Mannocchi Francesca. Sulla mia terra. Storie di israeliani e palestinesi, De Agostini, Milano, 2024, pp. 288.
Recensione di Amedeo Rossi
Francesca Mannocchi si è distinta in questi mesi per essere tra i pochissimi giornalisti italiani ad aver denunciato il genocidio in corso a Gaza e la pulizia etnica in Cisgiordania e a Gerusalemme est, cercando di contestualizzare i fatti di cronaca nel loro contesto storico.
Questo libro che, nonostante l’argomento e le drammatiche testimonianze che riporta, la De Agostini propone come rivolto a bambini e ragazzi. Infatti l’autrice esordisce nell’introduzione con “Care ragazze, cari ragazzi”. Anche l’impostazione grafica richiama riferimenti scolastici: alcune pagine sembrano fogli di un quaderno a spirale a righe, alcune parole del testo sono cerchiate a matita, altre su fondo grigio approfondiscono alcuni concetti citati nel testo.
Un breve capitolo introduttivo ricostruisce l’attacco dei miliziani palestinesi contro il sud di Israele del 7 ottobre 2023. Vi si trovano alcune omissioni, come il fatto ormai noto che alcuni civili israeliani, almeno nel kibbutz Be’eri e al Nova Festival, sono stati uccisi dallo stesso esercito israeliano. Il testo ignora anche le domande relative a come sia stato possibile superare con assoluta facilità uno dei confini più controllati al mondo. Infine non si ricorda che fin da un anno prima, e poi nel luglio 2023, l’intelligence israeliana aveva informato i comandi dell’esercito, e probabilmente anche il governo, dei preparativi di Hamas per un’operazione su larga scala.
La prima parte, intitolata “Cronologia”, presenta un inquadramento storico che inizia dalla nascita del sionismo. Anche in questo caso si notano alcune lacune, solo in parte colmate nei riferimenti che si trovano a corredo delle testimonianze che seguono. A proposito di Gaza non viene spiegato che la sovrappopolazione della Striscia è dovuta al fatto che il 70% della popolazione è composta da profughi del ’47-’49 e del ’67. Ancor prima, riguardo all’ostilità palestinese nei confronti della colonizzazione sionista, non ne vengono menzionate le ragioni economiche, così come non viene ricordato che quasi metà della popolazione del territorio destinato dalla risoluzione ONU era palestinese, che le truppe sioniste ne occuparono ben di più e solo la pulizia etnica consentì la nascita di uno Stato “ebraico”.
Gli altri capitoli del libro sono dedicati alle testimonianze di palestinesi e israeliani. Riguardo ai primi Mannocchi inizia dalle colline a sud di Hebron che definisce “un luogo importante e simbolico”, in quanto teatro di una pluridecennale resistenza non violenta ai coloni e all’esercito. Vi sono riportate le testimonianze di attivisti ma soprattutto di persone comuni, cui vengono negati diritti fondamentali: all’istruzione, ad avere una casa, a vivere in condizioni dignitose. Questa violenza non ha risparmiato neppure i bambini. Il padre di uno di loro spiega: “Noi facciamo di tutto, qui, nelle nostre comunità, per educarli alla convivenza e alla pace. Per educarli alla non violenza. Ma i nostri sono bambini traumatizzati.”
Il racconto passa alla dura resistenza del campo profughi di Jenin, uno dei luoghi della Cisgiordania più martoriati ma anche più indomabili. La scritta che campeggiava all’ingresso del campo prima che venisse demolita nel marzo 2024 dall’esercito israeliano ne riassume lo spirito indomito: “Stazione di attesa prima del ritorno”, ovviamente dei luoghi di origine dei profughi, cioè nell’attuale Israele. Questa resistenza è alimentata dalla repressione, come racconta uno degli intervistati. A Jenin, spiega Mannocchi, le incursioni notturne dell’esercito nelle case dei palestinesi sono talmente frequenti che una madre le racconta: “I bambini ora dormono inconsciamente con le mani alzate.” E non stupisce che quando la giornalista ha chiesto a un bambino di 7 anni cosa voglia fare da grande lui risponda: “Combattere”. Come Abu, che voleva fare l’educatore nel campo, ma è stato ingiustamente incarcerato per 2 anni . “Mi hanno arrestato perché sono nato qui e loro considerano chiunque sia nato qui se non un terrorista, qualcuno che lo diventerà in futuro. Sentivo di non avere scelta,” racconta Abu, che è entrato in un gruppo armato. O come il giovane Amjad, che a 13 anni aveva scavalcato il muro di separazione per andare a vedere il mare a Giaffa. Per conquistarsi quel diritto è diventato un combattente e poi un martire della causa palestinese. Eppure Jenin è nota anche per la formidabile esperienza del Freedom Theatre, fondato dal figlio di un’attivista israeliana e di un palestinese. La sua sede è stata devastata nel dicembre 2023 durante un’incursione dell’esercito israeliano.
