‘Non è più un problema’: sempre più porosa la barriera di separazione tra Cisgiordania e Israele

Uno dei tanti varchi attraverso i quali i lavoratori palestinesi entrano illegalmente in Israele Foto Quique Kierszenbaum/The Guardian
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Bethan McKernan e Quique Kierszenbaum a Shuweika, Cisgiordania

21 marzo 2022 – The Guardian

Ci si interroga sui suoi scopi poiché Israele, per motivi economici, chiude un occhio sui molti varchi 

 

Sono le sei del mattino e la macchina dell’espresso borbotta in una nuova e strana attività commerciale.

Tre settimane fa Mohammed ha messo su il suo chiosco per la colazione vicino alla città cisgiordana di Shuweika e per ora l’attività sta andando bene: ogni giorno centinaia di persone ci passano davanti andando al lavoro e, oltre a caffè e sigarette, comprano pane, cetrioli e pomodori.

Due anni fa i soldati israeliani avrebbero sparato ai palestinesi che entravano in questa area larga 200 metri detta “zona di collegamento”, fra la barriera che separa Israele e Cisgiordania e la linea dell’armistizio del 1949. L’esercito pattuglia ancora appena pochi metri di distanza. Ma in una luminosa mattinata di marzo un flusso costante di pendolari passa vicino al nuovo baracchino di Mohammed per infilarsi in una vicina breccia nella recinzione, in maggioranza diretto a lavori illegali nell’edilizia, nelle pulizie e in agricoltura che si trovano in comunità israeliane dall’altra parte.

Non è più un problema,” dice un trentenne. “Sono felice di aver trovato un buon lavoro. Per anni ho fatto soldi in modi molto più pericolosi.”

Riesco a guadagnare $100 al giorno lavorando là,” dice un ragazzo con i capelli ricci che non ha voluto dirci il nome dato che attraversava illegalmente. “Ovvio che ci vado.”

Israele cominciò i lavori al controverso muro di separazione in Cisgiordania vent’anni fa per arginare gli attacchi terroristici dei palestinesi durante la seconda intifada, ma oggi la situazione del progetto, costato vari miliardi di dollari, è più fluida di come sembra.

I palestinesi sono sempre riusciti a entrare in Israele, nonostante muri e le recinzioni. Anche se non ci sono dati, negli ultimi anni dalla Cisgiordania la gente aveva cominciato ad attraversare in numeri crescenti alla ricerca di lavori pagati meglio. Ciò significava partecipare a un gioco mortale al gatto e topo con le Forze di Difesa Israeliane (IDF) [l’esercito israeliano, ndtr.], ma dall’inizio della pandemia la situazione sembra essere più tranquilla.

Dror Etkes [uno dei maggiori esperti israeliani di colonie, ndtr.] documenta per la sua ONG Kerem Navot [organizzazione che controlla e ricerca la politica fondiaria israeliana in Cisgiordania, ndtr.] costruzioni israeliane illegali nei territori palestinesi occupati e passa molto tempo attraversando la Cisgiordania in un vecchio catorcio cinese. Egli stima che al momento ci siano centinaia di brecce nella barriera che un numero sconosciuto di persone usa ogni giorno. Dice che le IDF ogni tanto scavano un nuovo fossato per fermare i veicoli, ma non hanno fatto niente per riparare nessuna di queste recinzioni.

Aggiunge: “Agli israeliani questo muro era stato venduto come una misura di sicurezza necessaria. Per come la vedo io, c’è stato un cambiamento di politica e dai soldati ci si aspetta che chiudano un occhio quando i palestinesi lo oltrepassano”.

Israele sa che deve alleviare la pressione economica in Cisgiordania e che si avvantaggia della manodopera a basso costo. Il che solleva la domanda: se [il muro] è solo una costruzione arbitraria, cosa ci sta a fare qui?”

A oggi è stato completato solo circa il 65% del percorso pianificato della barriera: la costruzione si è bloccata da molto tempo per una combinazione di giochi politici interni, battaglie legali e critiche internazionali. La maggior parte di quella costruita fino ad ora è dentro i confini della Cisgiordania, non in Israele o sulla linea dell’armistizio.

Per proteggere le colonie illegali israeliane alcune sezioni penetrano per 22 km in territorio palestinese, dividendo comunità e facendo sì che i contadini dipendano dai permessi israeliani per accedere alle proprie terre. La maggior parte della zona cuscinetto è abbandonata, coperta di immondizie e usata per discariche illegali.

In posti densamente popolati come Gerusalemme la barriera si presenta come un muro di cemento alto otto metri sormontato da filo spinato e telecamere. Però in zone più rurali è spesso costituita da strade pattugliate dall’esercito tra recinzioni metalliche parallele, talvolta rafforzate da filo spinato, fossati e strisce di sabbia per individuare le orme.

Dopo l’incontro con Mohammed, il Guardian ha visitato cinque altri punti lungo 35 km della barriera che attraversano l’angolo in alto a sinistra della Cisgiordania. Qui sono state praticate delle brecce nella recinzione per facilitare l’accesso al Triangolo, una manciata di cittadine e villaggi a maggioranza arabo-israeliana che confinano con la Linea Verde.

