Boicottaggio di Israele. La Francia cerca di aggirare le decisioni della giustizia europea

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François Dubuisson

14 dicembre 2020 – Orient XXI

Con una recente sentenza la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato la Francia ed ha confermato la legalità degli inviti al boicottaggio dei prodotti israeliani. Invece di adeguarsi a questa decisione, Parigi tenta di aggirarla in spregio alle leggi.

Nel giugno 2020, pronunciando una sentenza che condanna la Francia nella causa Baldassi [militante del BDS condannato da un tribunale francese, ndtr.], la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha posto fine, in linea di principio, ad una lunga controversia giudiziaria sulla legalità degli inviti al boicottaggio dei prodotti che arrivano da Israele lanciati da diverse ong nel quadro della campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), avviata nel 2005 dalla società civile palestinese.

Le autorità francesi si sono distinte a livello mondiale, avendo spinto il potere giudiziario ad applicare agli inviti dei cittadini al boicottaggio di prodotti israeliani la legislazione penale relativa all’ “incitamento all’odio e alla discriminazione” (articolo 4, comma 8 della legge del 29 luglio 1881 sulla libertà di stampa). Questa politica si è concretizzata il 12 febbraio 2010 con l’adozione della “circolare Alliot-Marie (dal nome dell’allora ministra della Giustizia Alliot-Marie) che chiedeva alle procure di equiparare gli appelli al boicottaggio a “istigazioni alla discriminazione” e di avviare sistematicamente delle azioni penali.

La giurisprudenza in materia si è rivelata piuttosto controversa, alcuni giudici hanno preferito in sostanza far prevalere la libertà d’espressione sui provvedimenti repressivi. La questione è stata regolamentata dalla Corte di Cassazione, che in una sentenza del 2015 ha confermato, con una motivazione piuttosto approssimativa, la sanzione penale nei confronti dell’appello al boicottaggio dei prodotti israeliani.

Libertà d’espressione

Avendo ricevuto un ricorso sulla questione, la CEDU ha ritenuto che la condanna di una serie di militanti per aver partecipato a un’azione di boicottaggio in un supermercato fosse contraria alla libertà d’espressione. La Corte ha rilevato che “secondo quanto interpretato e applicato nel caso specifico, il diritto francese vieta ogni appello al boicottaggio di prodotti in base all’origine geografica, qualunque sia il tenore di questo appello, i suoi motivi e le circostanze in cui si inscrive”, cosa che aveva portato il giudice nazionale a considerare “in linea generale che l’invito al boicottaggio costituisse un’esortazione alla discriminazione.” Ora, secondo la Corte Europea, nello specifico ci si trova in presenza di questioni relative “all’espressione politica e militante”, riguardante “un argomento di interesse generale, quello del rispetto del diritto internazionale pubblico da parte dello Stato di Israele e della situazione dei diritti dell’uomo nei territori palestinesi occupati”. Ciò implica “un notevole livello di protezione del diritto alla libertà d’espressione.”

La Corte ne ha concluso che “l’appello al boicottaggio”, anche se è “fonte di polemiche (…), non esclude l’interesse pubblico, salvo che esso degeneri in un appello alla violenza, all’odio o all’ intolleranza.” Per queste ragioni la CEDU ha stabilito che la Francia ha violato il diritto alla libertà d’espressione, in quanto il giudice nazionale non ha “applicato le norme conformi ai principi sanciti dall’articolo 10” e non si è “basato su una valutazione ammissibile dei fatti.

Parigi insiste e firma

Dopo questa sentenza ci si poteva aspettare che le autorità francesi abrogassero le circolari che raccomandavano di perseguire le azioni di boicottaggio e in cambio indicassero che in linea di principio esse sono protette dalla libertà d’espressione. Sarebbe stata così applicata la legge ordinaria riguardante ogni discorso politico: solo l’identificazione di affermazioni specifiche che degenerino nell’antisemitismo potrebbe portare all’avvio di un procedimento penale.

Invece è stata privilegiata un’altra via, che dà l’impressione che la Francia intenda minimizzare la sentenza della Corte e conservare, almeno in apparenza, il principio della perseguibilità dell’appello al boicottaggio dei prodotti israeliani. Infatti il 20 ottobre 2020 il ministro della Giustizia francese Éric Dupont-Moretti ha fatto diffondere una nuova circolare (una “nota”) “relativa alla repressione degli inviti discriminatori al boicottaggio dei prodotti israeliani” con la quale si riafferma la base giuridica delle azioni penali, semplicemente accompagnata dal requisito più stringente della “motivazione delle sentenze di condanna.” In modo piuttosto contorto questa circolare spiega che si dovranno avviare azioni penali solo se “i fatti, considerati in concreto, rappresentano un invito all’odio o alla discriminazione,” verificando come il “tenore” dell’appello al boicottaggio in questione, le sue “motivazioni” e le sue “circostanze” ne svelino la natura criminosa. Precisa inoltre che il “carattere antisemita dell’appello al boicottaggio” può derivare non solo da “parole, gesti e scritti” che l’accompagnino, ma si può altresì “dedurre dal contesto”.

