Le controverse vicende di un’ideologia e della sua storia

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Arturo Marzano, Storia dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl a oggi, Carocci editore, Roma, 2017, pp. 254, 24 €.

 Amedeo Rossi

Nell’introduzione l’autore sembra definire un punto di vista nettamente schierato dalla parte di Israele.

Arrivato il 30 aprile 1998 a Tel Aviv per i suoi studi di storico, ricorda: “Festeggiavo anche io la nascita di Israele, che aveva finalmente dato uno Stato al popolo ebraico, dopo secoli di discriminazioni e persecuzioni e dopo la tragedia della Shoa.” Ma subito dopo racconta del suo ritorno nel 2001, durante la Seconda Intifada, e di essersi trovato in una situazione completamente diversa, tanto da aver manifestato insieme a “Mustafa Barghouti e Hanan Ashrawi, due leader palestinesi che sino ad allora avevo visto solo in foto.”

Dalla dissonanza tra questi due ricordi si intuisce una delle ragioni della stesura di questo libro: la dolorosa consapevolezza di una realtà lontana dalla narrazione della lotta gloriosa di un popolo oppresso che rivendica i propri diritti ad avere uno Stato. La riflessione sul conflitto israelo-palestinese fa parte del campo di studi dell’autore, che ha pubblicato altri libri sull’argomento, ma in questo saggio Marzano sembra cercare nelle vicende dell’ideologia sionista la radice del contrasto tra quello che si presentava come un movimento di liberazione e i suoi drammatici esiti storici. Per fare questo l’autore ripercorre le tracce di un pensiero spesso contraddittorio al suo interno, tanto da giustificare il plurale del titolo: “sionismi”.

Marzano ricorda quanto, fino allo sterminio nazista, il movimento sionista fosse minoritario all’interno delle comunità ebraiche europee, osteggiato sia dagli ebrei socialisti e comunisti che dall’ortodossia religiosa, che lo riteneva un movimento blasfemo. Al contempo fin dalle sue origini uno dei nodi principali del sionismo è stato il rapporto con i palestinesi. I suoi ideologi erano ben consci del fatto che la Palestina fosse una terra abitata da una popolazione che rappresentava uno dei principali ostacoli per la realizzazione del loro progetto, benché alcuni, come Magnes e Buber, ritenessero che fosse possibile vivere in armonia con i nativi.

Il libro ripercorre la storia delle varie tendenze del sionismo non in modo sincronico, ma in base al loro ruolo preponderante nel corso del tempo. Nei primi capitoli, pur citando anche le posizioni critiche, Marzano presenta l’evoluzione del pensiero e dell’azione della corrente maggioritaria, il “sionismo politico”, che si identificava principalmente con le figure di Chaim Weizman e di David Ben Gurion, il principale stratega della costruzione del consenso internazionale per il progetto sionista e l’edificatore dello Stato. Il complesso rapporto tra socialismo sionista e colonialismo di insediamento viene analizzato con attenzione, sostenendo la tesi che il primo fosse stato scelto da Ben Gurion per ragioni eminentemente pragmatiche: “Il socialismo era sostanzialmente diventato uno strumento, non un «collante di obiettivi universali, bensì […] un mezzo per la realizzazione del sionismo»”, scrive Marzano, citando lo storico israeliano Zeev Sternhell.

Come puntualmente documentato nel libro, pur avversato da destra e da sinistra questo modello di sionismo ha dominato il movimento sionista e la vita politica del nuovo Stato fino all’evento cruciale rappresentato dalla guerra dei Sei Giorni. Il fatto di aver triplicato in un brevissimo lasso di tempo e di evidente eco biblica le dimensioni dello Stato rappresentò un evento che molti, non solo in Israele, considerarono “miracoloso”. Le sfide al sionismo “socialista” vennero principalmente da tre direzioni. La prima, sorta a partire soprattutto dai primi decenni del ‘900, ad opera del rabbino Abraham Isaac Kook e di suo figlio Zvi Yehuda. In opposizione con il tradizionale quietismo dei rabbini ortodossi, che ritenevano che sarebbe stato dio a riportare gli ebrei nella Terra promessa, questa corrente teologica sosteneva che la conquista della terra avrebbe accelerato l’avvento del messia e la fine del mondo. Questo pensiero millenarista è stato la base ideologica del movimento dei coloni nazional-religiosi, i primi a costruire insediamenti nei territori occupati. Pur rappresentando una sfida aperta allo Stato basato su principi laici, questo movimento ha avuto un rapporto molto stretto con il potere politico, anche laburista, che ne ha consentito l’espansione. Marzano sembra privilegiare l’idea secondo cui i nazional-religiosi si siano serviti e si servano tuttora del potere politico-militare dello Stato per perseguire i propri scopi. Altri autori, sempre israeliani, sostengono invece che sia stata la dirigenza laburista, compresi Rabin e Peres, ad utilizzarli per la progressiva colonizzazione della Cisgiordania. L’avvio della colonizzazione israeliana in Cisgiordania è stata funzionale alla progressiva erosione della terra palestinese, come ammette lo stesso Marzano.

