Dalle ondate di caldo all’ “apartheid ecologico”: cambiamento climatico in Israele-Palestina

Foto di Yaniv Nadav/FLASH90
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Matan Kaminer, Basma Fahoum ed Edo Konrad

8 agosto 2019 – +972

Mentre il nascente movimento per la giustizia climatica in Israele cerca di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, i palestinesi sotto occupazione rimangono estremamente vulnerabili ai pericolosi effetti del cambiamento climatico. Tuttavia, a causa dello squilibrio di potere esistente, lavorare insieme per combatterlo sembra quasi impossibile.

Secondo i ricercatori del clima europei, il luglio 2019 è stato il mese più caldo mai registrato. Dopo solo un anno da quando la Commissione Intergovernativa sul Cambiamento Climatico dell’ONU ha reso pubblico il suo storico rapporto che mette in guardia su un’imminente catastrofe climatica, le temperature sono vertiginosamente aumentate in luoghi come Alaska e Svezia, sono state ridotte in cenere foreste in Siberia, si sono sciolti ghiacciai in Groenlandia e intere città sono rimaste senz’acqua in India.

Di fronte a un aumento delle temperature, affrontare la crisi climatica e i suoi effetti sugli esseri umani è diventato un problema cruciale per governi, politici e movimenti per la giustizia sociale in tutto il mondo. Si prevede che Israele-Palestina, situati in una delle regioni più calde del globo, vedranno un aumento delle temperature a un ritmo ancora più veloce.

Sondaggi effettuali tra gli israeliani mostrano una notevole indifferenza nei confronti dell’imminente crisi, il che significa che il governo israeliano deve affrontare una scarsa pressione popolare riguardo al problema. Non sono state fatte ricerche simili nei territori palestinesi occupati, ma la continua occupazione della Cisgiordania e l’assedio di Gaza accentuano il rischio di una catastrofe climatica per i palestinesi e al contempo rendono in pratica impossibile per il loro governo fare qualcosa al riguardo.

Alla fine dello scorso anno un gruppo di ricercatori israeliani ha pubblicato la prima previsione su quello che il cambiamento climatico potrebbe significare per Israele-Palestina. I risultati sono stati terrificanti: rispetto al periodo di riferimento 1981-2010, si prevede che il lasso di tempo di 30 anni che inizierà nel 2041 vedrà temperature medie in aumento di 2,5° e una riduzione delle precipitazioni fino al 40% nelle zone non aride del Paese.

Secondo uno dei ricercatori, la professoressa Hadas Saaroni dell’università di Tel Aviv, il caldo e l’umidità che israeliani e palestinesi che vivono lungo la costa avvertono durante i mesi estivi non farà che crescere in modo più estremo. Sostiene che in estate abbiamo già quasi 24 ore di stress termico, ma che tende a ridursi nelle ore serali e notturne. “Ciò peggiorerà: lo stress termico sarà più pesante di giorno e non si ridurrà di notte.” E, come praticamente tutto ciò che si riferisce al cambiamento climatico, il caldo non sarà distribuito in modo equilibrato. Una recente ricerca del comune di Tel Aviv-Jaffa prevede che le temperature nelle zone povere del sud della città saliranno di sette gradi Celsius più che nei ricchi quartieri settentrionali.

Mentre Saaroni è sorprendentemente ottimista riguardo agli effetti del cambiamento climatico sul livello del mare (“il mare salirà di circa un metro, ma solo alla fine del secolo. Con la tecnologia abbiamo il tempo di adeguarci”), lei e altri scienziati del clima israeliani sono sempre più preoccupati della strisciante desertificazione del Paese. Temperature in aumento e minor piovosità significano che il deserto, che già copre buona parte del Paese, si estenderà lentamente verso nord, sostiene il professore di ecologia Marcelo Sternberg, anche lui dell’università di Tel Aviv.

