Jonathan Pollak
19 gennaio 2025 – Haaretz
Quando sono tornato in Cisgiordania l’anno scorso, dopo un lungo periodo di prigionia e arresti domiciliari in seguito al mio arresto durante una manifestazione nel villaggio di Beita, la Cisgiordania era molto diversa da come l’avevo conosciuta in precedenza. Uccisioni di civili, attacchi da parte di coloni che operavano di concerto con l’esercito, arresti su larga scala. Paura e terrore a ogni angolo. E silenzio, un silenzio inquietante e cupo.
Ancora prima della mia liberazione, avevo iniziato a rendermi conto che qualcosa di fondamentale era cambiato. Pochi giorni dopo il 7 ottobre 2023 Ibrahim al-Wadi, un mio amico del villaggio di Qusra, è stato assassinato dai coloni insieme a suo figlio Ahmed. Sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco mentre partecipavano al funerale di altri quattro palestinesi, uccisi il giorno prima: tre da coloni che avevano fatto irruzione nel villaggio, il quarto da soldati che li accompagnavano.
Ho presto capito che stava accadendo qualcosa di orribile nelle prigioni dove sono rinchiusi i detenuti politici palestinesi. Nell’ultimo anno, mentre io riconquistavo la mia libertà, innumerevoli palestinesi, tra cui molti miei amici e conoscenti, sono stati arrestati da Israele. Quando alcuni di loro hanno iniziato a essere rilasciati e a tornare nel mondo esterno hanno raccontato storie che dipingevano un quadro raccapricciante di torture sistematiche.
I pestaggi brutali sono un tema ricorrente in ogni storia. Avvengono durante l’appello, durante le perquisizioni delle celle, ogni volta che i detenuti vengono trasferiti da un luogo all’altro. Nell’ultimo anno le udienze in tribunale si sono svolte per lo più in videoconferenza con le prigioni, senza che gli imputati fossero fisicamente portati in aula. Ma la situazione è così grave che alcuni prigionieri hanno chiesto ai loro avvocati che le udienze venissero svolte in loro assenza perché persino il tragitto dalla cella alla stanza dove è installata la telecamera è una Via Crucis di abusi fisici e umiliazioni.
Nessuna delle storie che seguono rivela qualcosa di sconosciuto. Ogni dettaglio, fino al più minuto, riempie già volumi e volumi nei rapporti delle organizzazioni per i diritti umani. Ma ciò che ho da raccontare non sono testimonianze contenute in un rapporto, bensì il frutto di conversazioni intime e spontanee con persone che conosco e che sono sopravvissute all’inferno. Nessuno di loro è più la persona che era prima. Quello che ho sentito dai miei amici è il destino di molte migliaia di altri, ed è raccontato con modifica dei nomi e omissione dei dati personali per paura di rappresaglie, un timore che è emerso in ogni conversazione.
Pestaggi e sangue
Sono andato a trovare Malek qualche giorno dopo il suo rilascio. Un cancello giallo e una torre di guardia bloccavano la strada che in passato conduceva dall’autostrada al villaggio. La maggior parte delle altre strade di accesso, attraverso i villaggi vicini, è bloccata in modo simile. È rimasta aperta solo una strada tortuosa, che passa vicino alla chiesa bizantina che Israele ha fatto saltare in aria nel 2002. Per anni questo villaggio è stato come una seconda casa per me, e questa è stata la prima volta che ci sono tornato dopo la mia liberazione.
Malek è rimasto in custodia per 18 giorni. È stato interrogato tre volte e ogni volta le domande riguardavano questioni del tutto banali. Già allora era certo che sarebbe stato posto in detenzione amministrativa – senza accuse né processo, senza prove, sotto un manto di sospetti misteriosi sconosciuti persino a lui e al suo avvocato – una misura che può essere prorogata indefinitamente. Dopotutto questo è il destino della maggior parte dei palestinesi arrestati in questi giorni.
Dopo il suo primo interrogatorio è stato incarcerato nel famigerato Russian Compound, nel centro di Gerusalemme. Durante il giorno le guardie toglievano i materassi e le coperte dalle celle per riportarli solo la sera, umidi e a volte completamente fradici. Malek paragona le fredde notti dell’inverno di Gerusalemme a frecce che gli trafiggevano la carne fino alle ossa degli arti. Ha descritto il modo in cui veniva picchiato, come gli altri detenuti, ad ogni occasione. Ogni appello, ogni perquisizione, ogni spostamento da un luogo all’altro, ogni occasione era un’opportunità per pestaggi e umiliazioni.
