Analisi: le voci palestinesi ed ebree devono sfidare insieme il passato di Israele

image_pdfimage_print

Ramzy Baroud, 

24 aprile 2017, Ma’an News

Analisi: le voci palestinesi ed ebree devono sfidare insieme il passato di Israele.

Israele ha fatto ricorso a tre principali strategie per soffocare le richieste palestinesi di giustizia e diritti umani, compreso il diritto al ritorno per i rifugiati.

Una è dedicata a riscrivere la storia; un’altra tenta di sviare l’attenzione dalle varie situazioni nel loro complesso; una terza mira a rivendicare la narrazione palestinese come essenzialmente israeliana.

La riscrittura della storia ha visto la luce molto prima di quanto alcuni storici possano pensare. La macchina della hasbara (propaganda israeliana, ndtr.) israeliana si è messa in movimento quasi contemporaneamente al Piano Dalet (Piano D), che prevedeva la conquista militare della Palestina e la pulizia etnica dei suoi abitanti.

Ma l’attuale narrazione relativa alla “Nakba” – o “Catastrofe” – che ha colpito il popolo palestinese nel 1947 e 1948 è stata orchestrata negli anni ‘50 e ‘60.

In un articolo intitolato: “Il pensiero catastrofico: Ben Gurion ha cercato di riscrivere la storia?”, Shay Hazkani ha rivelato l’interessante processo attraverso cui il primo ministro di Israele, Ben Gurion, ha lavorato a stretto contatto con un gruppo di studiosi ebrei israeliani per sviluppare la versione degli eventi per descrivere ciò che avvenne nel 1947-48: la fondazione di Israele e la distruzione della Palestina.

Ben Gurion intendeva diffondere una versione della storia che coincidesse con la posizione politica di Israele. Aveva bisogno di “prove” per sostenere tale posizione.

Le “prove” alla fine sono diventate “storia” e non è stata permessa nessun’altra narrazione per contestare l’ appropriazione israeliana della Nakba.

Ha scritto Hazkani: “Probabilmente Ben Gurion non ha mai sentito il termine ‘Nakba’, ma ben presto, alla fine degli anni ’50, il primo Primo Ministro di Israele ha compreso l’importanza della narrazione storica”.

Il premier israeliano ha assegnato agli studiosi dipendenti dalla pubblica amministrazione il compito di confezionare una storia alternativa, che continua ancor oggi a permeare il pensiero israeliano.

Sviare l’attenzione dalla storia – o dall’attuale realtà della terribile occupazione della Palestina – è un’operazione che è durata per quasi 70 anni.

Dall’iniziale mito della Palestina come “terra senza popolo per un popolo senza terra” fino all’odierna pretesa che Israele sia un’icona di civiltà, tecnologia e democrazia, circondata da selvaggi arabi e musulmani, le distorsioni ufficiali da parte di Israele sono incessanti.

Perciò mentre i palestinesi si organizzano per commemorare la guerra del 5 giugno 1967, che ha portato, finora, a 50 anni di occupazione militare, Israele sta allestendo una grande festa, un’ imponente “celebrazione” della sua occupazione militare dei palestinesi.

L’assurdità non sfugge a tutti gli israeliani, ovviamente.

Uno Stato che celebra 50 anni di occupazione è uno Stato che ha smarrito la direzione ed ha perso la propria capacità di distinguere il bene dal male”, ha scritto l’opinionista israeliano Gideon Levy su Haaretz.

Che cosa c’è precisamente da celebrare, Israele? Cinquant’anni di spargimenti di sangue, di violenze, di depredazione e sadismo? Solo società che non hanno coscienza celebrano simili anniversari.”

Levy sostiene che Israele ha vinto la guerra del 1967, ma “ha perso quasi tutto il resto.”

Da allora, l’arroganza di Israele, il suo disprezzo per il diritto internazionale, “il perdurante disprezzo per il mondo intero, la presunzione e la prepotenza” hanno raggiunto livelli senza precedenti.

L’articolo di Levy si intitola: “La nostra Nakba.”

Levy non cerca di recuperare la narrazione palestinese, ma dimostra sinteticamente che i trionfi militari di Israele sono stati una disgrazia, specialmente perché non ne è seguito alcun senso di riflessione nazionale o tentativo di correggere le ingiustizie del passato e del presente.

Comunque il processo di rivendicazione del termine “Nakba” è stato perseguito astutamente dagli autori israeliani per molti anni.

