Coronavirus: ai lavoratori palestinesi viene ordinato di lasciare Israele a causa del cattivo trattamento

Il controllo sanitario ad un lavoratore palestinese di una colonia illegale a un checkpoint nella città di Hebron. ( AFP)
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Akram Al-Waara – Betlemme, Cisgiordania occupata

giovedì 26 marzo 2020 – Middle East Eye 

L’Autorità Nazionale Palestinese chiede a tutti i suoi cittadini di rientrare a casa in quanto Israele è accusato di “mettere a rischio la loro salute”

I lavoratori palestinesi lasciano Israele dopo l’indignazione suscitata da diversi casi di operai malati cacciati dai loro datori di lavoro israeliani.

Effettivamente negli ultimi giorni parecchi operai palestinesi che lavoravano in Israele sono stati scaricati ai checkpoint tra Israele e il nord della Cisgiordania dopo aver presentato sintomi di COVID-19.

All’inizio di questa settimana le immagini video di un lavoratore malato e indebolito, steso a terra per ore davanti a un checkpoint della regione di Ramallah dopo esservi stato abbandonato dalle autorità israeliane, sono diventate virali, mettendo in discussione il trattamento riservato da Israele ai lavoratori palestinesi.

Oggi l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ordina a tutti i suoi cittadini che lavorano in Israele di tornare in Cisgiordania e di entrare in quarantena obbligatoria di 14 giorni, a pena di sanzioni non precisate da parte del governo.

Tenuto conto degli sviluppi gravi e continuati in Israele e delle restrizioni previste in materia di spostamenti, chiediamo a tutti i lavoratori palestinesi di rientrare a casa allo scopo di proteggerli e preservare la loro sicurezza”, ha dichiarato martedì il Primo Ministro dell’ANP Mohammad Shtayyeh in un comunicato.

Giovedì scorso Shtayyeh aveva annunciato che i palestinesi erano ormai sottoposti anche al divieto di lavorare nelle colonie israeliane illegali nel territorio occupato.

Questa decisione è intervenuta solo qualche giorno dopo che migliaia di lavoratori si erano precipitati in Israele in seguito alla promessa che si sarebbe dato loro un adeguato alloggio da parte dei loro datori di lavoro israeliani e sarebbero stati autorizzati a rimanere anche di notte in Israele, in modo da evitare la propagazione del virus in Cisgiordania – un’opportunità per innumerevoli lavoratori di provvedere alle necessità della propria famiglia in un contesto di incremento della disoccupazione durante la pandemia.

Sistema inquietante

Negli ultimi giorni sono stati registrati almeno quattro incidenti che hanno coinvolto operai palestinesi abbandonati ai posti di controllo dalle forze israeliane.

Lunedì Ibrahim Abu Safiya, del villaggio di Beit Sira, nella regione di Ramallah, ha raccontato a Middle East Eye di aver visto un operaio palestinese, in seguito identificato come Malek Jayousi, steso a terra davanti al locale checkpoint con febbre alta e difficoltà respiratorie.

Abu Safiya ha detto che la sera prima anche un altro operaio, del campo profughi di Jalazone nel governatorato di Ramallah, si era presentato al posto di controllo di Beit Sira con febbre alta, dopo che il suo datore di lavoro gli aveva tolto il lavoro in Israele.

L’uomo, che si sarebbe visto rifiutare le cure mediche in Israele, è arrivato da solo al checkpoint in taxi, prima di essere trasferito a Ramallah in ambulanza.

Martedì sera i media palestinesi hanno riferito che tre operai erano stati abbandonati dalle autorità israeliane ad un posto di controllo vicino a Tulkarem ed un altro davanti al posto di controllo di Jbara, vicino a Hizma, nella Cisgiordania centrale.

Le informazioni precisano che parecchi degli operai erano sintomatici, con febbre alta, a volte più di 40 gradi. Tutti i lavoratori sarebbero stati sottoposti a test per coronavirus da parte di medici locali e posti in isolamento.

Il portavoce dell’ANP, Ibrahim Melhem, ha condannato il trattamento israeliano “razzista e disumano” dei lavoratori palestinesi.

