Susan Abulhawa
4 novembre 2018, Mondoweiss
Dopo essere stata espulsa da Israele per la seconda volta in tre anni, Susan Abulhawa ieri ha postato su Facebook il seguente comunicato al festival della letteratura a cui non ha potuto partecipare.
Messaggio per il festival di letteratura palestinese Kalimat:
Vorrei esprimere la mia profonda gratitudine nei confronti del festival di letteratura palestinese Kalimat, in particolare a Mahmoud Muna, e al Kenyon Institute [istituto di ricerche britannico con sede a Gerusalemme, ndtr.] del British Council per avermi invitata ed aver sostenuto le spese perché partecipassi al festival di letteratura in Palestina di quest’anno.
Come ormai sapete tutti, le autorità israeliane mi hanno negato l’ingresso nel mio Paese e di conseguenza non posso partecipare al festival. Mi addolora molto non essere con i miei amici e colleghi scrittori per analizzare e onorare le nostre tradizioni letterarie con i lettori e tra di noi nella nostra patria. Mi addolora che ci possiamo incontrare ovunque nel mondo tranne che in Palestina, il luogo a cui apparteniamo, da cui scaturiscono le nostre storie e dove tutti i nostri viaggi alla fine ci conducono. Non ci possiamo incontrare sul suolo che è stato fertilizzato per millenni dai corpi dei nostri antenati e innaffiato dalle lacrime e dal sangue dei figli e delle figlie della Palestina che quotidianamente lottano per lei.
Dopo la mia espulsione, leggo che le autorità israeliane hanno dichiarato che mi era richiesto di “coordinare” preventivamente il mio viaggio con loro. Questa è una menzogna. In effetti all’arrivo in aeroporto mi è stato detto che mi era stato richiesto di presentare richiesta di visto per il mio passaporto USA e che questa richiesta non sarebbe stata accettata fino al 2020, almeno cinque anni dopo la prima volta che mi è stato negato l’ingresso. Hanno detto che era mia responsabilità saperlo benché non mi fosse mai stata data nessuna comunicazione di essere stata bandita. Poi hanno detto che la mia prima espulsione nel 2015 era dovuta al fatto che avevo rifiutato di specificare loro la ragione della mia visita. Anche questa è una menzogna. Questi sono i fatti.
Nel 2015 ero venuta in Palestina per costruire parchi giochi in vari villaggi e partecipare all’inaugurazione di quelli che avevamo già costruito nei mesi precedenti. Un altro membro della nostra organizzazione aveva viaggiato con me. Lei risultò essere ebrea e le consentirono di entrare. Vari funzionari israeliani che mi interrogarono mi fecero le stesse domande in forme diverse nel corso di oltre 7 ore e mezza. Risposi a tutte, come dobbiamo fare noi palestinesi se vogliamo avere una possibilità di andare a casa, anche solo come visitatori. Ma non fui abbastanza ossequiosa, né ne ero capace in quel momento. Ma ero sicuramente calma e – ciò che viene richiesto a tutte le persone violentate – “civile”. Alla fine venni accusata di non aver cooperato perché non sapevo quanti cugini avevo e quali fossero tutti i loro nomi ed i nomi delle loro mogli. Fu solo dopo che mi venne detto che mi era stato negato l’ingresso che alzai la voce e mi rifiutai di andarmene tranquillamente. Gridai e confermo ogni cosa che gridai. Secondo “Haaretz” [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.] Israele affermò che io “mi ero comportata con rabbia, brutalità e volgarità” nel 2015 al [valico di frontiera del] ponte di Allenby [tra Giordania e Cisgiordania, ndtr.].
Quello che dissi nel 2015 a chi mi interrogava, e che venne anche riportato all’epoca da “Haaretz”, è che avrebbero dovuto essere loro ad andarsene, non io; che sono figlia di questa terra e niente cambierà questo fatto; che la mia stessa storia affonda nella terra e non c’è modo che essi possano sradicarla; che per quanto essi evochino le favole mitologiche sioniste, non possono rivendicare un simile lignaggio personale e familiare, per quanto desiderino di poterlo fare.
