Come Israele ha finanziato una guerra giudiziaria contro i cittadini palestinesi dopo la rivolta del maggio 2021

Foto: AFP
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Janan Abdu

16 agosto 2022 – Middle East Eye

Un anno dopo la campagna israeliana di arresti di massa i cittadini palestinesi di Israele sono di fronte a misure più severe e addirittura più repressive contro le loro proteste nei confronti delle politiche israeliane

Il 24 maggio 2021 Israele ha lanciato una campagna di arresti di massa per fermare la rivolta dei palestinesi all’interno della cosiddetta Linea Verde (linea di confine tra Israele e alcuni Paesi arabi stabilita dall’accordo del 1949, ndtr.) all’insegna di “Legge e Ordine”.

La polizia ha comunicato che entro 48 ore 500 persone sarebbero state arrestate. Al 10 giugno Israele aveva arrestato più di 2.150 persone, il 91% delle quali erano cittadini palestinesi di Israele. Forze di polizia, unità speciali, guardie di confine e polizia segreta hanno preso d’assalto le città a predominanza araba, reprimendo i manifestanti palestinesi.

Hanno deliberatamente preso di mira i minori con violenti arresti arbitrari e li hanno sottoposti a detenzione e interrogatori prolungati da parte di agenti dello Shin Bet (servizi di sicurezza interni israeliani, ndtr.)

Di fronte a questi arresti di massa centinaia di avvocati palestinesi residenti nei territori occupati del 1948 si sono organizzati e si sono offerti volontari accanto ad associazioni per i diritti umani e a comitati popolari, in uno sforzo coordinato per difendere i detenuti, fornire loro assistenza legale nelle stazioni di polizia e monitorare le flagranti violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza israeliane.

Io facevo parte di una di queste associazioni, “Donne in difesa dei diritti umani dei detenuti”. Non ci è voluto molto tempo per organizzare campagne di raccolta fondi per sostenere i detenuti e le loro famiglie attraverso la copertura delle loro spese legali.

Flagranti violazioni dei diritti

Alcune delle violazioni israeliane che abbiamo riscontrato comprendono: violenta dispersione delle proteste e arresti arbitrari; confisca dei cellulari personali; aggressione di giornalisti e attivisti che filmano e documentano gli attacchi; rapimento di minori da parte di forze speciali di squadre sotto copertura; eccessivo uso della forza durante gli arresti e i trasferimenti ai centri detentivi; condizioni carcerarie disumane; rinvio di cure mediche urgenti per i detenuti fino al termine degli interrogatori.

Molte violazioni dei diritti dei detenuti – soprattutto di minori – sono avvenute nelle stazioni di polizia: uso di terribile violenza fisica, minacce e violenza psicologica; negazione di diritti fondamentali come la consulenza legale prima dell’interrogatorio; rifiuto di condurre gli interrogatori in lingua araba; rifiuto ad un genitore o un tutore del diritto di essere presente durante l’interrogatorio del figlio; per molti di loro durata degli interrogatori di moltissime ore, in violazione della legge.

Inoltre la polizia cerca in vari modi di ostacolare il lavoro degli avvocati. In molti casi la polizia chiude l’ingresso del centro di detenzione per impedire ai legali di conoscere il nome e il numero dei detenuti.

Altre tattiche comprendono rifiutare agli avvocati una corretta informazione sui loro clienti e impedire loro di fornire consulenza.

In una stazione di polizia di Nazareth gli agenti israeliani notoriamente gestivano una “stanza di tortura” in cui i palestinesi arrestati, dai manifestanti agli astanti e persino agli avvocati, venivano sottoposti a violenza fisica, verbale e psicologica. A Umm al-Fahm la stazione di polizia ha chiuso del tutto e ha smesso di rispondere alle telefonate, dopo che gli avvocati hanno insistito nel pretendere i diritti dei detenuti, soprattutto di quelli che necessitavano di cure mediche.

La polizia israeliana spesso ha preso misure punitive allo scopo di estenuare gli avvocati, come rinviare gli interrogatori fino alle prime ore del mattino, o lasciarli in attesa per ore prima di fargli incontrare i loro clienti, come io e i mei colleghi abbiamo sperimentato alla stazione di polizia di Haifa.

Spesso il rilascio dei detenuti palestinesi è avvenuto alla condizione che essi si impegnassero a non partecipare a future manifestazioni. Molti sarebbero stati tenuti agli arresti domiciliari per lunghi periodi, mentre altri sarebbero stati trasferiti lontano dalle loro zone di residenza o luoghi di studio. Tra i trasferiti vi erano studenti universitari.

La maggior parte dei giudici non tiene conto della violenza della polizia, delle aggressioni ai detenuti, delle tremende conseguenze della violenza fisica, dei diritti dei minori e persino delle norme costituzionali sul diritto dei cittadini a protestare.

Prendere di mira i minori

E’ evidente che i procuratori israeliani hanno deliberatamente incrementato il loro accanimento sui minori palestinesi attraverso ricorsi aggressivi contro il loro rilascio e mantenendoli volutamente in detenzione nonostante la loro età e situazioni.

La rivolta palestinese del 2021 ha subito una politica di punizione. Essa è stata annunciata dall’ufficio del procuratore di Stato nelle sue dichiarazioni e relazioni periodiche ed è stata ribadita nel rapporto sull’operazione israeliana “Guardiano delle mura”, che sintetizza lo sforzo dello Stato per reprimere le proteste di massa contro l’aggressione israeliana a Gaza nel maggio 2021.

In alcuni casi la pubblica accusa ha vinto il ricorso, che riteneva la sentenza troppo clemente e chiedeva una punizione più severa, che poi il giudice ha concesso.

