Trattenendo il respiro a Betlemme mentre la primavera ci passa accanto

Una via di Betlemme deserta (Foto: Yumna Patel/Mondoweiss)
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Yumna Patel  

24 marzo 2020 – Mondoweiss

È difficile resistere al richiamo della primavera palestinese, che mi attrae alla finestra con raggi di sole, una fresca brezza e gli uccelli che cinguettano.

La fine di marzo e l’inizio di aprile sono spesso visti come la stagione più bella in Palestina.

Sui mandorli fioriscono i pallidi fiori rosa e le foglie verde scuro dei fichi iniziano a svettare dopo un inverno particolarmente freddo.

È un periodo in cui la maggior parte dei palestinesi di Betlemme si radunerebbe con la famiglia e gli amici e si dirigerebbe sulla cima delle colline di Beit Jala, i ventosi sentieri della valle al- Makhrour e gli antichi terrazzamenti di Battir.

Ma quest’anno gli abitanti della piccola città di Betlemme rimpiangono il passaggio della primavera in quarantena, mentre il blocco totale della città entra nella sua quarta settimana.

Il piccolo assaggio della primavera che possono ritrovare dovrà essere assaporato da dentro le loro case, da un balcone o, se sono fortunati, in un giardino di famiglia.

Il numero di casi di coronavirus in Palestina ha raggiunto i 60 – 58 nella Cisgiordania occupata e 2 nella Striscia di Gaza.

La grande maggioranza dei casi, circa 40, rimane a Betlemme, l’epicentro dell’epidemia in Palestina.

La scorsa settimana abbiamo ricevuto qualche buona notizia molto attesa, quando il ministero della Salute ha annunciato che 17 dei primi pazienti di COVID-19 di Betlemme sono convalescenti.

In seguito ci è stato detto che uno dei 17 a quanto pare ha avuto una ricaduta ed è risultato positivo al virus dopo essere stato dimesso. Un piccolo incidente di percorso. La cosa importante è stata che pare che siamo riusciti con successo ad “appiattire la curva” [dei contagi].

È stato sorprendente vedere una società così profondamente caratterizzata da legami comunitari e da interazioni sociali, praticare così bene il concetto di distanziamento sociale.

A Betlemme per lo più la gente ha seguito gli ordini del governo di stare a casa, uscendo solo per ragioni indispensabili, come andare dal dottore o comprare alimenti.

Le attività economiche sono rimaste chiuse, la polizia ha incrementato i posti di blocco attorno alla città ed è stato imposto e, per quanto ne sappiamo, rispettato il coprifuoco dalle 7 del mattino alle 7 di sera.

Mentre le moschee e le chiese una volta affollate sono vuote, il richiamo musulmano alla preghiera risuona ancora in città – solo che ora con una piccola modifica. Invece di chiamare la gente a radunarsi nella moschea per pregare, ai fedeli viene detto di starsene a casa.

Ogni due o tre giorni lavoratori della difesa civile o delle amministrazioni locali vengono a disinfettare diversi quartieri in tutta la città e il ministero della Salute fornisce alla gente dati significativi sulla diffusione del virus.

A Betlemme si spera che le rigide misure di contenimento che sono state attuate quando tre settimane fa il primo test è risultato positivo faranno in modo che la città possa essere liberata del virus prima del resto del Paese.

Questa speranza tuttavia non annulla il vero timore che circonda il fatto che il virus si stia diffondendo in altri luoghi della Cisgiordania: finora Hebron, Ramallah, Nablus e Tulkarem.

Saranno in grado le autorità di questi altri governatorati, alcuni dei quali sono grandi il doppio o il triplo di Betlemme, di mettere in atto le stesse misure di contenimento che hanno preso quelle di Betlemme?

I cittadini palestinesi che stavano vivendo e studiando all’estero stanno lentamente ritornando nel Paese, suscitando timori che in questo modo il virus si possa diffondere.

Martedì il governo ha annunciato che una donna palestinese che recentemente era tornata dagli USA è risultata positiva al test per il virus ed è stata messa in quarantena a Ramallah.

Sette studenti palestinesi che stavano studiando in Italia in coordinamento tra l’Autorità Nazionale Palestinese e il governo israeliano sono stati portati in Israele e sarebbero immediatamente stati messi in quarantena e testati per il virus.

E mentre la percezione generale dell’ANP durante questo periodo è prevalentemente positiva, l’efficienza della sua organizzazione recentemente è stata messa in dubbio dopo un video scioccante diffuso sulle reti sociali che ha mostrato un lavoratore palestinese gettato dalle forze israeliane dall’altra parte di un posto di blocco in Cisgiordania, dopo che l’uomo ha iniziato a manifestare sintomi del virus.

L’ANP ha promesso ai lavoratori e alle loro famiglie che da parte dei loro datori di lavoro [israeliani] gli sarebbero state fornite sistemazioni adeguate per il mese o due in cui saranno obbligati a rimanere in Israele, nel caso scelgano di andarvi a lavorare la scorsa settimana.

Ha anche promesso alla cittadinanza in generale che il ritorno di tutti i lavoratori sarà fatto in stretto coordinamento con il governo israeliano e che chiunque sarà immediatamente messo in quarantena al suo ritorno.

Ma se Israele continua a scaricare al di là del confine i lavoratori ogni volta che sono malati, senza avvertire in precedenza i funzionari dell’ANP, come potrebbe il governo gestire la situazione?

Per molti palestinesi la decisione del governo di consentire ai lavoratori di andare in Israele, dove i casi sono oltre i 1.000, è stato un grave errore e nelle prossime settimane potrebbe dimostrarsi una spina nel fianco dell’ANP, sia riguardo gli sforzi di contenimento e nei termini della salvaguardia dell’ordine pubblico.

In fin dei conti i palestinesi sono tutti consapevoli del fatto che il loro sistema sanitario non può affrontare neppure la più piccola epidemia, soprattutto a Gaza, dove ci sono solo 62 ventilatori in tutto il territorio, che ospita più di 2 milioni di abitanti.

Mentre stiamo per entrare nella quarta settimana di quarantena, le persone stanno trattenendo il respiro per vedere se, in qualche modo, riescono a evitare il disastro che sta dilagando in tutto il resto del mondo.

Yumna Patel è la corrispondente di Mondoweiss dalla Palestina.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)