Tuttavia senza ulteriori studi è difficile dire fino a dove arriverà la desertificazione. “Alcune ricerche, compresa la mia, mostrano che il nostro territorio è resistente ai cambiamenti della piovosità all’interno della gamma naturale di variazioni,” dice Sternberg. “Ma cambiamento climatico significa temperature al di fuori di quella gamma – e non sappiamo cosa ciò significhi.” Quello che pare certo è che gli incendi, che negli ultimi anni hanno colpito sempre più frequentemente il Paese, continueranno a devastarlo durante le estati.

Lottare contro l’“apartheid climatico”

Lo Stato di Palestina ha firmato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico. Ma, a causa del governo militare israeliano in Cisgiordania e del blocco della Striscia di Gaza, i palestinesi non hanno praticamente alcun controllo sulle proprie risorse naturali, e non sono in grado di mettere pienamente in atto i trattati o di adottare progetti nazionali, e non possono fare piani concreti per adattarsi alla crisi climatica.

In Cisgiordania la fornitura di acqua è più vulnerabile agli effetti del cambiamento climatico. Secondo un rapporto del 2013 dell’associazione palestinese per i diritti umani “Al-Haq”, il consumo pro capite di acqua per uso domestico degli israeliani è da quattro a cinque volte maggiore di quello della popolazione palestinese dei territori occupati. In Cisgiordania i coloni israeliani consumano circa sei volte la quantità di acqua usata dalla popolazione palestinese che vive nello stesso territorio.

Alcune comunità palestinesi, soprattutto quelle che vivono in zone della Cisgiordania sotto totale controllo militare israeliano, non sono collegate con alcuna infrastruttura idrica e devono percorrere chilometri per procurarsi l’acqua, che spesso è cara e di dubbia qualità. Nel contempo l’esercito israeliano rende quasi impossibile avere l’autorizzazione per nuovi serbatoi d’acqua, e quelli costruiti senza permesso sono regolarmente distrutti dalle autorità. Secondo Al-Haq, il settore idrico nei territori occupati e in Israele è caratterizzato da uno sfruttamento eccessivo notevolmente asimmetrico delle risorse idriche condivise, da un esaurimento dello stoccaggio a lungo termine, da un deterioramento della qualità dell’acqua e da crescenti livelli di domanda provocati da alti tassi di incremento della popolazione. Nel contempo la zona sta assistendo a una diminuzione della fornitura di acqua pro capite – un peso che è sproporzionatamente a carico della popolazione palestinese.

Il dottor Abdulrahman Tamimi, direttore generale del Gruppo Idrologico Palestinese, afferma che, mentre Israele ha le competenze tecnologiche per adattare il proprio settore agricolo ai cambiamenti del clima, in Cisgiordania entro un decennio l’agricoltura diverrà impraticabile. La situazione a Gaza è aggravata dall’assedio israeliano, che tra le altre cose ha portato all’eccessivo sfruttamento delle risorse idriche del sottosuolo che sta sempre più esaurendo l’Acquifero costiero, il che ha reso non potabile il 90% della fornitura d’acqua.

“Non c’è speranza per Gaza da nessun punto di vista finché la situazione politica là rimane senza soluzione,” sostiene Tamimi. Afferma di credere che entro i prossimi cinque o sei anni l’agricoltura di Gaza, le infrastrutture idriche e l’economia non funzioneranno più. Soluzioni come la desalinizzazione, che consentirebbe di avere sia acqua potabile che un’irrigazione regolare, sono lussi che la gente di Gaza semplicemente non si può permettere, spiega Tamimi: “Chi potrebbe pagare 1,5 dollari al metro cubo?”

“L’acqua è già una risorsa così rara nella regione,” dice Zena Agha, l’esperta di politica USA del gruppo di analisi palestinese Al-Shabaka, che si concentra sull’intersezione tra il clima e l’occupazione israeliana, “che il cambiamento climatico agisce semplicemente come un peggioramento della minaccia.” Agha afferma che sulla carta un accordo di pace tra israeliani e palestinesi dovrebbe poter risolvere la crisi idrica in Cisgiordania. Invece gli accordi di Oslo, una serie di intese provvisorie che due decenni fa avrebbero dovuto portare a un accordo per uno status finale, l’hanno solo peggiorata. In seguito a ciò, l’80% delle risorse idriche nei territori occupati è sotto controllo israeliano. Nel contempo i soldati israeliani distruggono regolarmente sistemi di raccolta dell’acqua tradizionali a livello locale utilizzati dai palestinesi nelle zone della Cisgiordania lasciati da Oslo sotto totale controllo militare israeliano.

