Netanyahu non è l’unico interessato a prolungare la guerra

Un soldato passa davanti a un cartellone invocante la liberazione degli ostaggi. Foto: (Miriam Alster/FLASH90)
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Menachem Klein 

9 aprile 2024 – +972 magazine

Un’ampia coalizione di forze politiche, dall’estrema destra israeliana alla sinistra sionista, ha motivazioni diverse per trasformare la guerra nella nuova normalità.

Per la maggior parte degli israeliani la guerra è diventata una routine. Hanno imparato a conviverci. È scomoda, pensano, ma non c’è altra scelta. 

Ovviamente non tutti condividono questa forma di autocompiacimento: i familiari dei morti, i sopravvissuti, i feriti, gli sfollati e le famiglie di coloro ancora trattenuti in ostaggio a Gaza. E naturalmente i cittadini palestinesi in Israele, molti dei quali hanno perso amici o parenti nella Striscia assediata e che guardano con orrore i loro vicini e colleghi ebrei giustificare il brutale attacco israeliano. Queste vittime della guerra lottano contro la nuova normalità, ma il loro successo è limitato. 

Nelle ultime due settimane le manifestazioni settimanali per la liberazione degli ostaggi rimanenti si sono forse intensificate con un’esplosione di rabbia contro il primo ministro Benjamin Netanyahu per le sue evidenti lungaggini nei negoziati per un cessate il fuoco e per un accordo sullo scambio di ostaggi. Ma queste proteste comunque impallidiscono rispetto alle manifestazioni dell’anno scorso contro la riforma della giustizia del governo di destra, a proteste contro Netanyahu del 2020 e a quelle del 2011 contro l’aumento del costo della vita. Tutto mentre Israele sembra proseguire la sua offensiva a Gaza, incurante della Corte Internazionale di Giustizia o del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e che forse cerca persino di estendere l’escalation alla regione o almeno al fronte nord con Hezbollah a seguito dell’attacco contro l’ambasciata iraniana a Damasco all’inizio del mese.  

Questa nuova normalità che per ora sembra impossibile da interrompere non è saltata fuori dal nulla. Al contrario è stata attivamente prodotta, giorno per giorno, da coloro che hanno un interesse a mantenerla: un’ampia coalizione di individui e gruppi, ognuno con motivi diversi. 

Cominciamo con il ministro della Difesa, Yoav Gallant, e gli alti capi militari. Sanno molto bene che le unità dei riservisti non possono essere mobilitate per sempre e hanno una chiara immagine del danno che l’attentamente coltivata reputazione di Israele sta subendo nell’ambito della comunità internazionale come risultato del modo in cui sta continuando la guerra. Ma capiscono anche che fino a quando durerà non ci sarà una pressione da parte dell’opinione pubblica affinché si assumano la responsabilità dei gravi errori che hanno portato al 7 ottobre. Forse sperano che se riusciranno a collezionare qualche vittoria nella guerra non passeranno alla storia come i peggiori leader che Israele abbia mai avuto. Quindi parlano di una guerra che durerà anni.

È ben documentato che Netanyahu sia motivato da una logica simile. Fino a quando il Paese sarà in guerra resterà alla guida e potrà rimandare o persino annullare il suo annoso processo per corruzione: quindi perché preoccuparsi di porvi fine? 

Per i partner della sua coalizione la nuova normalità è una benedizione. Il Partito Sionista Religioso di estrema destra e Otzma Yehudit (Potere Ebraico), guidati rispettivamente da Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, vedono la guerra come un modo di vivere e un’applicazione dei loro principi politici fondamentali: l’espansione della supremazia ebraica e l’annientamento del nazionalismo palestinese. Al contempo gli ultraortodossi sono sintonizzati sull’euforia dei principi messianici dei partiti di estrema destra grazie alla nozione religiosa dell’ebreo “eletto”. Ma hanno anche un incentivo finanziario per continuare a sostenere la guerra: Smotrich, nella sua qualità di ministro delle Finanze, ha recentemente allocato una parte considerevole del budget governativo ai partiti ultraortodossi per comprarne la lealtà.  

