Omar Karmi
6 Ottobre 2017, The Electronic Intifada
Te ne stai seduto per una vita aspettando un autobus, recita il vecchio detto, e poi ne arrivano tre allo stesso tempo.
Sembra che sia successo qualcosa del genere adesso sul fronte politico interno palestinese. Fino a giugno i politici palestinesi sembravano giunti a un punto morto, senza nessuna prospettiva di unità, nessun progresso con Israele e nessuna speranza per Gaza. Poi sono arrivate, proprio una dietro l’altra, due iniziative che coinvolgono entrambe Hamas, e l’ultima promette una svolta nella riconciliazione tra Hamas e Fatah.
Tuttavia, nonostante tutto l’apparente ottimismo, rimangono ostacoli fondamentali, che rendono prudenti in merito all’accordo.
Sono state create speranze
Alla fine dello scorso anno, sondaggi hanno mostrato un diffuso pessimismo sulle possibilità di unità, in parte perché le posizioni sembravano molto radicate. Niente che sia successo nella prima metà del 2017 ha smentito questa sensazione.
A marzo Hamas ha annunciato la creazione di un comitato amministrativo per governare Gaza, ignorando lo sdegno di Ramallah, dove l’Autorità Nazionale Palestinese ha affermato che questa mossa minava i tentativi di unità.
In aprile Mahmoud Abbas, il leader dell’ANP e capo di Fatah, sembrava suonare la campana a morto per questi tentativi. Ha reintrodotto le tasse sul combustibile destinato a Gaza, ha rifiutato di pagare Israele per l’elettricità destinata all’immiserita striscia costiera, ha tagliato i finanziamenti per le medicine e le cure mediche là e decurtato i salari per gli ex- dipendenti pubblici, che erano stati stipendiati per rimanere a casa dopo che Hamas aveva preso il controllo [di Gaza].
Due milioni di palestinesi sono stati lasciati solo con poche ore di elettricità al giorno, con il rischio di produrre una catastrofe umanitaria in piena regola, a lungo pronosticata.
Poi, in giugno, Hamas improvvisamente ha annunciato un sorprendente accordo con Muhammad Dahlan, un tempo capo della sicurezza a Gaza, nemico giurato di Hamas e da molto tempo rivale di Abbas, che era stato cacciato da Fatah nel 2011 in presenza di imputazioni di corruzione che alla fine sono cadute.
L’accordo ha previsto la fine dell’isolamento di Gaza con un’apertura del valico di Rafah verso l’Egitto e un finanziamento dagli Emirati Arabi Uniti.
E altrettanto all’improvviso, in settembre, Hamas ha annunciato che stava smantellando il suo comitato amministrativo, che avrebbe consentito all’ANP di assumere le responsabilità di governo a Gaza e che avrebbe appoggiato elezioni presidenziali e parlamentari.
Questa settimana il governo dell’ANP ha tenuto la sua prima riunione a Gaza in tre anni e il primo ministro Rami Hamdallah è stato accolto da una grande folla. L’ottimismo che una possibile svolta verso l’unità e la riconciliazione possa essere raggiunta sembra il maggiore di quanto sia mai stato da quando la divisione tra Hamas e Fatah è sfociata nella violenza 10 anni fa.
Debolezza in comune
C’è un modello preciso che spiega perché gli autobus tendono a ammucchiarsi (com’è a quanto pare noto nell’industria dei trasporti). Purtroppo la politica è più complicata, ma parecchi fattori spiegano perché la politica palestinese – così stagnante per tanto tempo – sia entrata così improvvisamente in una fase di iperattività. La debolezza sia di Hamas che di Fatah è il fattore principale.
In qualche modo Hamas è stato preso in un perfetto movimento a tenaglia. Pesantemente disarmato da Israele, tre devastanti attacchi in 10 anni hanno fatto pagare un prezzo sia nel corpo che nello spirito. Gaza è stata isolata dal mondo con un decennale blocco israelo-egiziano, le cui conseguenze economiche sono state catastrofiche.
