Israele. Jonathan Pollard, la spia che venne dal caldo

Johnathan Pollard
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Sylvain Cypel

27 novembre 2020 – Orient XXI

Incarcerato nel novembre 1985 per spionaggio a favore di Israele e condannato all’ergastolo negli Stati Uniti nel marzo 1987, Jonathan Pollard ha goduto nel 2015 della libertà condizionata. Le restrizioni alla sua libertà di movimento sono state tolte questo 20 novembre dall’amministrazione Trump e ora può andare a vivere in Israele. Le reali motivazioni della sua incriminazione non sono mai state divulgate dalle autorità americane.

Siamo nell’ottobre 1998. Cinque anni dopo la firma degli accordi di Oslo, il 13 settembre 1993, il presidente americano Bill Clinton sogna di terminare il suo secondo mandato con un successo: far firmare una pace definitiva a israeliani e palestinesi. Ma in Medio Oriente niente sembra muoversi. O forse sì. Dopo l’arrivo al potere in Israele di un giovane politico ultranazionalista, Benjamin Netanyahu, le cose sembrano regredire. Non si negozia più niente e la colonizzazione dei territori palestinesi si rafforza ogni giorno. Quindi nella località di Wye River, in Maryland, Clinton riunisce Yasser Arafat e quello stesso Netanyahu, con cui ha pessimi rapporti. Era avvenuto lo stesso con il suo predecessore, George Bush padre (presidente dal 1989 al 1993), il cui segretario di Stato James Baker aveva fatto di Netanyahu una persona non grata, non benaccetta negli uffici di Washington.

Arafat va a Wye River sperando di firmare un accordo che estenda il suo potere e di far passare la zona di autogoverno palestinese in Cisgiordania, detta Zona A, almeno dal 13% al 30% del territorio. Ma Netanyahu è inflessibile. Propone di concedere ai palestinesi… l’1% di territorio in più. “È troppo,” avrebbe ironizzato Arafat, “perché non lo 0,1%?” I negoziati vanno male. Alla fine viene firmato un testo che promette di continuare le discussioni senza nessun progresso sostanziale. Ma, dopo aver firmato, Netanyahu torna da Clinton. “Presidente”, gli dice in sostanza, “ho da chiederle una cosa. Ho fatto tali e tante concessioni ad Arafat che mi sento in obbligo di tornare dal mio popolo con un elemento positivo. Mi conceda di portare con me Jonathan Pollard.”

Un “eroe” dell’estrema destra israeliana

Dopo qualche anno Pollard è effettivamente diventato un “eroe” dell’estrema destra israeliana, che presenta la sua incarcerazione come una manifestazione di antisemitismo. Di fatto il suo caso non sembra giustificare un ergastolo. In più, sostiene questa estrema destra, Pollard ha agito con l’unico obiettivo di proteggere Israele, un alleato incondizionato degli Stati Uniti. In breve diventa una sorta di prigioniero di coscienza. Se riuscisse a riportare in Israele Pollard insieme ai suoi bagagli, spiega Netanyahu a Clinton, riuscirà a farsi perdonare dalla tendenza colonialista israeliana più radicale per aver accettato di stringere la mano ad Arafat, questo “capo terrorista”, a Wye River. Ma Clinton rifiuta.

Il capo della CIA e il capo di stato maggiore della marina minacciano di dare le dimissioni se acconsento a questa richiesta,” avrebbe risposto. Le cose rimarranno così. Nessuno ha mai saputo se Clinton avesse veramente consultato quei due responsabili della sicurezza americana o se si fosse nascosto dietro la loro nota posizione per mascherare il suo rifiuto.

Chi è quindi questo Pollard, che marcisce in carcere e che ci deve passare trent’anni?

Analista nei servizi di informazione della marina americana, ha 31 anni quando viene arrestato nel 1985. È processato due anni dopo per “spionaggio a favore di uno Stato straniero” (in questo caso Israele). L’essenza dei motivi dell’accusa non viene specificata, ufficialmente per non divulgare i segreti che Pollard avrebbe reso noti. Gli anni passano, circolano voci: l’uomo, lasceranno filtrare i servizi americani, avrebbe fornito agli israeliani delle foto satellitari americane dei locali dell’OLP a Tunisi, che avrebbero consentito loro di assassinare in seguito alti dirigenti di quest’organizzazione. Un’accusa in verità poco plausibile: in primo luogo, la semplice divulgazione di quelle immagini difficilmente avrebbe potuto giustificare l’ergastolo. Inoltre, se è effettivamente avvenuto un bombardamento israeliano dei locali dell’OLP un mese prima dell’incarcerazione di Pollard, l’azione più grave, l’assassinio a Tunisi di Abu Jihad, il numero 2 dell’OLP, da parte di un commando israeliano è avvenuta…tre anni dopo il suo arresto. Infine i servizi israeliani disponevano verosimilmente di tutte le foto necessarie e non avevano bisogno dei loro alleati americani per agire. In breve la questione dei motivi reali per cui gli Stati Uniti hanno rifiutato per trent’anni di liberare questo “prigioniero di coscienza” un po’ particolare restano da scoprire.