La circolare conclude che “le azioni di boicottaggio dei prodotti israeliani sono, a queste condizioni, sempre suscettibili di rappresentare il reato di stampa di istigazione pubblica alla discriminazione nei confronti (…) di un gruppo di persone in base alla loro appartenenza ad una Nazione.”

Il ministro dunque della sentenza della CEDU non prende in considerazione che la necessità di motivare in modo più preciso le condanne, ma non mette in alcun modo in discussione più approfonditamente il principio stesso della repressione dell’invito al boicottaggio. Ora, come si è visto, la CEDU ha condannato precisamente l’interpretazione data dal diritto francese, che ha finito per vietare ogni appello al boicottaggio di prodotti “in base alla loro origine geografica”, motivata dal desiderio che il diritto internazionale venga applicato ad Israele, che beneficia di una protezione potenziata rispetto alla libertà d’espressione.

Da questo punto di vista la circolare non spiega affatto in cosa dovrebbero consistere gli elementi di contenuto o di contesto suscettibili di rendere “discriminatorio” o “antisemita” un appello al boicottaggio dei prodotti israeliani, che la Corte europea stima assolutamente leciti, essendo solo delle affermazioni o delle azioni diverse che possano farlo “degenerare” a causa della loro dimensione violenta, piena d’odio o intollerante.

Giocando costantemente sull’ambiguità, la direttiva ministeriale tenta di conservare immutata l’interpretazione riguardo all’intrinseca tendenza discriminatoria dell’appello al boicottaggio. Il giudice è semplicemente invitato ad esplicitare ulteriormente la sua motivazione.

Una definizione dell’antisemitismo al servizio della repressione

La circolare rinvia in particolare all’esame dei “motivi” e dell’“intenzione” dei militanti per valutare il carattere delittuoso dell’appello al boicottaggio. Nella sentenza Baldassi la Corte ha tuttavia constatato che la campagna BDS riguarda l’espressione di opinioni politiche che mirano al rispetto del diritto internazionale da parte di Israele, una questione di interesse generale. Si fa quindi fatica a comprendere quali motivi o intenzioni che animano normalmente i militanti potrebbero rendere discriminatorio l’invito al boicottaggio, o quale “contesto” lo renda antisemita, se non facendo riferimento a un giudizio generale sul movimento BDS come espressione di un soggiacente antisemitismo, sulla base della definizione di antisemitismo adottata nel 2016 da un’organizzazione internazionale, l’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto (l’International Holocaust Remembrance Alliance, IHRA), che riunisce 34 Stati membri, principalmente europei. I problemi posti da questa definizione riguardo alla libertà di critica della politica d’occupazione israeliana sono stati sottolineati molto spesso, tenendo conto del fatto che una maggioranza di esempi citati come forma contemporanea di antisemitismo è legata allo Stato di Israele “percepito come una collettività ebraica”. Ciò non ha impedito che la definizione venisse adottata in diverse forme e con una certa ambiguità in particolare da diversi Stati, istituzioni europee (parlamento e consiglio) o da partiti politici.

In Francia la “risoluzione Maillard” “intesa a lottare contro l’antisemitismo” presentata all’Assemblea Nazionale il 20 maggio 2019 intendeva confermare l’idea secondo la quale “l’antisionismo è una delle forme moderne dell’antisemitismo.” Alla fine la risoluzione è stata adottata il 3 dicembre 2019, ma in una versione mitigata, che non cita più espressamente l’antisionismo; ma essa accoglie comunque la definizione “operativa” dell’IHRA, presentata come “uno strumento efficace di lotta contro l’antisemitismo nella sua forma moderna e rinnovata, in quanto essa ingloba le manifestazioni di odio nei confronti dello Stato di Israele giustificate dalla sola percezione di quest’ultimo come collettività ebraica,” e destinata a “sostenere le autorità giudiziarie e repressive nei tentativi che esse compiono per individuare e perseguire gli attacchi antisemiti in modo più efficiente ed efficace.”

Si può quindi temere che il ragionamento che si trova alla base della nuova circolare ministeriale consista nell’isolare in modo artificioso elementi del linguaggio che accompagnano la campagna o le azioni del boicottaggio per farle corrispondere a certi esempi forniti a illustrazione della definizione dell’IHRA, e individuare così una dimensione discriminatoria o motivata dall’odio dei discorsi in questione. Senza entrare in troppi dettagli, si possono menzionare alcuni elementi degli esempi della definizione dell’IHRA che potrebbero essere attivati per tentare di “rimettere sotto accusa” gli inviti al boicottaggio.