Poi Hamas ha perso il suo sostenitore più importante quando i Paesi del Golfo si sono mossi per isolare il Qatar, con il risultato dello spostamento dei dirigenti di Hamas finora residenti là e la perdita di una fondamentale fonte di entrate.
Abbas, nel contempo, ha pochi risultati della sua decennale ricerca di un processo di pace senza prospettive da presentare. Le colonie illegali nei territori occupati proliferano e Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, è stato lieto di affermare che le colonie “sono destinate a rimanere per sempre.”
Nel 2012 l’ANP ha ottenuto un voto dell’ONU che ha promosso la Palestina allo status di “Stato non membro”, ma si è trattato di un passo indietro rispetto all’intenzione originaria di garantirsi la condizione di Stato membro a pieno titolo nel 2011. Con l’economia “quasi stagnante”, il profondamente impopolare Abbas è diventato sempre più autocratico. Ha represso il dissenso e schierato le forze di sicurezza palestinesi contro la sua stessa popolazione per soffocare la resistenza all’occupazione israeliana.
Entrambe le parti avevano bisogno di sfuggire alla rispettiva empasse, con la situazione umanitaria che premeva con maggiore urgenza su Hamas.
Interessi regionali
Hamas ha puntualmente fatto il primo passo ed ha costituito il suo comitato amministrativo. Abbas ha reagito con pressioni finanziarie, una scommessa molto rischiosa che lo ha visto disposto ad apparire come se stesse facendo causa comune con Israele contro Hamas.
Hamas allora ha annunciato un nuovo statuto, in cui si definisce come non legato alla “Fratellanza musulmana” [gruppo politico islamista presente in molti Paesi arabi, soprattutto in Egitto, ndt.], una mossa specificamente mirata a mettersi in contatto con Egitto e Stati del Golfo.
In seguito a tutto questo è arrivato l’accordo con Dahlan, che ha cambiato la dinamica ed ha chiaramente colto di sorpresa Abbas. Non solo ora si è trovato ad affrontare il ritorno di un rivale su cui pensava di aver avuto la meglio alla settima assemblea generale di Fatah dello scorso anno, ma aveva ora di fronte un Hamas con un appoggio finanziario potenziale degli EAU [Emirati Arabi Uniti, ndt.] e rapporti che diventavano rapidamente cordiali con l’Egitto.
Il ruolo del Cairo è cruciale. Stanco della ribellione del Sinai che mostra pochi segni di diminuzione, l’Egitto sta cercando di assicurarsi l’aiuto di Hamas per avere la garanzia che Gaza non diventi un rifugio per i miliziani del Sinai o una fonte di armamenti. Hamas si è dimostrato disponibile – pur avendo sempre rigettato le accuse di aver appoggiato le milizie salafite che hanno dichiarato la propria fedeltà al gruppo “Stato Islamico”. I dirigenti islamisti di Gaza hanno soffocato il contrabbando e iniziato a creare una zona di sicurezza lungo il confine con l’Egitto.
Nel contempo l’Egitto ha promesso di alleggerire la chiusura a Rafah, consentendo teoricamente non solo che il passaggio venisse aperto regolarmente, ma che potesse essere utilizzato sia per le merci che per le persone. Questa sarebbe una mossa estremamente significativa e potrebbe finalmente portare qualche sollievo all’ economia assediata di Gaza.
Intanto gli EAU, scontenti per il fatto che Abbas avesse respinto i tentativi sostenuti dai sauditi, dagli EAU e dall’Egitto di far tornare Dahlan – che risiede a Dubai ed è vicino ai dirigenti del Paese – dopo l’anno di isolamento, hanno promesso di rendere più appetibile l’accordo costruendo una centrale elettrica sul lato egiziano di Rafah e di pagare una compensazione alle famiglie per i danni subiti durante gli scontri tra Hamas e Fatah nel 2007, come un modo per sanare vecchie ferite.
L’accordo con Dahlan ha dato ad Hamas un vantaggio nei colloqui per l’unificazione. Non più isolato, ha negoziato con un’opzione potenziale di riserva. E facendo il primo passo e smantellando il comitato amministrativo, Hamas ha lanciato decisamente il pallone nel campo di Abbas.