Una volta che Pollard ha riconquistato appieno la sua libertà di movimento, un ex-capo della sede della CIA in Israele, Stephen Slick, ha dichiarato al Washington Post che “l’affaire Pollard è servito per dissuadere efficacemente i nostri alleati che sarebbero tentati di approfittare del loro rapporto bilaterale relativo alla sicurezza con noi.” In altri termini l’amministrazione americana al potere all’epoca del suo processo (in cui si era dichiarato colpevole) e tutte quelle che si sono succedute fino a Trump avrebbero ritenuto che la sua pena, indipendentemente dalle dimensioni e dal valore reale delle informazioni fornite da Pollard agli israeliani, dovesse servire da esempio. Attraverso Pollard, non è stata la sua persona ad essere presa di mira, ma in primo luogo la politica di uno Stato: Israele. Sulla base di questa ipotesi, il messaggio subliminale dell’atteggiamento inflessibile degli americani per trent’anni sarebbe che un alleato non può agire in modo così subdolo, qualunque sia la gravità del reato. Ci crede chi vuole credere che gli alleati non si spiino tra loro…

Un agente profumatamente pagato

Ma ci potrebbe essere di più. In primo luogo l’atteggiamento di Pollard prima della sua incarcerazione non favorisce la tesi del “prigioniero di coscienza”. È stato lautamente remunerato dal Mossad [servizio di intelligence estera di Israele, ndtr.] (si parla di 540.000 dollari dell’epoca, cioè 1.307.000 dollari attuali (1.097,000 euro), in sei o sette anni di “lavoro”). Ma prima di farsi pagare i suoi servigi dagli israeliani – è lui che si è rivolto a loro, non il contrario – aveva anche testato il terreno presso altri attori che immaginava fossero potenzialmente interessati alle sue informazioni: il Sudafrica dell’apartheid, la Cina popolare, il Pakistan, ricorda oggi Gideon Levy su Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.].

Pollard sostiene di non aver agito che per motivazioni sioniste, ma ecco quanto valeva allora la sua coscienza”, ironizza il giornalista israeliano. Nel 1976, sette anni prima di diventare uno spione a pagamento, Pollard, uscito dall’università, aveva tentato di entrare nella CIA. Ammissione negata per non aver superato con successo il test con la macchina della verità. Un chiacchierone (blabbermouth) che parla a vanvera, avevano ritenuto i suoi esaminatori.

In seguito, contrariamente a quello che sostengono da trent’anni i circoli sempre più ampi dell’opinione pubblica israeliana (nel 1995 Pollard si è visto concedere la cittadinanza israeliana), forse è stato tenuto in carcere senza pietà (fino a Trump) non perché ha fornito ai suoi committenti solo delle informazioni di scarsa importanza, ma altre molto più critiche. È la tesi che aveva approfondito nel 1999 sul New Yorker [importante rivista USA, ndtr.] il giornalista d’inchiesta Seymour Hersh in un articolo intitolato “Il traditore”. All’epoca Hersh era una stella del giornalismo. Era stato lui che nel 1969 aveva rivelato il massacro commesso da un battaglione americano contro 300 civili vietnamiti nel villaggio di My Lai. Spesso discusso, questo giornalista d’inchiesta in acque profonde tornerà a ripetersi 34 anni dopo, quando nel maggio 2004 rivelerà, in tre successivi articoli, con testimonianze e foto a supporto, le terribili torture inflitte dai soldati americani a prigionieri irakeni ad Abu Ghraib.

Durante la sua lunghissima carriera Hersh ha coltivato contatti di prim’ordine all’interno dei servizi di sicurezza americani, a cominciare dalla CIA. La tesi che ha sostenuto 22 anni fa non è stata né smentita né confermata da fonti ufficiali americane. Ha tuttavia come principale pregio il fatto di essere suffragata da numerose testimonianze e di fornire una spiegazione molto più plausibile della vendetta americana contro Pollard, ma anche contro l’atteggiamento generale dei dirigenti israeliani. In sintesi, questa tesi è la seguente: Pollard venne reclutato dagli israeliani nel momento in cui il regime sovietico cominciava a vacillare, poco prima dell’arrivo di Mikhail Gorbaciov al potere. È stato in grado di fornire al suo referente dell’Ufficio dei Contatti scientifici israeliani (Lakam in ebraico) Rafi Eitan (che in seguito diventerà capo del Mossad) informazioni di cruciale importanza, in particolare sui sistemi e codici della National Security Agency (NSA), la più grande agenzia americana di spionaggio e di intercettazioni.

