermato che questa è “una difesa fuorviante” che consente l’impunità de facto agli israeliani che interrogano, anche quando le loro tecniche di interrogatorio si configurano come tortura o altre misure crudeli e inumane.

Secondo i dati raccolti dalla Commissione Pubblica contro la Tortura in Israele [Ong israeliana, ndtr.], dal 2001 sono state presentate oltre 1.200 denunce contro lo Shin Bet. Di tali denunce nemmeno una è giunta a processo.

Consentire a singoli agenti di avvalersi della ‘necessità di difesa’ contro le cause penali è un pericoloso stratagemma all’interno del sistema giudiziario israeliano, che di fatto giustifica l’interrogatorio coercitivo di persone sospettate di essere in possesso di informazioni su operazioni militari”, hanno sostenuto.

Gli esperti hanno inoltre detto che le vittime di tortura dovrebbero ricevere piena riabilitazione e totale risarcimento per quello che hanno subito.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

Sulla tortura e in particolare sul caso di Samer Abeed




La CPI (Corte Penale Internazionale) ha stabilito di avere l’autorità di indagare sui presunti crimini di guerra di Israele e di Hamas

Redazione di MEE

5 febbraio 2021 – Middle East Eye

Le conclusioni aprono la strada perché la procuratrice capo prosegua le indagini su presunti crimini di guerra commessi a partire dal bombardamento di Gaza da parte di Israele nel 2014.

Venerdì [5 febbraio 2021] i giudici della Corte Penale Internazionale (CPI) hanno stabilito di avere “giurisdizione territoriale” all’interno delle zone occupate da Israele dal 1967, aprendo la strada per una possibile indagine riguardo a presunti crimini di guerra.

Nel gennaio 2020 un collegio giudicante preliminare presso la corte con sede all’Aia è stato incaricato di stabilire l’ambito di competenza giurisdizionale della CPI riguardo a Israele e Palestina, posto che lo Stato di Israele, a differenza dell’Autorità Nazionale Palestinese, non è membro della CPI.

La Palestina ha…accettato di sottomettersi alle condizioni dello Statuto di Roma della CPI e ha il diritto di essere trattato come qualunque altro Stato membro per le materie riguardanti l’applicazione dello Statuto,” ha affermato venerdì la CPI in un comunicato.

Il primo ministro palestinese Muhammad Shtayyeh ha accolto positivamente la decisione, definendo la sentenza della CPI “una vittoria della giustizia e dell’umanità.” Ha anche chiesto alla corte di “accelerare le procedure giudiziarie” riguardo ai casi relativi ai palestinesi.

L’ambito giurisdizionale della CPI includerebbe le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, generalmente considerate illegali in base alle leggi internazionali.

La convenzione di Ginevra stabilisce che una potenza occupante non può trasferire legalmente parte della propria popolazione nel territorio che occupa, e nel 2004 la Corte Internazionale di Giustizia ha emanato un parere consultivo affermando che costruendo le colonie Israele ha violato i suoi obblighi in base alle leggi internazionali.

Israele ha tassativamente rigettato qualunque forma di giurisdizione della CPI sui propri cittadini.

L’iniziativa è stata contestata anche dagli USA, i più stretti alleati di Israele, che venerdì hanno affermato di essere “seriamente preoccupati riguardo ai tentativi della CPI di esercitare la propria giurisdizione sul personale israeliano.”

Una base ragionevole” per avviare un’indagine

La corte ha preso in considerazione la questione della giurisdizione territoriale dopo che la procuratrice generale, Fatou Bensouda, ha annunciato che esistevano i presupposti per aprire un’indagine complessiva riguardo a presunti crimini di guerra commessi all’interno dei territori occupati.

All’epoca Bensouda aveva sottolineato che, avendo stabilito che c’era “una base ragionevole per avviare un’inchiesta sulla situazione in Palestina,” era comunque necessario che prima la corte definisse la giurisdizione. La sua decisione era arrivata dopo cinque anni di indagini preliminari ed analisi delle prove.

Venerdì, pur notando che problemi di confine e questioni di sovranità non rientrano nell’ambito di competenza della corte, la CPI ha autorizzato Bensouda a procedere con un’indagine esaustiva.