Il trattamento discriminatorio nei confronti dello Stato di Israele”

Il primo luogo, in termini molto generali, le spiegazioni date dall’IHRA riguardo alla sua definizione suggeriscono che, certo, “criticare Israele non può essere considerato antisemita,” ma a condizione che la critica sia espressa “come si criticherebbe qualunque altro Stato.” Questa esigenza estremamente vaga è illustrata da uno degli esempi citati di seguito, che definisce antisemita “il trattamento discriminatorio nei confronti dello Stato di Israele, al quale si chiede di adottare dei comportamenti che non sono né previsti né richiesti a qualunque altro Stato democratico.” Un altro esempio è quello che rinvia al fatto di affermare che “l’esistenza dello Stato di Israele è frutto di un’impresa razzista,” consapevoli del fatto che la campagna BDS è ispirata a quella messa in pratica contro il regime razzista del Sudafrica e fa riferimento al carattere di apartheid che rappresenterebbe la politica israeliana di occupazione e di gestione della popolazione palestinese.

Questi esempi della definizione dell’IHRA sono ampiamente utilizzati dai difensori dello Stato di Israele per definire antisemiti discorsi o campagne che si limitano invece a una critica perfettamente legittima delle politiche concrete che violano il diritto internazionale e i diritti della popolazione palestinese. Il movimento BDS è spesso accusato di antisemitismo sulla base della definizione dell’IHRA. In modo significativo nel maggio 2019 il Bundestag [parlamento tedesco, ndtr.] ha adottato a larga maggioranza una risoluzione che dichiara che “le argomentazioni ed i metodi del movimento BDS sono antisemiti” e condanna “ogni dichiarazione ed aggressione antisemita che sia formulata come presunta critica alla politica dello Stato di Israele, ma che in realtà sia un’espressione di odio nei confronti degli ebrei,” in riferimento alla definizione dell’IHRA. E ancor più di recente, nel novembre 2020, il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha reso pubblico un comunicato che afferma: “Come abbiamo detto chiaramente, l’antisionismo è antisemitismo. Gli Stati Uniti s’impegnano quindi ad opporsi alla campagna mondiale BDS in quanto manifestazione di antisemitismo.

Una discussione legittima

Si constata così la tendenza di alcuni Stati a utilizzare la definizione dell’IHRA per equiparare ogni azione di boicottaggio contro Israele a una forma di antisemitismo. In Francia non è pertanto da escludere l’utilizzazione di un argomento simile nel tentativo di conservare una forma di criminalizzazione delle campagne BDS. Questa dialettica si ritrova nei discorsi di una serie di personalità o di associazioni che difendono in modo quasi incondizionato la politica dello Stato di Israele, come il Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche di Francia (CRIF).

Ed è in questa prospettiva che nell’ambivalenza della circolare del ministro della Giustizia si potrebbe vedere un invito a definire “discriminatori” o “mossi dall’odio” gli inviti al boicottaggio dei prodotti israeliani, considerando che si riferiscono al “razzismo” della politica di colonizzazione praticata da Israele, o che applicano nei suoi confronti un “doppio standard”, in quanto non chiedono il boicottaggio in altre situazioni di violazione del diritto internazionale nel mondo. In linea di principio la sentenza della CEDU dovrebbe aver comportato una chiara smentita di questi concetti, ma la circolare pubblicata nell’ottobre 2020 fa il possibile per instillare qualche dubbio.

Per il momento gli effetti prodotti dalla circolare ministeriale francese del 20 ottobre 2020 rimangono incerti. Scatenerà una nuova ondata di procedimenti penali contro le azioni di boicottaggio, attraverso un adeguamento della loro motivazione giuridica fondato se del caso sulla definizione di antisemitismo dell’IHRA? O il pubblico ministero opterà per la prudenza, tenendo conto delle indicazioni della sentenza Baldassi ed accettando il principio della legittimità e della legalità dell’invito al boicottaggio dei prodotti provenienti da Israele?

Sia chiaro, non è affatto escluso che possano esserci delle azioni o delle affermazioni effettivamente antisemite durante o con il pretesto di azioni BDS, ma la legge ordinaria permette facilmente di farvi fronte senza che ci sia bisogno di una circolare interpretativa arzigogolata. La CEDU aveva espressamente indicato che il limite da non oltrepassare non viene raggiunto che quando l’invito al boicottaggio “degenera in un appello alla violenza, all’odio o all’intolleranza.

In effetti è qui che si trova il limite che permette di conciliare la necessaria lotta contro l’antisemitismo e la critica alla politica di Israele, che rientra in un dibattito legittimo protetto dalla libertà d’espressione.

FRANÇOIS DUBUISSON

Professore di diritto internazionale all’università libera di Bruxelles (ULB).

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)