Altrettanto drammatica è la situazione di Hebron. Da decenni alcune centinaia di coloni estremisti religiosi si sono installati nel cuore della città vecchia e nei pressi è stata costruita Kiryat Arba, una delle colonie più violente. Mannocchi ripercorre la storia recente della città, raccontando sia le azioni dei gruppi armati palestinesi che quelle dei fanatici israeliani, seguaci del rabbino razzista e suprematista Meir Kahane e di Baruch Goldstein, autore di una strage di fedeli palestinesi nella moschea di Ibrahim/Tomba dei Patriarchi, definito un santo “che diede la sua vita per il popolo ebraico, la Torah e la nazione di Israele”. Lì la giornalista incontra Yahya, che a causa delle imposizioni dell’esercito non è in grado di accudire adeguatamente il figlio affetto da distrofia muscolare. E Raed, liberato dopo mesi di detenzione amministrativa, senza accuse né processo, che racconta delle violenze subite ad opera delle guardie carcerarie, soprattutto dopo il 7 ottobre. Il padre lamenta di non poter offrire altro che acqua e datteri a parenti e vicini accorsi a riabbracciare Raed, perché il governo israeliano vieta ogni festeggiamento per la liberazione dei prigionieri.
Mannocchi intervista anche i familiari di Rashid, ucciso con una fucilata mentre cercava di difendere Jit il suo villaggio, da un attacco dei coloni.
Tra gli israeliani troviamo Iddo, un 17enne israeliano che si rifiuta di fare il servizio militare e quindi dovrà andare in carcere, militante pacifista che solidarizza attivamente con i palestinesi delle colline a sud di Hebron. Racconta della sua solitudine tra i coetanei che lo considerano un traditore, ma afferma: “La mia più grande paura è andarmene da qui, ho paura di non poter avere un futuro in Israele […] Non me ne vado perché questo è l’unico posto che conosco, l’unico che chiamo casa.” Erella, settantasettenne, aiuta i bambini palestinesi e israeliani a conoscersi, mentre Gili, dopo l’uccisione di un suo amico il 7 ottobre ha superato il desiderio di vendetta ed ha deciso di conoscere i palestinesi. Dice di aver capito che “noi israeliani non vediamo i palestinesi come esseri umani e non diamo loro i diritti che appartengono agli esseri umani”. Per questo aiuta le comunità beduine della Cisgiordania.
Ma la giornalista incontra anche i coloni, come il direttore delle pubbliche relazioni del movimento Im Irtzu, che intende “rivitalizzare” la colonizzazione sionista. Costui afferma: “E’ importante colonizzare questa terra […] perché fa parte del nostro rapporto con Dio.” Nei pressi di Hebron Mannocchi visita la colonia di Otniel, teatro negli anni di alcuni attentati. Uno dei responsabili giustifica i massacri di minori in corso a Gaza in quanto “i loro adulti hanno costruito la loro educazione mettendo odio nei loro cuori, è molto triste ma […] è quello che dobbiamo fare.” E, aggiunge la giornalista, costui “pensa che dopo la guerra, a Gaza, non ci sia altra alternativa se non l’espulsione dei palestinesi dalla striscia e anche dei palestinesi dalla Cisgiordania.” Concetto ribadito da un’altra intervistata, nota come la “regina di Otniel”, che non parla mai di palestinesi perché, ricorda Mannocchi, “come tutti, pensa che la Palestina non esista. Né sia mai esistita. Né mai esisterà.” Infine compare Daniella Weiss, la “madrina dei coloni”, che sta pianificando la costruzione di nuove colonie a Gaza e sostiene che “chi mi definisce estremista […] non capisce che i miei atti e le mie parole sono guidati dalla Torah”.
Se il libro non può pretendere di rappresentare una situazione differenziata ed estremamente frammentata e le interviste non costituiscono certo un campione statisticamente significativo, la forza delle testimonianze dirette di alcuni protagonisti di queste tragiche vicende è sicuramente molto efficace restituisce umanità soprattutto ai palestinesi, che nella nostra informazione vengono usualmente rappresentati come semplici numeri.