Per quegli studiosi, “la Nakba ebraica” si riferisce agli ebrei arabi che sono arrivati nel nuovo Stato indipendente di Israele, in gran parte in seguito alla pressione dei dirigenti sionisti perché gli ebrei di tutto il mondo “facessero ritorno” alla patria biblica.

Un editoriale del Jerusalem Post lamentava che “la macchina propagandistica palestinese ha convinto l’opinione pubblica mondiale che il termine ‘rifugiato’ è sinonimo del termine ‘palestinese’.”

Facendo questo, gli israeliani che tentano di appropriarsi della narrazione palestinese sperano di creare un’equiparazione nel discorso, che ovviamente non corrisponde alla realtà.

L’editoriale fornisce la cifra di 850.000 “rifugiati ebrei” della “Nakba ebraica”, numero di poco superiore a quello dei rifugiati palestinesi espulsi dalle milizie israeliane al momento del processo di fondazione di Israele.

Fortunatamente, queste pretese in malafede sono sempre più smentite anche da voci ebraiche.

Poche, ma significative, voci tra gli intellettuali israeliani ed ebrei in tutto il mondo hanno il coraggio di riconsiderare il passato di Israele.

Si contrappongono giustamente a una versione della storia che è stata accettata in Israele e in Occidente come l’ indiscussa verità che sta dietro la nascita di Israele nel 1948, l’occupazione militare di ciò che rimaneva della Palestina nel 1967 ed altre circostanze storiche.

Questi intellettuali lasciano un segno nel discorso Palestina-Israele dovunque vadano. Le loro voci sono particolarmente significative nel contrastare le verità ufficiali e i miti storici israeliani.

Scrivendo su “Forward” [giornale della comunità ebrea di New York fondato nel 1897, ndtr.], Donna Nevel rifiuta di accettare che la discussione sul conflitto in Palestina abbia inizio con la guerra e l’occupazione del 1967.

Nevel critica i cosiddetti sionisti progressisti, che insistono nell’impostare la discussione solo sul problema dell’occupazione, limitando così ogni possibilità di soluzione alla “soluzione dei due Stati.”

Non solo questa “soluzione” è superata e non è praticamente possibile, ma la discussione esclude la “Nakba”, ossia “Catastrofe”, del 1948.

Ha scritto Nevel: “La Nakba non rientra in queste discussioni perché è la conseguenza e la più chiara manifestazione del sionismo. Chi ignora la ‘Nakba’ – cosa che hanno sistematicamente fatto le istituzioni sioniste ed israeliane – rifiuta di riconoscere il sionismo come illegittimo fin dall’inizio della sua realizzazione.”

Questa è esattamente la ragione per cui la polizia israeliana recentemente ha bloccato la “Marcia del Ritorno”, che i palestinesi svolgono ogni anno in Israele.

Per anni Israele ha temuto che un crescente movimento tra i palestinesi, gli israeliani ed altri nel mondo spingesse per un cambio di paradigma per comprendere le radici del conflitto in Palestina.

Questo nuovo modo di pensare è stato una conseguenza razionale della fine del “processo di pace” e dell’abbandono della soluzione dei due Stati.

Incapace di sostenere i suoi miti fondativi, non in grado nemmeno di offrire un’alternativa, il governo israeliano adesso sta usando misure coercitive per rispondere al nascente movimento: punire chi insiste nel commemorare la “Nakba”, sanzionare le organizzazioni che prendono parte a tali eventi, fino a perseguire come traditori gli individui ed i gruppi di ebrei che si discostano dalle posizioni ufficiali.

In questi casi la coercizione difficilmente funziona.

La Marcia (per il Ritorno) è rapidamente cresciuta di dimensione rispetto agli anni scorsi, nonostante le misure sempre più repressive delle autorità israeliane”, ha scritto Jonathan Cook su Al-Jazeera.

Sembra che 70 anni dopo la fondazione di Israele il passato ancora incomba pesantemente.

Fortunatamente alle voci palestinesi che si sono levate contro la narrazione ufficiale israeliana si sono ora unite in numero crescente voci israeliane.

E’ mediante una nuova narrazione comune che si può ottenere una reale comprensione del passato, insieme alla speranza che la visione di pace per il futuro possa sostituire quella attuale – che può essere sostenuta soltanto con l’oppressione militare, le disuguaglianze e la pura e semplice propaganda.

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato a livello internazionale, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ‘Mio padre era un combattente per la libertà: storia non raccontata di Gaza.’

Le opinioni espresso in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)