Come Israele ha sabotato lo scambio di prigionieri ampliando la definizione di “prigionieri di sicurezza”

La prigione di Damon in Israele. Foto:ERANRABL/WIKIMEDIA COMMONS)
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YOAV HAIFAWI

7 DICEMBRE 2023 – Mondoweiss

Israele ha sabotato lo scambio di prigionieri con Hamas ampliando la definizione di “prigionieri di sicurezza” per includere quelli detenuti per poco più che post sui social media.

Venerdì primo dicembre Israele ha ripreso il massiccio bombardamento di Gaza in una campagna che è già stata giudicata da esperti internazionali e organizzazioni per i diritti umani una delle peggiori e mortali della storia moderna. Israele ha accusato Hamas di aver violato i termini dello scambio di prigionieri. Eppure ho visto da vicino, seguendo i processi politici presso il tribunale di Haifa, come sia invece Israele che ha minato le basi stesse di ciò che significa uno scambio di prigionieri. Lo ha fatto attraverso arresti di massa di palestinesi prima dello scambio di prigionieri, trattenendoli come “prigionieri di sicurezza” secondo una definizione che è stata ampliata dopo il 7 ottobre, e poi rilasciandoli come parte dello scambio di prigionieri – anche se fin dall’inizio Israele non aveva motivo di trattenerli in prigione. Questo è stato un periodo in cui i palestinesi all’interno della Linea Verde [il confine tra Israele e la Cisgiordania, ndt.] sono diventati improvvisamente una parte significativa del conflitto più ampio.

Sono stati tempi frenetici per noi nella Palestina del ’48 [cioè in Israele, ndt.] e la gente qui è terrorizzata. A partire dal 7 ottobre, quando lo shock provocato dagli attacchi si è trasformato rapidamente in una rabbia indiscriminata, molti ebrei si sono attivati contro i loro colleghi e compagni di classe palestinesi per scoprire segni di slealtà e denunciarli alle autorità. Centinaia sono stati interrogati e arrestati per poco più che dei post sui social media. Quando ho chiesto a un amico apolitico del mio quartiere come stava, ha risposto: “Non vedo, non sento, non parlo!” Ciò è continuato fino ad oggi. Proprio di recente sono andato al supermercato all’angolo e la gente discuteva se saresti stato arrestato per un “mi piace” o solo per aver condiviso un post. Come ho detto, c’è paura ovunque.

I prigionieri politici sono una parte importante della vita palestinese, anche nella cultura popolare. Negli ultimi decenni si è verificato un cambiamento significativo nella terminologia relativa ai detenuti. Negli anni ’70 e ’80, gli attivisti politici nella Palestina del ’48 parlavano di “prigionieri” usando lo stesso termine usato per i criminali e le vittime innocenti del sistema capitalista. Anche la prima associazione che difese i palestinesi nelle carceri dell’occupazione si chiamava “Gli amici del prigioniero”. Negli anni Novanta la parola araba asir (plurale asra, femminile asirah), che indica i prigionieri di guerra, è diventata il termine comune per chiunque fosse stato arrestato nel contesto della lotta per la liberazione.

Alcuni degli asra erano feda’iyeen – guerriglieri che avevano deciso di portare armi e lottare contro l’espropriazione della popolazione palestinese. Altri erano asra siyasiyun, militanti politici irriducibili che il regime aveva deciso di mettere a tacere, come la leadership di Al-Ard [organizzazione che si occupa di aiutare i contadini palestinesi, ndt.], Abna’ al-Balad [movimento nazionalista degli arabo-israeliani, ndt.] e il movimento islamico. Essere un asir, nonostante tutte le sofferenze, significava in un certo senso far parte dell’élite politica. Quando parliamo dell’asra palestinese, includiamo tutti coloro che sono stati arrestati come parte della lotta, non importa se provengono dalla Cisgiordania, da Gaza, dalla Palestina del ’48 o dalla diaspora. Inoltre non distinguiamo se fossero affiliati all’OLP, ad altri movimenti di resistenza, a un’organizzazione locale o se non lo fossero affatto. Inoltre, il termine non distingue di cosa siano stati accusati quegli asra, poiché ciò significherebbe dare legittimità ai tribunali dell’occupazione, dove i palestinesi non si aspettano mai giustizia.

Ma il senso di essere prigioniero politico è cambiato dopo il 7 ottobre.

Prendiamo, ad esempio, il caso di Mariam (nome di fantasia), una studentessa di una famiglia palestinese conservatrice. Il 7 ottobre, alcuni studenti ebrei hanno trovato su una pagina Facebook un post politico moderato che portava il suo nome. L’hanno denunciata all’Università di Haifa. Mariam ha affermato che non era il suo account e ha mostrato un altro account Facebook con il suo nome, dove ha pubblicato le foto della sua famiglia e dei suoi parenti. La direzione dell’università, oltre ad adottare misure amministrative contro Mariam, ha denunciato il suo caso alla polizia.