“Una volta, durante l’appello mattutino”, mi ha raccontato, “eravamo tutti in ginocchio con la faccia rivolta verso i letti. Una delle guardie mi ha afferrato da dietro, mi ha ammanettato mani e gambe e mi ha sbraitato in ebraico: ‘Vieni a fare un giro’. Mi ha preso per le manette da dietro la schiena e mi ha condotto, piegato, attraverso il passaggio accanto alle celle. Per uscire dalla sezione c’è una piccola stanza che devi attraversare, tra due porte, ciascuna delle quali ha una finestrella.”
So esattamente di quale stanza sta parlando: ci sono passato anch’io decine di volte. È un passaggio di sicurezza in cui si può aprire solo una porta alla volta.
“Così siamo arrivati,” ha continuato Malek, “e mi hanno messo contro la porta, con la faccia rivolta alla finestrella. Ho guardato dentro e ho visto che il pavimento era completamente ricoperto di sangue rappreso. Ho sentito la paura attraversare il mio corpo come elettricità. Sapevo esattamente cosa stava per succedere. Quando hanno aperto la porta, uno è entrato e si è messo accanto alla finestrella più lontana, l’ha bloccata e l’altro mi ha gettato dentro sul pavimento.
“Mi hanno preso a calci. Ho cercato di proteggere la testa, ma ero ammanettato, quindi non avevo davvero modo di farlo. I colpi erano brutali. Ho davvero pensato che mi avrebbero ucciso. Non so quanto è durato. A un certo punto mi sono ricordato che la sera prima qualcuno mi aveva detto: “Quando ti colpiscono, urla a squarciagola. Cosa te ne frega? Non può andare peggio, e forse qualcuno sentirà e verrà ad aiutarti”. Così ho iniziato a urlare davvero e in effetti qualcuno è arrivato. Non capisco l’ebraico, ma c’è stato uno scambio di battute tra i due. Poi se ne sono andati e lui mi ha portato fuori da lì. Sanguinavo dalla bocca e dal naso.”
Anche Khaled, uno dei miei amici più cari, ha subito violenze da parte delle guardie. Quando è uscito di prigione dopo otto mesi di detenzione amministrativa suo figlio non lo ha riconosciuto da lontano. Il tragitto tra la prigione di Ofer e il checkpoint di Beitunia, dove è stato prelevato, una distanza di poche centinaia di metri, l’ha percorso correndo. In seguito ha raccontato che non gli era stato detto che la sua detenzione amministrativa era terminata e aveva paura che il suo rilascio fosse stato un errore e che sarebbe stato immediatamente arrestato di nuovo. Anche questo era già successo a qualcuno che condivideva la cella con lui.
Nella foto che suo figlio mi ha inviato pochi minuti dopo essersi incontrati Khaled sembrava l’ombra di una persona. Segni di violenza segnavano tutto il suo corpo: le spalle, le braccia, la schiena, il viso, le gambe. Quando sono andato a trovarlo quella sera si è alzato per abbracciarmi ma quando l’ho stretto al petto ha emesso un gemito di dolore. Pochi giorni dopo gli esami hanno mostrato un edema attorno alla spina dorsale e una frattura delle costole consolidata.
Ho ascoltato altre testimonianze da parte di Nazar, che era in detenzione amministrativa già prima del 7 ottobre e da allora era passato attraverso diverse prigioni, tra cui la struttura di Megiddo. Una sera le guardie sono entrate nella cella adiacente e Nazar ha sentito dei colpi e delle grida di dolore. Dopo un po’ le guardie hanno preso un detenuto da quella cella e lo hanno gettato in una cella di isolamento. Per tutta la notte, e anche il giorno seguente, si è lamentato per il continuo dolore urlando “la mia pancia” e chiedendo aiuto. Nessuno è venuto in suo soccorso. Ha continuato la sera successiva. Verso la mattina i lamenti sono cessati.
Il giorno dopo, con l’arrivo di un medico per il giro di controllo nell’ala, hanno capito dal trambusto e dalle urla delle guardie che il detenuto era morto. Nazar non ha ancora idea di chi fosse. Dopo il rilascio è venuto a sapere che durante il periodo della sua prigionia nel carcere di Megiddo quel detenuto non era stato il solo a perdervi la vita.