Dal 21 aprile l’ufficio del procuratore di Stato israeliano ha inoltrato 397 denunce contro 616 imputati, 545 dei quali sono arabi, compresi 161 minori. In altri termini, la percentuale di arabi tocca l’88,5% e i minori costituiscono il 26% – un numero altissimo che ricade sotto la punizione collettiva.

E’ stato preparato un “preambolo unificato” per tutte le incriminazioni contro gli imputati palestinesi. La procura ha voluto conferire un carattere generale a tutte le accuse in modo collettivo e preventivo. Ha anche creato una speciale sede centrale con lo scopo di unificare le politiche di punizione, che la procura considera “sulla base di una missione nazionale”. E in tutte le istanze ha richiesto l’arresto fino al termine delle procedure, che sono durate parecchi mesi prima che venisse emessa la sentenza.

La procura ha adottato una politica e criteri rigidi, rifiutando di rilasciare i detenuti e prendendo di mira i minori; invece di cercare alternative all’incarcerazione li ha sottoposti a processo come gli adulti e li ha tenuti in detenzione. La sua politica si è riflessa nella presentazione di gravi imputazioni e nell’adozione di disposizioni di “atti terroristici”, “contesto razzista” e “crimini di odio”, che raddoppiano le sentenze per la stessa accusa.

Delle 397 imputazioni, 239 sono state ritenute “aggravate” – l’85% contro arabi e il 20% contro minori – richiedendo una effettiva incarcerazione per anni. Accuse di terrorismo sono state avanzate contro 94 imputati, il 90% dei quali arabi; 95 imputati, l’87% dei quali arabi, sono stati accusati di terrorismo sulla base di motivazioni razziste.

Sono state elevate accuse su “base razzista” contro 50 imputati, il 70% dei quali arabi. Non abbiamo bisogno di ulteriori analisi sulle politiche discriminatorie basate sul procedere ad incriminazioni prima di eseguire gli arresti.

Fino ad ora sono state emesse sentenze in 80 casi, e tutte prevedevano il carcere. In alcuni casi la pubblica accusa ha vinto il ricorso, sostenendo che la sentenza era troppo indulgente e chiedendo una pena più severa, che poi il giudice ha concesso.

Infatti la procura inquadra gli arabi palestinesi come nemici ed ha scritto nel suo rapporto: “Gli arabi hanno compiuto atti di sabotaggio e violenza contro ebrei e loro proprietà, a fronte di un esiguo numero di aggressioni da parte di cittadini ebrei contro arabi.”

Questo è un capovolgimento della verità, poiché tutte le aggressioni a quartieri residenziali sono state compite da gruppi di ebrei contro quartieri arabi.

Rapporto del Revisore di Stato

Un rapporto del Revisore di Stato del 27 giugno 2022 conferma che le città miste fanno parte del panorama israeliano e ciò che vi accade riflette le complessità della società israeliana.

Il rapporto si occupa della rivolta del maggio 2021 e la descrive in base a quanto accaduto in alcune di queste città miste, comprese Haifa, Accri, Lod e Jaffa.

Afferma che questi incidenti, durante i quali sono stati uccisi tre cittadini israeliani (due di loro cittadini palestinesi di Israele), hanno portato alla luce le tensioni esistenti tra i diversi gruppi di popolazione e hanno sottolineato la necessità di prendere provvedimenti a livello pubblico e locale. (Il rapporto) ha anche evidenziato l’importanza di analizzare quanto in queste città venga applicata la legge.

Il rapporto si occupa delle “carenze nell’attività della polizia” in tutte le fasi, quella preparatoria e nel corso degli scontri con incidenti e sottolinea che gli incidenti mostrano anche la debolezza e lo squilibrio nella ripartizione di ruoli e responsabilità tra la polizia e lo Shin Bet, dovuti all’impreparazione della polizia a gestire gli incidenti.

In altri termini, ritiene insufficiente la punizione collettiva dei palestinesi cittadini di Israele durante questi incidenti e chiede misure più repressive nei loro confronti da parte della polizia e pene detentive più severe da parte dei tribunali.

Il rapporto ritiene che la soluzione passi attraverso i bilanci comunali. E’ come se il rimedio alla ingiustizia storica e alle conseguenze della catastrofe palestinese, o Nakba, come anche alle leggi razziste discriminatorie nei loro confronti, consistesse nell’aumentare le previsioni di spesa per i palestinesi in queste storiche città palestinesi.

Oltre un anno dopo la campagna israeliana di arresti di massa è chiaro che lo Stato è determinato all’escalation, dato che i palestinesi cittadini di Israele rappresentano un rischio demografico.

Non c’era perciò da stupirsi, recentemente, del fatto che, mentre Israele stava ancora una volta attaccando Gaza, i suoi poliziotti e guardie di frontiera, raddoppiati di numero, insieme a violente bande di destra, fossero pronti a finanziare una campagna di repressione contro i manifestanti palestinesi.


Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Janan Abdu è un’avvocata e un’attivista per i diritti umani che vive a Haifa. E’ attiva nel suscitare attenzione e mobilitare il sostegno internazionale per i prigionieri politici palestinesi. I suoi articoli sono comparsi su: il Giornale di Studi Palestinesi; il trimestrale del Centro Studi sulle Donne dell’università Birzeit; al-Ra’ida (AUB); L’Altro Fronte (Centro di informazione alternativa); Jadal (Mada al-Carmel). Le sue pubblicazioni includono le organizzazioni di donne e femministe palestinesi nelle zone del 1948 (Mada al-Carmel, 2008).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)