“Si comincia a vedere una politica ufficiale di sottrazione dell’acqua e delle risorse, sostenuta e delineata da una serie di leggi, politiche, licenze, permessi e udienze in tribunale utilizzati per rubare l’acqua dei palestinesi,” dice Agha. “D’altra parte, c’è anche una sorta di approccio concreto, che coinvolge l’esercito israeliano che si presenta, dichiara un’area militare chiusa e ruba direttamente le risorse. Questa è la politica attiva dello Stato israeliano.” Agha dice che le politiche israeliane in Cisgiordania equivalgono a un “apartheid climatico”.

“Quanto sta avvenendo in Palestina è un chiaro esempio di un gruppo etnico-religioso che possiede risorse migliori e preferenziali rispetto a un altro gruppo, esclusivamente sulla base della religione e della cittadinanza. L’occupazione crea una situazione in cui è impossibile per i palestinesi sviluppare realmente le capacità di adattamento per resistere alla minaccia davvero incombente del cambiamento climatico,” dice Agha.

Agha sostiene che, mentre l’Autorità per la Qualità dell’Ambiente dell’Autorità Nazionale Palestinese ha elaborato un piano di adeguamento sostenuto dal Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, simili piani sono “quasi ridicoli”.

“Supponiamo che l’ANP [Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] abbia la possibilità di pianificare con 40 anni di anticipo: per ora non ha neppure il potere di prevedere cosa succederà domani. L’ANP si trova in un paradosso: pianificare per il futuro su una terra su cui non ha controllo. Da ogni punto di vista è priva di potere.”

Eppure Agha crede che l’ANP abbia un ruolo da giocare nel mettere in atto strategie a lungo termine per cercare di adattarsi all’attuale situazione, compreso il contrasto diretto con Israele riguardo alle politiche sull’acqua, promuovendo un’agricoltura sostenibile ed ecologica, ripristinando le cooperative agricole, che hanno rappresentato gli interessi e le preoccupazioni dei contadini e negli anni ’80 erano apprezzate nei territori occupati.

Alcune Ong e attivisti palestinesi stanno cercando di approfittare del vuoto lasciato. Per esempio la Società per la Natura in Palestina sta tentando di condurre la prima ricerca complessiva su flora e uccelli della Palestina, per comprendere meglio i cambiamenti della biodiversità in conseguenza del cambiamento climatico. L’Istituto Palestinese per la Biodiversità e la Sostenibilità e il Museo Palestinese di Storia Naturale presso l’università di Betlemme stanno dirigendo un progetto per la conservazione della biodiversità unica del Paese e per fare studi sulle complesse questioni della distruzione dell’habitat e del declino dell’ambiente provocati dal cambiamento climatico e dalle politiche del conflitto.

In Cisgiordania attivisti palestinesi hanno creato iniziative ambientali come archivi dei semi tradizionali che preservano il patrimonio agricolo e la biodiversità palestinesi, l’ agro-ecologia e l’agricoltura sostenuta dalla comunità, per promuovere la sovranità alimentare, riducendo al minimo gli effetti delle coltivazioni sull’ambiente.

Una politica senza sbocco

Nel luglio 2018 il governo israeliano ha adottato il “Programma Nazionale per l’Adeguamento al Cambiamento Climatico”, che include 30 punti di azione che affrontano vari aspetti del cambiamento climatico, come acqua, energia e salute pubblica. Il piano si occupa anche di problemi specifici delle preoccupazioni politiche ed economiche di Israele, compresi gli adeguamenti per l’industria ambientale, la possibilità di utilizzare energia nucleare e come il cambiamento climatico colpisca il Medio Oriente nel suo complesso, compresi rifugiati, nuove rotte commerciali, scarsità di cibo e di acqua.