Tutti i varchi sono abbastanza grandi da permettere a un adulto di passare comodamente; stranamente alcuni sono accanto a cancelli chiusi o a checkpoint e telecamere visibili. Alcune persone dicono di avere permessi validi, ma che scelgono di usare i varchi nelle recinzioni perché è più veloce e facile che far la coda ai posti di blocco ufficiali, dove i soldati possono far domande e perquisirli.

In un comunicato le IDF affermano: “Danneggiare la recinzione di sicurezza per creare passaggi che permettono infiltrazioni non sorvegliate in territorio israeliano è una minaccia alla sicurezza e una chiara violazione della legge.

I soldati dell’ IDF sono schierati lungo la recinzione di sicurezza a seconda della valutazione della situazione. Le truppe usano una varietà di mezzi ai sensi delle regole di ingaggio.”

Né il ministero della difesa israeliano, responsabile della manutenzione della barriera di separazione, né il Coordinatore delle Attività del Governo nei Territori (Cogat) che implementa le politiche governative israeliane nelle zone della Cisgiordania sotto il suo controllo, hanno risposto alle domande del Guardian.

Nella zona cuscinetto vicino a Khirbat al-Aqaba una coppia di anziani su una vecchia Corolla aspetta il figlio in arrivo dall’altra parte per prendere sacchi di verdure per il ristorante dove lavora legalmente. Nella città araba di Baqa, divisa in due dopo la creazione di Israele, una signora di mezza età vestita nei suoi abiti migliori si infila con cautela dentro un varco nella recinzione e attraversa su un ponte di pallet un rivoletto fangoso per andare a trovare la sorella che vive sul lato israeliano.

E vicino a Umm al-Fahm, la breccia nella recinzione giù dalla collina dove sembra esserci un checkpoint improvvisato controllato da un gruppo di uomini del posto non responsabili della sicurezza di cittadini israeliani, è abbastanza grande da essere attraversato dalle macchine. Tracce di pneumatici nella sabbia suggeriscono che venga usata proprio a quello scopo.

Pochissimi hanno il coraggio di attraversare quando vedono le IDF pattugliare nelle vicinanze e ci sono ancora pericoli. Nel maggio 2020 dei soldati hanno attaccato alcuni lavoratori che cercavano di attraversare vicino a Faroun, gambizzando otto persone.

Ma la facilità con cui ora la gente usa le brecce nella recinzione e l’atteggiamento disinvolto mostrato da quasi tutti è un cambiamento sorprendente. Un signore anziano che cercava di passare da un lato all’altro di Baqa ha persino litigato con un’unità di pattuglia delle IDF. Invece di arrestarlo gli hanno detto di portare i suoi documenti al checkpoint ufficiale.

Fino almeno al 2019 c’erano meno varchi e di solito si attraversava pagando qualcuno: chi entrava in Israele doveva correre attraverso punti pericolosi, arrampicandosi su muri, sotto filo spinato e dentro tubature di scarico, tutto con il favore delle tenebre.

Il livello di disoccupazione in Cisgiordania ha fluttuato per parecchi anni intorno al 25% e i salari sono molto più bassi che in Israele. Una volta arrivati, molti lavoratori restavano in Israele per una settimana o più, evitando la polizia o chiunque potesse denunciarli, fino a quando non guadagnavano abbastanza da rischiare di nuovo il viaggio per tornare a casa. Anche lavorando senza diritti talvolta in condizioni pericolose valeva comunque la pena rischiare.

La pandemia ha ridotto la possibilità di arrivare in Israele anche a lavoratori asiatici e dell’Europa dell’est impiegati nei servizi e nell’edilizia, e quindi è aumentato l’appetito degli imprenditori israeliani per manodopera palestinese con paghe basse nonostante il rischio di irruzioni, blocchi del lavoro e multe per i datori di lavoro che vengono scoperti.

Un tale ampio flusso di persone pone un’innegabile sfida alla sicurezza. Alcuni dei lavoratori illegali che attraversano si chiedono se la tecnologia israeliana di sorveglianza sia abbastanza sofisticata da sorvegliare persone sospette provenienti da lontano o se alcuni dei palestinesi che fanno gli ambulanti, i guardiani di parcheggi improvvisati e i taxisti e che ora lavorano intorno alle brecce siano informatori dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interna israeliano.

Per adesso i più sembrano contenti di approfittare delle opportunità economiche create dalla barriera sempre più porosa. Su un altopiano spazzato dal vento sopra Zemer, un comune in Israele creato dalla fusione di quattro villaggi palestinesi, Mohammed Bakir, suo figlio e parecchi dipendenti cisgiordani con permesso di lavoro stanno spianando con i bulldozer la terra vicino a casa nella zona cuscinetto sperando di coltivarla.

Dopo l’evasione dal carcere di Gilboa lo scorso settembre tutti i varchi sono stati chiusi e i suoi operai non hanno potuto entrare in Israele per parecchi giorni mentre le autorità davano la caccia ai sei evasi. La famiglia sa che lo status quo può cambiare e che potrebbero dover abbandonare il progetto, ma crede che valga comunque la pena.

Dall’alto dell’altopiano fangoso si vedono i bianchi boccioli di mandorli e biancospini volteggiare sull’immondizia e la spazzatura vicino alla recinzione sottostante. La barriera serpeggia a destra e sinistra, uno strano serpente grigio che divide il paesaggio tra un prima e un dopo.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)