Ahmed Mahajana, “il dottore di tutti”

L'ospedale Hadassah Foto: Ohad Zwigenberg
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Barry Danino

Haaretz 11 dicembre 2022

Ho parlato la prima volta all’inizio di dicembre con Ahmed Mahajana, da quattro anni interno in chirurgia cardiotoracica presso l’ospedale universitario Hadassah di Gerusalemme ad Ein Karem, che è stato sospeso a metà novembre. L’ho chiamato per dimostrargli il mio sostegno e per dirgli che molti medici israeliani veterani e personale paramedico, sia ebrei che arabi, sono dalla sua parte. Non mi aspettavo delle scuse da Btsalmo [gruppo di destra che sbeffeggia l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’tselem, ndt.]. L’organizzazione di di destra ha ritirato la sua richiesta di licenziare Mahajana, ma ora chiede che il medico renda pubblica (quando sarà reintegrato) una dichiarazione di condanna per ogni terrorismo e attacco a persone innocenti. Il mio lavoro in ospedale non prevede tale disposizione.

Il caso di Mahajana sarà negoziato tra l’ospedale Hadassah e l’Associazione medica israeliana, intervenuta in sua difesa, davanti al giudice in pensione Hila Gerstel. Nel frattempo, nonostante tutto quello che è venuto alla luce negli ultimi giorni, dovrà rimanere a casa.

Mi è chiaro che nell’atmosfera attuale in Israele è sufficiente per qualsiasi ebreo, figuriamoci un agente di polizia, “avere un brutto presentimento nei confronti” di un arabo, che la situazione vada fuori controllo. Quello che non mi è chiaro è perché Mahajana non abbia prima d’ora ricevuto un chiaro sostegno da tutti noi, suoi colleghi medici. Non un appoggio tacito, a porte chiuse, nelle telefonate o nei moltissimi post sui social media, ma un messaggio forte e chiaro che dica “Basta”, firmato dalle persone con nome completo. Com’è possibile che in un’organizzazione che si vanta di essere egualitaria, “un’isola di sanità mentale”, un medico possa essere falsamente accusato e sospeso solo perché è arabo? Come è possibile che il Ministro della Salute, esponente del partito di sinistra Meretz, sia rimasto in silenzio?

La scorsa settimana ho invitato Mahajana a una riunione del personale medico e infermieristico, inclusi medici anziani, amministratori e infermieri, ebrei e palestinesi, per dimostrargli sostegno. Non tutti quelli che ho contattato avevano sentito parlare della questione, e non tutti quelli che ne avevano sentito parlare volevano venire. Molti avevano delle riserve: “Perché dovrei farlo, poi la gente dirà che ho incontrato un sostenitore del terrorismo”, “Potrebbe influenzare il mio studio medico privato”, “Non voglio finire nei guai” – sono le spiegazioni che ho sentito. Mahajana ha raccontato a coloro che erano presenti cosa era successo quell’orribile pomeriggio a lui – a un eccellente medico che lavora giorno e notte e all’improvviso deve sottoporsi a un’udienza umiliante per poi essere licenziato dal suo incarico e persino sottoposto al test della macchina della verità.

Mahajana aveva già raccontato la sua storia ad Haaretz, ma quando la senti raccontata di persona non si può rimanere indifferenti. Il giorno in cui è stata pubblicata la notizia diffamatoria secondo cui “si è fatto un selfie con un terrorista e gli ha dato un dolce” è stato, ha detto, il peggiore della sua vita, e da allora ha ricevuto un numero di telefonate anonime minacciose. Sebbene non sia “amato da tutti”, è “il medico di tutti”. Laureato all’Università di Tel Aviv, ha superato con lode il primo esame di specialità medica (Fase 1), stava finendo la specializzazione all’Hadassah e ha tutte le carte in regola per comparire nella lista dei medici più richiesti del prossimo decennio. Il sistema medico israeliano sa vantarsi del successo di medici arabi come lui, quando vuole.

Il Ministero della Sanità è stato il primo ministero del governo a “raccogliere il guanto di sfida” dopo la pubblicazione del rapporto Palmor (emanato da un comitato interministeriale per la lotta al razzismo, risultato della protesta della comunità ebraica etiope). Circa quattro anni fa il Ministero ha pubblicato le raccomandazioni del comitato che coordina i temi del razzismo, della discriminazione e dell’esclusione nel sistema sanitario. All’inizio della relazione, il prof. Itamar Grotto, all’epoca vicedirettore generale del dicastero, scriveva:

“Quando sono stato nominato presidente del comitato, il mio primo pensiero è stato: ‘Razzismo? Nel sistema sanitario?’ … Nel corso dei lavori del comitato, ho ascoltato testimonianze, discussioni e visto documenti che segnalavano situazioni in cui esistono discriminazione, esclusione e razzismo nel sistema sanitario. Per convincermi che questi fenomeni esistono davvero ho anche intrapreso un percorso personale, e alla fine ho raggiunto la consapevolezza che azioni o decisioni che avevo preso in passato potevano essere percepite ed essere intese come discriminatorie o addirittura razziste.”

Il caso di Mahajana dimostra che anche se noi, personale medico, siamo certi che tra i “camici bianchi” non ci siano discriminazione e razzismo, eppure ci sono. Il sospetto intrinseco nei confronti del personale arabo non è iniziato e non finisce in ospedale. Oggi è Mahajana e domani sarà qualcun altro il cui arabo suonerà minaccioso per qualcuno. Fino a quando il processo di negoziazione non sarà completato e Hadassah non si scuserà sinceramente per l’ingiustizia commessa, il personale medico di tutto il paese deve sostenerlo e gridare contro l’abominevole ingiustizia – non solo per il suo bene, ma soprattutto per il nostro bene e per il bene dei nostri pazienti.

Il dottor Barry Danino è medico senior presso il Centro Medico Sourasky di Tel Aviv (Ospedale Ichilov).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)