Si presta particolare attenzione alle questioni della capacità di intervento dell’esercito. Il piano include raccomandazioni per affrontare le necessità materiali e strategiche delle IDF, che vanno dalle uniformi dei soldati e dalla dislocazione delle basi allo studio dell’“effetto del cambiamento climatico sui Paesi musulmani”, alla stipula di accordi di mutuo aiuto. Il piano tuttavia non specifica la fonte di finanziamento di ogni punto e non fornisce i costi totali previsti.

La produzione di energia di Israele rimane pressoché interamente basata su combustibili fossili. In molti Paesi in tutto il mondo le discussioni sul clima sono concentrate sul liberarsi dalla produzione di energia basata sui combustibili fossili – in seguito a forti pressioni dell’opinione pubblica, governi come quello della Germania e della California hanno annunciato un passaggio pianificato al 100% di energia rinnovabile entro il 2050 -, ma in Israele il problema rimane una questione politica senza sbocco. All’inizio del 2018 il ministro dell’Energia israeliano ha proposto un piano per passare dai “combustibili inquinanti” come carbone e petrolio al gas naturale. Il progetto intende raggiungere un obiettivo di appena il 17% della produzione da energia rinnovabile entro il 2030, con un obiettivo intermedio del 10% entro il 2020.

Tuttavia la richiesta di una produzione interna del 100% da energia rinnovabile ha oppositori persino all’interno il movimento ecologista israeliano. Mentre “Green Course”, un gruppo ambientalista di base, ha accolto la richiesta, la “Società per la Protezione della Natura in Israele”, l’organizzazione ambientalista israeliana più affermata, ha preso la posizione secondo cui solare ed eolico rappresentano una minaccia per la rara e pregiata biodiversità del Paese – il primo distrugge l’habitat della fauna terrestre e il secondo uccide gli uccelli.

“Stimiamo che i pannelli solari sui tetti e altre superfici alterate o deteriorate possano fornire almeno un terzo del fabbisogno di energia di Israele,” afferma Dror Boymel, capo del dipartimento di pianificazione presso l’SPNI. “Il resto dovrebbe venire da altre fonti – sia da gas naturale che da altri Paesi della regione che non hanno problemi di spazio e hanno una natura meno vulnerabile.”

É difficile parlare di render questo un posto migliore”

Uno studio pubblicato quest’anno dal centro di ricerche “PEW” prima del “Giorno della Terra” ha rilevato che solo il 38% degli israeliani considera il cambiamento climatico una grave minaccia. Su 26 Paesi in cui è stata fatta la ricerca Israele è arrivato per ultimo. Lo studio non include i palestinesi dei territori occupati.

Di conseguenza il movimento ambientalista israeliano sta cambiando marcia. Mentre in passato i gruppi ecologisti hanno teso a concentrarsi su problemi “lievi” come il riciclaggio, oggi la crisi climatica è in cima alla loro agenda, e molti che sono convinti che solo un’azione radicale sarà in grado di fermare la catastrofe.

“Gli ambientalisti non sono più considerati ‘simpatici’ come una volta,” dice Ya’ara Peretz, responsabile delle politiche di “Green Course”. Peretz è stata anche una delle principali organizzatrici della Marcia per il Clima di quest’anno, la più grande di sempre in Israele, che ha visto molte migliaia di persone protestare nel centro di Tel Aviv, con la richiesta che il governo di Israele prenda immediatamente misure. “Il rapporto dell’IPCC ha cambiato tutto e ha spinto la gente fuori dal proprio guscio,” dice. “Ci siamo resi conto del fatto che ciò è grave e quello che vediamo accadere nel mondo sta aiutando. Le persone vogliono essere coinvolte – ora è il momento di essere creativi.”

Secondo Peretz uno dei maggiori cambiamenti è l’impegno di giovani cittadini israeliani – sia ebrei che palestinesi – che ora stanno guidando il movimento con l’aiuto degli attivisti di “Green Course”. Prendendo esempio da Greta Thunberg, l’attivista svedese adolescente che è diventata l’icona della lotta contro il cambiamento climatico, studenti delle superiori hanno fatto vari scioperi e hanno marciato fino alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], chiedendo che i parlamentari inizino a prendere sul serio il problema. “Questi ragazzi sono molto più svegli di noi,” dice Peretz.