Un’inchiesta complessiva della CPI potrebbe portare a incriminazioni di singole persone, ma non di Stati.

Ora si prevede che Bensouda inizi a indagare funzionari e politici israeliani e di Hamas riguardo a presunti crimini di guerra nei territori occupati a iniziare dal 2014, durante il quale i bombardamenti aerei israeliani contro la Striscia di Gaza provocarono la morte di 2.251 palestinesi, in maggioranza civili. Durante lo stesso periodo vennero uccisi anche 74 israeliani, quasi tutti soldati.

Nel 2015 un rapporto di una commissione ONU stabilì che durante il conflitto sia Israele che gruppi armati palestinesi potrebbero aver commesso crimini di guerra.

Il rapporto della Commissione per i Diritti Umani dell’ONU (UNHRC) affermò che, mentre sia israeliani che palestinesi erano stati “profondamente colpiti” dalla guerra, a Gaza “le dimensioni delle devastazioni erano state senza precedenti”. Sostenne che tra i morti c’erano 551 minori palestinesi e se ne contavano altre migliaia tra gli 11.231 feriti dalle azioni israeliane.

Tra gli israeliani che potrebbero essere indagati dalla CPI ci potrebbero essere: il primo ministro Benjamin Netanyahu, gli ex-ministri della Difesa Moshe Yaalon, Avigdor Lieberman e Naftali Bennett, gli ex-capi di stato maggiore delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] Benny Gantz e Gadi Eisenkot, l’attuale capo di stato maggiore Aviv Kochavi e sia l’ex che l’attuale capo del servizio di sicurezza interno Shin Bet, rispettivamente Yoram Cohen e Nadav Argaman.

Gli USA sanzionano funzionari della CPI

In giugno anche un gruppo di palestinesi della Cisgiordania occupata ha presentato una denuncia alla CPI, chiedendo un’indagine contro importanti politici israeliani e statunitensi che hanno autorizzato il piano “Pace verso la Prosperità” dell’ex-presidente USA Donald Trump.

All’epoca un rappresentante del gruppo ha affermato che c’erano “prove ragionevoli” in base alle quali importanti funzionari USA, compreso Trump, erano stati “complici di azioni che potrebbero rappresentare crimini di guerra riguardanti il trasferimento di popolazione nei territori occupati e l’annessione di territorio sotto la sovranità dello Stato di Palestina.”

Israele e gli USA sono due dei pochi Stati ad essersi opposti alla nascita della CPI, mentre 123 Paesi ne hanno accettato la giurisdizione.

A settembre gli Stati Uniti, sotto Trump, hanno imposto sanzioni contro Bensouda e Phakiso Mochochoko, un altro importante funzionario della procura, per le inchieste su Afghanistan e Palestina. All’epoca Trump sottolineò che la corte non aveva “giurisdizione sul personale degli Stati Uniti e di alcuni dei suoi alleati,” in riferimento ad Israele.

L’amministrazione Biden ha affermato che prevede di rivedere le sanzioni contro i funzionari della CPI. “Per quanto siamo in disaccordo con le azioni della CPI relative ai casi afghano e israelo-palestinese, le sanzioni saranno comunque riesaminate mentre decideremo i nostri prossimi passi,” ha affermato in un comunicato il portavoce del Dipartimento di Stato durante la prima settimana del mandato di Biden.

Il portavoce ha aggiunto che la nuova amministrazione appoggia riforme “che aiutino la corte a realizzare più efficacemente la propria principale missione di punire e scoraggiare atrocità” e in “casi eccezionali” potrebbe collaborare con la CPI.

In seguito alla decisione di venerdì, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha affermato che gli USA sono “seriamente preoccupati” riguardo ai tentativi della CPI di stabilire la propria giurisdizione su personalità israeliane.

Non crediamo che i palestinesi siano uno Stato sovrano e di conseguenza non sono legittimati a ottenere l’ammissione come Stato o a partecipare in tale veste ad organismi, entità o incontri internazionali, compresa la CPI,” ha affermato Price.

Gli Stati Uniti hanno sempre adottato la posizione secondo cui la giurisdizione della corte dovrebbe essere riservata ai Paesi che vi aderiscono o che sono indicati dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)