La polizia ha arrestato Mariam e ha avviato un’indagine approfondita. La loro teoria era che avesse due pagine Facebook, una per la sua famiglia conservatrice e l’altra per i suoi amici universitari. Quando Mariam ha negato le accuse, hanno convocato i suoi amici e conoscenti per un interrogatorio. Anche se altri studenti che avevano postato cose simili sono stati rilasciati, la detenzione di Mariam è stata prolungata con la motivazione che, se fosse stata rilasciata, avrebbe potuto compromettere le indagini. Mentre era ancora in prigione come “prigioniera di sicurezza”, è stata rilasciata durante lo scambio di donne tra Israele e Hamas.

Secondo Yousef Taha, responsabile del Joint Body of Arab Student Blocs in Universities and Colleges, il fronte unito delle organizzazioni studentesche palestinesi del ’48, c’erano sette o otto studentesse che all’epoca erano detenute e rilasciate come parte dello scambio di prigionieri. Ognuna di loro è stata accusato per un singolo post sui social media; i loro casi non erano significativamente diversi da quelli di una dozzina di studenti rilasciati dai tribunali nello stesso periodo. Fino ad ora lo Stato non ha nemmeno annullato le accuse contro di loro, e in alcune udienze a cui ho assistito la pubblica accusa ha dichiarato che stava“studiando la situazione”, chiedendo che le udienze fossero rinviate.

Per fare un altro esempio, il caso di due giovani donne palestinesi di Haifa che sono state arrestate e incriminate per “minacce” e “disturbo dell’ordine pubblico” dimostra come accuse ridicole siano state sufficienti per trattare gli arrestati come “prigionieri di sicurezza”. Secondo l’accusa il 12 ottobre le due donne avrebbero insultato una poliziotta con un messaggio volgare su WhatsApp e, più tardi lo stesso giorno, avrebbero chiamato il numero per le emergenze della polizia di Haifa e avrebbero detto: “Vengo da Gaza, dalla Palestina, sono Hamas. Sono ad Haifa per uccidere subito tutti gli ebrei “. Quando sono state arrestate hanno detto che stavano solo scherzando, ma sono state trattenute in detenzione e successivamente incriminate.

Queste due giovani donne sono state classificate dalle autorità carcerarie israeliane come “prigioniere di sicurezza” e sono state incarcerate in dure condizioni nella prigione di Damon. Una di loro è stata rilasciata nell’ambito dello scambio di prigionieri. L’altra è stata condannata il 4 dicembre dal tribunale di Haifa e resterà in una prigione di sicurezza per il terzo mese fino alla sentenza formale.

Qui devo chiarire che nel sistema carcerario israeliano esiste un regime completamente diverso per gli oltre 7.000 “prigionieri di sicurezza” palestinesi, che sono privati della maggior parte dei diritti fondamentali dei prigionieri normali. Molti di loro provengono dalla Cisgiordania e da Gaza, ma ci sono anche molti palestinesi con cittadinanza israeliana.

Molti temono che i prigionieri rilasciati nello scambio saranno ora oggetto di vendetta, anche se la decisione di rilasciarli è stata del governo. Adalah e altre organizzazioni per i diritti umani hanno avvertito che Israele potrebbe provare a etichettarli tutti come “sostenitori di Hamas” e persino applicare nuove leggi per revocare loro la cittadinanza e i diritti sociali fondamentali.

Lunedì si è saputo che il comune sionista di Gerusalemme sta impedendo agli studenti delle scuole superiori rilasciati di frequentare la scuola. Il Technion ha annunciato che a una studentessa palestinese detenuta anche lei per un post su Facebook e successivamente rilasciata durante lo scambio di prigionieri “non” verrà “mai più” consentito di riprendere gli studi. L’università ha annunciato questa misura estrema ovviamente senza avviare alcun procedimento “disciplinare” rilevante, che renderebbe necessario verificare i fatti del caso.

Più in generale la detenzione arbitraria di palestinesi dei territori del ’48 per infrazioni minori e definirli “prigionieri di sicurezza” – molti dei quali sono poi stati rilasciati durante lo scambio di prigionieri – ha consentito a Israele di evitare il rilascio di altre donne palestinesi “vere” prigioniere di sicurezza che stanno scontando condanne molto più lunghe.

Mentre lo scambio di prigionieri andava avanti sotto la pressione della minaccia di una ripresa delle mortali operazioni militari, con nuovi elenchi di persone da rilasciare pubblicati ogni mattina, Israele ha sabotato il processo. A differenza di Hamas, che doveva riunire dai nascondigli con gravi rischi i prigionieri, Israele poteva facilmente preparare elenchi ordinati. Ma quello che ha fatto invece è stato pubblicare un elenco con centinaia di nomi, sostenendo che queste erano le persone che avrebbero potuto essere rilasciate. All’ultimo momento, dopo che Hamas aveva pubblicato l’elenco esatto della giornata, ha puntato a selezionare i prigionieri a cui rimaneva meno tempo da trascorrere in prigione o che non erano nemmeno stati condannati per alcun reato.

Resta da chiedersi se questo modo deliberatamente subdolo di gestire lo scambio di prigionieri sia uno dei motivi per cui l’intero processo è fallito.

(traduzione dall’’Inglese di Giuseppe Ponsetti)