“Ho sempre pensato che i problemi fossero dovuti al fatto che qualcun altro stava prendendo le decisioni,” dice Lama Ghanayim durante un evento nel Left Bank Club di Tel Aviv a metà luglio. Ghanayim, della città araba di Sakhnin, nel nord di Israele, è una dei dirigenti degli scioperi studenteschi. “Organizzare questi scioperi è stata un’opportunità per ottenere finalmente qualcosa. Non voglio stare fuori e lasciare che qualcun altro prenda i comandi quando si tratta di una questione così grave,” dice Ghanayim.

Gruppi ambientalisti esperti come “Green Course” e SPNI non sono più le uniche voci che affrontano il problema del clima in Israele. Recentemente il movimento per l’azione diretta “Extinction Rebellion” ha aperto una sezione in Israele. Il movimento israeliano di sinistra “Standing Together”, che finora si era concentrato prevalentemente sulla lotta contro il razzismo, l’occupazione e l’appoggio ai diritti dei lavoratori, recentemente ha adottato il cambiamento climatico come questione centrale del suo programma.

“Tra gli attivisti c’è la sensazione che, quando passano dalle proteste per il clima a quelle per la pace, vedano facce completamente diverse,” dice Ilay Abramovitch, un attivista di Standing Together. “Non si tratta delle stesse persone. Ma se guardi in giro per il mondo vedrai che molti partiti di sinistra hanno il clima in cima al loro programma.”

Abramovitch dice che la visione della sua organizzazione si basa sull’idea che ogni lotta contro il cambiamento climatico debba essere intrapresa insieme ai sindacati e ai gruppi palestinesi. “Crediamo che, quando viene danneggiato l’ambiente, lo sono anche le persone, e quelli che sono più a rischio sono i segmenti più poveri della società e i Paesi più poveri. La nostra lotta deve essere regionale, e ovviamente deve essere di ebrei e arabi insieme.”

Ma anche se il lavoro comune di arabi ed ebrei sui problemi del clima risulta naturale per attivisti come Ghanayem e Abramovich, che sono cittadini di Israele, gli attivisti e gli accademici palestinesi della Cisgiordania si trovano di fronte a una decisione molto più complicata. Mentre si rendono conto che la pianificazione regionale è inevitabile, sono preoccupati che qualunque discussione di collaborazione con gli israeliani sulle questioni climatiche che non affronti l’occupazione serva a normalizzare una situazione politica in cui le comunità palestinesi sono le più vulnerabili al cambiamento climatico.

Ma persino nella sinistra israeliana unire le forze nel movimento ambientalista non sempre sembra una scelta naturale. “Alcune persone chiedono: ‘Cosa c’entra la sinistra con il movimento ambientalista? Perché non ci lasciate continuare a lottare contro l’occupazione?’” Dice Abramovitch. “La gente non capisce pienamente l’opportunità che abbiamo di creare una lotta più ampia occupandoci della crisi climatica.”

Peretz dice che, nonostante il suo ottimismo, è ancora difficile trovare israeliani, persino quelli coinvolti in altre lotte per la giustizia sociale, che vedano il cambiamento climatico come una minaccia immediata. “La lotta ambientalista è vista come una battaglia di privilegiati, soprattutto quando così tanti credono che niente sia più importante della nostra sicurezza nazionale,” dice. “È difficile parlare con la gente di fare di questo un posto migliore. La mentalità è che dovremmo semplicemente essere grati di avere uno Stato nostro – che sia uno Stato buono o giusto è secondario.”

Matan Kaminer è un antropologo e un membro del consiglio di amministrazione dell’Accademia per l’Uguaglianza [organizzazione israeliana per i diritti di tutti i cittadini, ndtr.].

Basma Fahoum è una dottoranda in storia alla Standford University.

Edo Konrad è vice direttore di +972 Magazine.

(traduzione di Amedeo Rossi)