Persino l’amministrazione Biden sta normalizzando la guerra. Biden si rifiuta di spingere per un cessate il fuoco permanente o di premere su Israele per porre fine alla sua operazione nella Striscia. L’astensione americana nella votazione sulla recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza per un immediato cessate il fuoco non corrisponde certo a una netta approvazione della proposta, soprattutto quando l’ambasciatore Usa all’ONU ha immediatamente cercato di revocarla. Biden ha ripetutamente espresso preoccupazione per la mancanza di piani israeliani per proteggere i civili palestinesi e gli operatori umanitari, specialmente nell’eventualità di un’invasione di Rafah, e ha insistito con Israele per avere il suo progetto per il “giorno dopo,” ma si rifiuta di dire adesso basta.

Biden ha inoltre creato una divisione dei compiti fra sé stesso e Netanyahu: gli USA alleviano parte delle sofferenze dei civili a Gaza con lanci aerei di aiuti, mentre Israele attacca e continua ad affamarli. Neppure Biden ha presentato la sua proposta per il “giorno dopo,” alludendo invece a un vago processo alla fine del quale, in qualche modo, ci sarà la soluzione a due Stati. Netanyahu si compiace della vaghezza della proposta e ne sottolinea l’impossibilità.

Il centro israeliano e la sinistra sionista guardano imbarazzati da bordo campo. Sono sempre stati esempi del militarismo israeliano, quando non veri leader militari. Perciò sono incapaci di opporsi a questo militarismo, specialmente in tempo di guerra, nonostante il loro allarme per l’occupazione delle forze di sicurezza israeliane da parte di Sionismo religioso [coalizione di estrema destra dei coloni e attualmente al governo, ndt.]. 

Prima della guerra pochi di loro si erano preoccupati della condizione dei palestinesi assediati nella Striscia di Gaza, né avevano almeno auspicato negoziati per un accordo politico con l’Autorità Palestinese (AP). La vasta maggioranza concordava pienamente con la politica di Netanyahu di “gestire il conflitto” e anche loro hanno ignorato la disponibilità di Hamas a muoversi verso un fronte unito con l’AP, come si vede dal loro documento del 2017 “Principi Generali e Politiche” che in effetti riconosceva gli accordi di Oslo come un dato di fatto e l’accordo del 2021 con Mahmoud Abbas, presidente dell’AP, per indire delle elezioni politiche. Dal 7 ottobre quel poco entusiasmo che esisteva nella sinistra e nel centro sionisti per un accordo politico con i palestinesi si è completamente dissolto.

Con lo stile tipico dei governi israeliani di centro-sinistra fra gli anni ’50 e gli anni ‘80, specialmente quello dell’ipocrita Golda Meir, essi si dicono dispiaciuti per le sofferenze palestinesi, “ma di non avere scelta.” Citano appena la brutalità dell’esercito e dei coloni e la pulizia etnica dei palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme. E naturalmente si oppongono strenuamente alla denuncia presentata all’Aia contro Israele. Il risultato è una versione aggiornata della “gestione del conflitto”, che, nonostante le loro altre differenze, unisce virtualmente tutte le correnti della politica israeliana. 

Cosa potrebbe cambiare questa realtà della guerra come routine, in meglio o in peggio? Vedo tre possibilità che non si escludono a vicenda. 

La prima è un’azione radicale in Libano o un’invasione di Rafah che potrebbe arrivare quale risultato di un’escalation locale incontrollabile o di un errore di calcolo israeliano. La seconda possibilità è una decisione americana di chiedere un cessate il fuoco permanente con una coalizione militare internazionale che rimpiazzerebbe la presenza militare israeliana nella Striscia di Gaza. E la terza opzione è il risveglio del settore commerciale-industriale di Israele, per il quale la guerra non è una routine, ma piuttosto un grave danno al solito tran-tran. Politicamente e socialmente questo settore sta sia a destra che al centro. Ha oliato gli ingranaggi della protesta contro la riforma giudiziaria e, se attivato, potrebbe portare a nuove elezioni e a un successivo cambio nella continuazione della guerra.

Menachem Klein è docente di Scienze Politiche presso l’Università Bar Ilan. È stato consigliere della delegazione israeliana nei negoziati con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina nel 2000 e uno dei leader dell’Iniziativa di Ginevra [incontri informali tra politici palestinesi e israeliani che proposero un progetto di pace, senza alcun risultato pratico, ndt.]. Il suo nuovo libro, Arafat e Abbas: Portraits of Leadership in a State Postponed [Arafat e Abbas: ritratti di leadership in uno Stato rinviato], è stato appena pubblicato da Hurst London e Oxford University Press New York.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)