Suppongo che possa suonare volgare a orecchie sioniste essere posti di fronte all’autenticità della condizione dei palestinesi in quanto autoctoni nonostante l’esilio, e affrontare la loro apocrifa, sempre cangiante narrazione colonialista.
A quanto pare la mia mancanza di deferenza e la scelta di non accettare tranquillamente la decisione arbitraria di un illegittimo guardiano della mia patria nel 2015 vennero associate al mio nome e, questa volta dopo il mio arrivo il 1 novembre, segnalate per la mia immediata espulsione.
La vera volgarità è che alcuni milioni di europei e altri stranieri vivono ora in Palestina mentre la popolazione indigena vive o in esilio o sotto il crudele giogo dell’occupazione israeliana; la vera volgarità sta nelle file di cecchini che circondano Gaza, che prendono attentamente la mira e sparano a esseri umani assolutamente indifesi, che osano protestare contro il loro imprigionamento collettivo e contro la miseria che gli viene imposta; la vera volgarità sta nel fatto di vedere i nostri giovani a terra sanguinanti, gettati nelle prigioni israeliane, privati di un’educazione, dei viaggi, dell’istruzione o di una qualche possibilità di stare pienamente al mondo; la vera volgarità è il modo in cui hanno preso e continuano a prendere tutto da noi, come ci hanno strappato il cuore, rubato tutto, occupato la nostra storia e calpestato le nostre voci e la nostra arte.
In totale Israele mi ha incarcerata per 36 ore. Non ci è stato consentito di tenere nessun apparecchio elettronico, penne o matite nella cella del carcere, ma ho trovato il modo per avere entrambi – perché noi palestinesi siamo pieni di risorse, astuti e troviamo la nostra via verso la libertà e la dignità con ogni mezzo possibile. Ho foto e video dall’interno di quel terribile centro di detenzione, che ho preso con un secondo telefono nascosto sul mio corpo, ed ho lasciato loro qualche messaggio sui muri dal letto sporco che mi hanno dato per sdraiarmi. Suppongo che troveranno volgare leggere “Palestina libera”, “Israele è uno Stato di apartheid”, o “Susan Abulhawa è stata qui e ha introdotto di nascosto nella sua cella questa matita.”
Ma la parte più memorabile di questo calvario sono stati i libri. Quando sono arrivata al carcere avevo due libri nel mio trolley e ho avuto il permesso di tenerli. Alternativamente leggevo entrambi, dormivo e pensavo.
Il primo libro era un saggio molto erudito dello storico Nur Masalha, “Palestina: una storia di quattromila anni.” Avevo previsto di intervistare Nur sul palco sulla sua epica rivisitazione della storia millenaria dei palestinesi raccontata non da narrazioni con motivazioni politiche, ma dalla narrazione archeologica e di altre discipline. È la storia di un popolo, che abbraccia le confuse e molteplici identità delle popolazioni native della Palestina dall’Età del Bronzo fino ad ora. In una cella di sicurezza israeliana, con cinque altre donne, tutte dell’Europa dell’Est e ognuna di loro con la propria sofferenza individuale, i capitoli del libro di Nur Masalha mi hanno portata attraverso il passato pluralistico, multiculturale e multireligioso della Palestina, distorto e cristallizzato da invenzioni moderne di un antico passato.
L’amara ironia della nostra condizione non mi era sfuggita. Io, figlia della terra, di una famiglia radicata da almeno 900 anni sulla terra e che ho passato la maggior parte della mia infanzia a Gerusalemme, ero stata espulsa dalla mia patria dai figli e dalle figlie di recente arrivo, venuti in Palestina qualche decennio fa con una filosofia di darwinismo razzista di origine europea, che invocava leggende bibliche e diritti di proprietà concessi dalla divinità.