Allora gli israeliani iniziarono negoziati per consentire l’uscita di ebrei sovietici verso il loro Paese. Hersh nota che in un primo tempo gli israeliani erano particolarmente interessati agli “scienziati ebrei che lavoravano sulle tecnologie missilistiche e sulle questioni nucleari,” un’informazione che gli era stata passata da “un alto grado che ha fatto una lunga carriera alla CIA come capo della sede in Medio Oriente.” Secondo questo responsabile dello spionaggio americano Israele avrebbe “barattato queste informazioni con l’uscita [dall’URSS] di persone che desiderava far arrivare.”

A favore dell’URSS?

Hersh cita le affermazioni di William Casey, capo della CIA all’epoca e personaggio fino ad allora molto vicino ai dirigenti israeliani. Un mese dopo l’arresto di Pollard, costui dichiarò stupefatto: “Gli israeliani hanno utilizzato Pollard per ottenere tutti i nostri piani di attacco contro l’URSS – le coordinate, le zone di tiro, le sequenze, tutto! E per darle a chi? Indovinate: ai sovietici!” Cita anche un ammiraglio in congedo che gli ha dichiarato: “Non c’è alcun dubbio che i russi siano entrati in possesso di molte delle informazioni che Pollard ha fornito. La sola domanda è: come hanno fatto?”

Secondo Hersh fu la NSA, l’agenzia delle intercettazioni, ad essere stata la più “saccheggiata” da Pollard. Il suo manuale di lavoro, il Rasin (acronimo in inglese di “notazione di radio-segnale”) è stato integralmente fotocopiato da Pollard, che l’ha fornito agli israeliani prima che finisse in un cassetto del KGB. Hersh sostiene che nella sua dichiarazione segreta consegnata ai giudici, il ministro della Difesa americano al momento del processo, Caspar Weinberger, evocò quest’ultimo fatto come l’elemento chiave per la richiesta del massimo della pena contro Pollard.

In fondo Hersh suggerisce non solo che Pollard non abbia agito solo per alti motivi morali, ma che il livello massimo di punizione che gli è toccato non fosse semplicemente dovuto alle sue azioni. Attraverso lui fu Israele ad essere preso di mira per aver rotto le regole usuali tra alleati e amici, come ha detto William Casey, con metodi inqualificabili persino agli occhi di agenti segreti professionali. Hersh racconta che, quando la Casa Bianca, sotto Clinton, chiese ai servizi di intelligence un rapporto sull’affare Pollard, tredici anni dopo il processo, uno degli estensori del rapporto dichiarò, “in modo un po’ scherzoso”: “Io avrei immediatamente tolto di mezzo ogni obiezione alla liberazione di Pollard se il governo israeliano avesse risposto a due richieste: primo, dateci la lista completa di tutto quello che avete ricevuto [da Pollard], poi diteci quello che ne avete fatto.” In altri termini: ammettete che l’avete dato ai sovietici.

E Mordechai Vanunu?

Oggi la destra nazionalista e colonialista israeliana festeggia la fine della libertà condizionata come se si trattasse di un atto di giustizia. Ma si levano alcune voci fuori dal coro. Gideon Levy nota che si fa di Pollard un “eroe di Sion”, quando si tiene in carcere in Israele persino uno che ha lanciato un allarme, Mordechai Vanunu, ex-tecnico della centrale atomica di Dimona, il cui unico reato è stato di aver rivelato la realtà delle ricerche nucleari militari israeliane. Condannato nel 1988 a 18 anni di carcere (ne passerà 11 in isolamento totale), dalla sua liberazione rimane sottoposto a molteplici divieti di esprimersi o di incontrare stranieri, motivo per cui è stato condannato di nuovo a varie riprese. Considerato un prigioniero d’opinione dalle associazioni per la difesa dei diritti umani, è costantemente perseguitato dalle forze di sicurezza israeliane.

Sylvain Cypel

È stato membro del comitato di redazione di Le Monde [principale giornale francese, ndtr.] e in precedenza direttore della redazione del Courrier international [settimanale francese simile ad Internazionale, ndtr.]. È autore de Les emmurés. La société israélienne dans l’impasse  [I murati vivi. La società israeliana a un punto morto] (La Découverte, 2006) e de L’État d’Israël contre les Juifs  [Lo Stato di Israele contro gli ebrei ](La Découverte, 2020).

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)