Ostacoli
Finora la reazione a Ramallah [sede dell’ANP in Cisgiordania, ndt.] non è stata promettente. La convocazione di una riunione del governo a Gaza è stata un passo puramente simbolico, e, mentre è stata calorosamente accolta nelle strade di Gaza, non è sostanziale.
Molto più infausta per ogni negoziato di successo è stata un’intervista che Abbas ha rilasciato ad una stazione TV egiziana, in cui ha insistito che Hamas dovrebbe consegnare le proprie armi e consentire il totale controllo su Gaza alle forze di sicurezza dell’ANP controllate dalla Cisgiordania – con tutto quello che ciò comporta in termini di cooperazione per la sicurezza con Israele.
Questa è una scomunica nei confronti di Hamas, che al massimo accetterebbe un cessate il fuoco a tempo indeterminato, o hudna, ma la cui vera ragion d’essere come “movimento per la liberazione nazionale palestinese e gruppo della resistenza” è basata sul diritto internazionalmente stabilito a resistere all’occupazione.
La condizione di Abbas è definita dalla logica di un processo di pace che richiede non solo la fine della resistenza armata contro l’occupazione israeliana come una precondizione per i negoziati, ma che quelli che si trovano sotto occupazione si autocontrollino a questo scopo.
Abbas teme anche la perdita del sostegno internazionale dell’Occidente, che considera Hamas un gruppo terroristico. Anche se ci potrebbe essere una via d’uscita a questo proposito, a seconda di quale ruolo possa giocare Hamas in un qualunque accordo di unità, è molto stretta.
Netanyahu ha già messo in chiaro la sua posizione: Israele non accetterebbe nessuna “finta riconciliazione” ed ha ripetuto la sua richiesta che tutte le parti di un processo di pace debbano in primo luogo “riconoscere lo Stato di Israele e, ovviamente, lo Stato ebraico.”
Per superare le obiezioni israeliane Abbas ha bisogno dell’accordo di Washington, e Washington non accetterà niente meno di quello che chiede Israele per un accordo di unificazione. Con tutto il parlare che si è fatto alla Casa Bianca riguardo a mediare l’”accordo definitivo”, niente di quello che l’amministrazione Trump ha detto o fatto finora ha deviato significativamente o anche solo un poco dall’ortodossia filo-israeliana di Washington.
Aspettando l’autobus
Abbas potrebbe decidere di dare la priorità alle necessità palestinesi sulle condizioni imposte dall’esterno. Un fronte palestinese unificato, nonostante lo sconforto che i sondaggi d’opinione hanno rivelato sulla questione, è ancora una priorità che può portare folle plaudenti nelle strade di Gaza.
Ma Abbas, 82 anni, sta adocchiando quello che può ben essere il suo ultimo tentativo di un accordo negoziato. In questo caso, si profila un’altra situazione di stallo.
Questa volta Hamas potrebbe stare solo calcolando di avere una via d’uscita sotto forma dell’accordo con Dahlan e che, avendo fatto i primi passi, il fallimento della riconciliazione sarebbe imputato interamente ad Abbas.
E’ un azzardo: Hamas ha bisogno di alleggerire il blocco di Gaza. Ha bisogno che l’Egitto lo garantisca, e, se la riconciliazione dovesse fallire, ha bisogno del Cairo perché accetti di farlo in mancanza della copertura dell’ANP di Abbas. Ma il Cairo ha interessi divergenti che possono favorire un accordo con Hamas.
Il vantaggio degli autobus che si affollano è che, se il primo è pieno, il secondo, con molto spazio, sarà subito dietro. Se Abbas, e dietro di lui Washington, impone troppe condizioni, Hamas può cercare l’accordo con Dahlan, che ne pone di meno.
Omar Karmi è un ex corrispondente del giornale “The National” [giornale di Abu Dhabi, negli EAU, ndt.] da Gerusalemme e da Washington.
(traduzione di Amedeo Rossi)