L’occupazione e la colonizzazione risvegliarono anche quelle correnti di pensiero che, pur riconoscendosi almeno in parte nel progetto sionista, ne mettevano in dubbio i metodi e la legittimità riguardo al trattamento riservato ai palestinesi. Ma non furono i movimenti pacifisti a capitalizzare la crisi del gruppo di potere laburista, bensì gli eredi del sionismo revisionista e dei gruppi armati degli anni ’30, che avevano praticato il terrorismo sia contro gli inglesi che contro la popolazione civile palestinese. Il libro torna a questo punto alle origini del revisionismo, così chiamato perché intendeva “revisionare il sionismo per farlo tornare ai principi che si erano nel frattempo persi.” Marzano sintetizza l’opposizione tra le due principali correnti del sionismo con i concetti di “Medinat Israel”, caro ai laburisti e che privilegiava la costruzione dello Stato con caratteristiche liberal-democratiche (quanto meno per i cittadini ebrei) e quello di “Eretz Israel”, la Terra di Israele. Quest’ultimo principio, che, insieme al liberismo in economia ed al comunitarismo etnico-religioso, avrebbe segnato i governi del Likud, ha prevalso nella vita politica israeliana, salvo nel periodo di governo di Rabin e degli accordi di Oslo. Marzano sembra ritenere che Oslo potesse rappresentare una soluzione del conflitto, ponendo di fatto fine all’occupazione della Cisgiordania, e che sia stata l’uccisione di Rabin a farli fallire. Tuttavia egli stesso ricorda che lo stesso primo ministro laburista si dichiarò contrario alla nascita di uno Stato palestinese, e d’altra parte in più occasioni favorì la prosecuzione della colonizzazione.

La seconda parte del libro ripercorre la deriva reazionaria e razzista che ha caratterizzato gli ultimi 20 anni della politica israeliana, i cui protagonisti sono stati prima Sharon e poi Netanyahu, e il progressivo espandersi della colonizzazione e del peso dei coloni ultranazionalisti e nazional-religiosi nei governi di quest’ultimo. Al contempo, individua la crisi dell’ideologia sionista, messa in discussione sia dai sionisti contrari all’occupazione che da post-sionisti (tra cui si colloca l’autore) ed anti-sionisti.

In conclusione Marzano si pone due domande: questa deriva era insita nell’ideologia sionista? Secondo l’autore sarebbe stata la prevalenza nel movimento del nazionalismo organico, sostenuto da Gordon ed accolto da Ben Gurion, rispetto al socialismo democratico propugnato da Borokov, a segnare la realizzazione pratica del sionismo e a determinare l’espulsione dei palestinesi. La colonizzazione della Cisgiordania ha portato all’alternativa tra uno Stato democratico per tutti i suoi cittadini, che rappresenterebbe la fine del sionismo, e uno Stato di apartheid, quale già di fatto esiste. La seconda domanda conclude il libro: “Se si crede in uno Stato pienamente democratico, non è forse giunto il momento – come afferma il post-sionismo – di passare da uno «Stato ebraico e democratico» a uno «Stato per tutti i cittadini»?”

Per quanto complesso ed articolato, il libro non affronta la ragione per la quale il sionismo, al di là dei dibattiti ideologici, non poteva essere diverso e per la quale sionisti “socialisti” e revisionisti, nonostante le differenze tattiche, hanno da sempre condiviso l’obiettivo strategico. Era possibile costruire uno Stato in cui gli ebrei fossero la schiacciante maggioranza e che avrebbe dovuto ospitare, in base al progetto sionista, tutti gli ebrei del mondo senza espellere i palestinesi che, alla vigilia della nascita di Israele, rappresentavano i 2/3 della popolazione? E in generale, non avevano ragione gli ebrei antisionisti, da Rosa Luxemburg a Trotzki ai bundisti, a considerare il sionismo un movimento reazionario, in quanto nazionalista e colonialista?