Se dovete lavorare per guadagnarvi da vivere, allora che sia con dignità e non in questo modo degradante”, ha affermato in un comunicato rivolto alle migliaia di operai palestinesi che lavorano in Israele.

Ribal Kurdi, un attivista di Betlemme di 29 anni, ha dichiarato a MEE di essere rimasto sconvolto e indignato vedendo come i lavoratori che presentavano sintomi della malattia venivano trattati dalle autorità e dai datori di lavoro israeliani.

Israele voleva che i lavoratori venissero nel Paese a lavorare”, ricorda Kurdi. “Ma (gli israeliani) non vogliono più farsene carico quando i lavoratori si ammalano”.

L’occupazione israeliana dovrebbe essere responsabile della vita dei lavoratori palestinesi”, sostiene.

I datori di lavoro non ci hanno dato niente” 

Secondo le associazioni di difesa dei diritti umani, la decisione presa la scorsa settimana di autorizzare i lavoratori a rimanere in Israele anche di notte – contrariamente alla usuale politica di Israele in materia di permessi di lavoro – per un periodo prolungato, allo scopo di evitare una nuova diffusione del COVID-19, era viziata fin dall’inizio.

Kav LaOved, un’associazione israeliana di difesa dei diritti dei lavoratori, ha dichiarato in un comunicato pubblicato su Facebook il 18 marzo che “purtroppo la maggioranza degli interlocutori israeliani non ha rispettato gli impegni presi riguardo all’offerta di una sistemazione adeguata e sicura ai lavoratori”.

Insieme a fotografie di centinaia di operai bloccati a un checkpoint non identificato, l’associazione ha anche affermato che non era stata presa alcuna misura per “assicurare una protezione sanitaria nel caso in cui un lavoratore fosse esposto” al coronavirus.

Secondo Kav LaOved circa 60.000 palestinesi lavorano in Israele, soprattutto nell’edilizia e in agricoltura. Si stima che altri 30.000 lavorino nelle colonie israeliane in Cisgiordania.

Kav LaOved, l’Associazione per i Diritti Civili in Israele (ACRI) e Medici per i Diritti Umani hanno preteso che il governo israeliano – in particolare il Ministro della Difesa Naftali Bennett, che aveva approvato l’ingresso dei lavoratori – tuteli i diritti dei lavoratori palestinesi durante la pandemia.

Abbiamo contattato i Ministeri del Lavoro, della Sicurezza e della Sanità per esigere che il governo verifichi il lavoro di questi lavoratori ed il loro soggiorno qui, e protegga i loro diritti. Abbiamo chiesto specificamente alloggi accettabili e assistenza sanitaria”, ha dichiarato un portavoce dell’ACRI a MEE.

Ma finora gli sforzi di queste ONG sono stati vani.

A., un lavoratore che ha trascorso parecchie notti in Israele, ha confidato a MEE in forma anonima che lui ed i suoi colleghi sono stati costretti a dormire su dei cartoni nel cantiere edile dove lavoravano e non hanno ricevuto nessuna protezione igienica come guanti, mascherine o disinfettante per le mani.

È molto diverso da quello che ci avevano detto”, lamenta. “I nostri datori di lavoro non ci hanno dato niente e se ti ammali ti mandano via senza la minima cura”.

Mercoledì il numero dei casi di coronavirus accertati in Palestina è arrivato a 62 – contro gli oltre 2.100 casi confermati in Israele.

Wafa, l’agenzia di stampa ufficiale dell’ANP, ha riferito che uno dei nuovi casi confermati, una donna sulla sessantina del villaggio di Biddu, vicino a Ramallah, “potrebbe aver contratto la malattia dai suoi figli che lavorano in Israele”.

Ribal Kurdi ha insistito sul fatto che non è stata colpa degli operai che andavano a lavorare in Israele. “Hanno dovuto scegliere tra mantenere la propria famiglia o ammalarsi. È una situazione spaventosa”, ha dichiarato l’attivista. In fin dei conti, secondo lui, “è l’occupazione israeliana ad essere responsabile di mettere a rischio la salute di tutta la Cisgiordania”.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)