Mi è venuto anche in mente che tutti i palestinesi – indipendentemente dalla nostra condizione, ideologia o luogo della nostra incarcerazione o esilio – siamo per sempre uniti in una storia comune che inizia con noi e viaggia verso l’antico passato in un posto sulla terra, come le molte foglie e i molti rami di un albero che portano ad un unico tronco. E siamo anche uniti dalla sofferenza comune vedendo gente da ogni parte del mondo colonizzare non solo lo spazio fisico della nostra esistenza, ma anche i suoi luoghi spirituali, familiari e culturali. Penso anche che traiamo forza da questa infinita, inguaribile ferita. Da lì scriviamo le nostre storie, e cantiamo là anche le nostre canzoni e le nostre dabke [musica e danza popolare mediorientale, ndtr.]. Ricaviamo arte da questo dolore. In questo posto raccogliamo fucili e penne, videocamere e pennelli, lanciamo pietre, facciamo volare aquiloni e facciamo balenare la vittoria e i pugni alzati.
L’altro libro che ho letto era l’acclamato, affascinante romanzo di Colson Whitehead “The Underground Railroad” [La ferrovia sotterranea, Sur, 2016]. È la storia di Cora, una ragazza nata in schiavitù da Mabel, la prima schiava scappata dalla piantagione Randal. In questo racconto immaginario Cora scappa dalla piantagione con il suo amico Caesar, il loro risoluto cacciatore di schiavi, Ridgeway, sul cammino lungo la ferrovia sotterranea – una metafora della vita reale resa in una vera ferrovia nel romanzo. Il trauma generazionale di una inconcepibile schiavitù è tanto più devastante in questo romanzo in quanto è raccontato realisticamente dal punto di vista dello schiavo. Un’altra incurabile ferita collettiva di un popolo messa a nudo, un passato comune atrocemente potente, anche una sede della sua potenza, una sorgente delle sue storie e delle sue canzoni.
Ora sono tornata a casa mia, con mia figlia e i nostri amati cani e gatti, ma il mio cuore non lascia mai la Palestina. Quindi, sono là, e continueremo ad incontrarci nei panorami della nostra letteratura, arte, cucina e in tutti i tesori della nostra cultura comune.
Dopo aver scritto questo comunicato, ho appreso che la conferenza stampa si è tenuta a Dar el Tifl [collegio femminile e organizzazione benefica di Gerusalemme, ndtr.]. Ho vissuto lì i migliori anni della mia infanzia, nonostante la separazione dalla mia famiglia e le condizioni a volte difficili che dovemmo affrontare sotto l’occupazione israeliana. Dar el Tifl è l’eredità di una delle donne più ammirevoli che abbia mai conosciuto – Sitt Hind el Husseini. Mi ha salvata in vari modi più di quanto penso si rendesse conto, o di quanto io abbia compreso all’epoca. Salvò molte ragazze. Ci riunì da tutti i mille pezzi della Palestina. Ci diede cibo e rifugio, ci educò e credette in noi e a sua volta ci convinse che valevamo qualcosa. Non c’è un luogo più appropriato di Dar al Tifl per leggere questa dichiarazione.
Voglio lasciarvi con un altro pensiero che mi è venuto quando ero in carcere, ed è questo: Israele è spiritualmente, emotivamente e culturalmente piccolo nonostante i lunghi fucili che punta contro di noi – o forse proprio a causa di questi. È a loro stesso discapito che non possono accettare la nostra presenza nella nostra patria, perché la nostra umanità rimane intatta e la nostra arte è magnifica e vitale, e non stiamo andando da nessuna parte se non a casa.
Su Susan Abulhawa
Susan Abulhawa è autrice del romanzo best seller internazionale “Mornings in Jenin” (Bloomsbury, 2010) [“Ogni mattina a Jenin”, Feltrinelli, 2006) – www.morningsinjenin.com – e fondatrice di “Playgrounds for Palestine” [Parchi giochi per la Palestina] – www.playgroundsforpalestine.org.
(traduzione di Amedeo Rossi)