20 marzo 2020 https://mondoweiss.net/
Questo è il primo di una serie bisettimanale di articoli che saranno inviati dalla nostra corrispondente palestinese Yumna Patel che vive a Betlemme, epicentro dell’epidemia di coronavirus in Palestina. Mentre la crisi continua ad acuirsi, Yumna ci dà un quadro della vita quotidiana in città, delle emozioni della gente, dei pensieri e delle paure delle persone.
Le ultime due settimane sono state una girandola di emozioni per il popolo di Betlemme. Sono passati 15 giorni da quando è stato dichiarato lo stato di emergenza e la città è stata messa sotto chiave, dopo la conferma di quattro casi di coronavirus.
Da allora, il numero di persone in strada è costantemente diminuito, il numero di casi confermati ha continuato a salire, sebbene più lentamente rispetto al rapido peggioramento dall’altra parte del muro.
Inutile dire che le persone hanno paura. Non esiste una sola conversazione in cui “corona virus” non sia menzionato nei primi cinque secondi.
Ma, nonostante il blocco e le maggiori restrizioni ai movimenti in tutta la città, c’era un’aria di ottimismo. Nella maggior parte, le persone erano contente del grado di successo con cui l’ANP sembrava affrontare la situazione.
Con chiunque parlassi, sosteneva con orgoglio che la Palestina era il “secondo miglior Paese” dopo la Cina nell’affrontare e rispondere rapidamente al coronavirus. Dopo numerose ricerche su Google, devo ancora trovare conferma di questo.
Che fosse corretta o no, l’opinione espressa da questa voce ha chiaramente avuto un effetto positivo sulle persone.
Dopotutto, nel corso di due settimane abbiamo ancora meno di 50 casi confermati, rispetto ai 500 di Israele.
La maggior parte dei negozi è rimasta chiusa, ad eccezione dei mercati di generi alimentari, e le persone sono rimaste nelle loro case. Pur appartenendo ad una cultura profondamente radicata nei legami di socializzazione e di comunità, le persone hanno messo in pratica il “distanziamento sociale” relativamente bene.
Nonostante nella maggior parte della città – che vive di turismo e del lavoro in Israele – non si lavori, le persone hanno eseguito gli ordini del governo con poche resistenze.
Ma appena è sembrato che potessimo uscire da questo pasticcio prima di quanto ipotizzato, mercoledì sera è invece parso che le cose peggiorassero.
Betlemme e le città vicine, Beit Sahour e Beit Jala, sono state messe in totale isolamento. Ad eccezione di giornalisti, funzionari della sanità e della sicurezza e speciali casi umanitari, a nessuno sarebbe stato permesso di lasciare la propria casa. Chiunque fosse stato sorpreso a violare il blocco sarebbe stato passibile di una multa.
Chiunque fosse stato trovato a violare un autoisolamento o un ordine di quarantena, sarebbe stato multato fino a 1.000 dinari giordani [1.312 €].
Le misure più rigide sono arrivate quando si è scoperto che le persone sospette di avere il virus avevano ignorato l’ordine di quarantena e negli ultimi giorni si erano mosse in giro per la città.
Dopo la notizia del blocco, la città è arrivata al massimo affollamento da settimane, tutti ci siamo precipitati nei negozi per fare scorta di cibo e provviste, non sapendo quando saremmo stati in grado di farlo di nuovo.
Nel campo profughi in cui vivo, i volontari dei centri locali distribuivano sacchi di prodotti e altri generi di prima necessità alle famiglie con situazioni finanziarie particolarmente difficili.
Nonostante il panico, le scene sono state molto più civili di quelle che vedevamo negli Stati Uniti. Gli scaffali erano ben forniti, anche di carta igienica, e nessuno sembrava fare incetta. Le persone stavano comprando ciò di cui avevano bisogno.
Quando i vicini si incontravano, reprimevano la tentazione di stringersi la mano e scambiarsi il tradizionale bacio sulla guancia, optando invece per un sorriso e una mano sul cuore.
Mentre le persone riempivano i loro carrelli di cose essenziali come farina, olio, sale e vari prodotti per l’igiene, c’era un senso di frustrazione tra gli acquirenti: a causa della trascuratezza di alcune persone, l’intera città soffriva più di quanto non avessimo già sofferto.
Nei supermercati si sentivano chiacchiere sull'”egoismo” delle persone che violavano la quarantena e voci su quanto tempo sarebbe durato il nuovo blocco.
Ora più che mai le persone sembravano davvero capire e preoccuparsene quanto le loro azioni potessero influenzare la vita di chi li circonda.
Tutti quelli che conosco, me compresa, siamo rimasti incollati ai notiziari a tutte le ore del giorno e della notte. Non è facile cancellare il turbamento e l’ansia che ne derivano.
Vedere i sistemi sanitari di alcuni dei Paesi più ricchi del mondo sull’orlo del collasso rende ancora più difficile liberarsi del pensiero di cosa accadrebbe se l’epidemia si acuisse in un luogo come la Palestina.
Di certo ospedali già poco attrezzati e scarsamente finanziati non sarebbero in grado di sostenere nemmeno una parte di ciò che stanno affrontando Paesi come l’Italia. Se questo sforzo iniziale di contenimento fallisse, potrebbe portare al disastro per il sistema sanitario, l’economia e il popolo palestinesi.
Ma proprio quando i sentimenti di paura e frustrazione sembravano sopraffarci, venerdì abbiamo ricevuto qualche buona notizia.
Diciassette fra i primi pazienti infettati dal COVID-19, che erano stati messi in quarantena presso l’Angel Hotel di Beit Jala e il Paradise Hotel di Betlemme, sono ufficialmente in fase di recupero, riducendo il numero dei casi confermati a 31.
Video di pazienti sorridenti che agitano le mani mentre lasciano l’hotel sono stati fatti circolare sui social media, facendoci sorridere e restituendo un senso di speranza in città.
Sarà una lunga strada da percorrere, ma potremmo farcela.
(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)