Tawfiq, liberato quest’inverno dalla prigione di Gilboa, mi ha raccontato che durante un’ispezione dell’ala da parte degli ufficiali della prigione un detenuto si è lamentato del fatto che ai prigionieri non era permesso uscire nel cortile, al che uno degli ufficiali ha risposto: “Volete passare del tempo in cortile? Ringraziate di non trovarvi nei tunnel di Hamas a Gaza”.
Dopo di che per le due settimane successive i detenuti sono stati portati nel cortile e costretti a sdraiarsi sul terreno freddo per due ore, anche quando pioveva. Mentre giacevano lì, le guardie andavano in giro con i cani. A volte i cani passavano tra i detenuti, altre volte camminavano sopra di loro, calpestandoli.
Secondo Tawfiq ogni incontro di un detenuto con il suo avvocato esigeva un prezzo. “Sapevo ogni volta che la via del ritorno, tra la sala visite e l’ala, avrebbe comportato l’aggiunta di almeno tre lividi. Ma non mi sono mai rifiutato di andarci. Eri in una prigione a cinque stelle”, mi ha detto. “Non hai idea di cosa significhi essere in 12 in una cella già strapiena quando ce n’erano solo sei. Non mi importava minimamente cosa mi avrebbero fatto. Solo vedere qualcun altro che avrebbe parlato con te come con un essere umano, vedere magari qualcuno nel corridoio lungo il percorso, questo mi appagava di tutto”.
Munther Amira, l’unica persona ad apparire qui con il suo vero nome, è stato rilasciato inaspettatamente prima della fine programmata della sua detenzione amministrativa. A tutt’oggi nessuno sa perché. Contrariamente a molti altri che erano stati ammoniti di non parlare di ciò che avevano subito in prigione e che ancora temono ritorsioni, non appena è stato rilasciato Amira si è presentato davanti a una telecamera e ha parlato apertamente del disastro nelle prigioni, definendole “cimiteri per i vivi”.
Mi ha raccontato che una notte un’unità di primo soccorso con due cani ha fatto irruzione nella loro cella nella prigione di Ofer. Hanno costretto i detenuti a spogliarsi fino alle mutande e di sdraiarsi sul pavimento, quindi hanno ordinato ai cani di annusare il corpo e il viso dei detenuti. Dopodiché hanno ordinato ai prigionieri di vestirsi, li hanno portati nelle docce e li hanno infradiciati di acqua fredda con addosso i vestiti.
In un’altra occasione ha provato a chiedere aiuto dopo che un detenuto aveva tentato di uccidersi. La punizione per la richiesta d’aiuto è stata un’altra retata da parte dei paramedici. Questa volta tutti nella cella sono stati costretti a sdraiarsi uno sopra l’altro e sono stati percossi con i manganelli. A un certo punto una delle guardie ha allargato loro le gambe e li ha colpiti sui testicoli con una mazza.
Fame e malattie
Durante i suoi tre mesi di detenzione Munther ha perso 33 chili. Non so quanto peso abbia perso Khaled, è stato sempre magro, ma nella fotografia inviatami ho visto uno scheletro. In seguito nel soggiorno della sua casa la luce della lampada a soffitto rivelava due profonde cavità dove prima c’erano le guance. Gli occhi erano cerchiati di rosso, come quelli di chi non dorme da settimane. La pelle flaccida che pendeva dalle braccia sottili sembrava appiccicata in maniera artificiale, come un involucro di cellophane. Gli esami del sangue di entrambi gli uomini mostravano gravi carenze.
Tutti coloro con cui ho parlato, indipendentemente dalla prigione in cui erano stati, hanno descritto quasi esattamente la stessa dieta, anche se occasionalmente interveniva un aggiornamento o, più precisamente, un declassamento. L’ultima versione che ho sentito, dalla prigione di Ofer, era: colazione: 1,5 confezioni di formaggio per una cella da 12 detenuti, tre fette di pane a persona, da due a tre verdure, di solito un pomodoro o un cetriolo, per cella. Ogni quattro giorni, 250 grammi di marmellata per cella.
Per pranzo, a persona: una piccola tazza di plastica usa e getta riempita di riso, due cucchiaini di lenticchie, un po’ di verdura, tre fette di pane. Per cena: due cucchiaini (non cucchiai) di hummus e tahini, un po’ di verdura e tre fette di pane a persona. Ogni tanto un’altra tazza di riso, a volte un’unica polpetta di falafel o un uovo, che di solito aveva un odore piuttosto nauseabondo, a volte con puntini rossi, a volte blu. Tutto qui.
Nazar ha detto a riguardo: “Non è solo la quantità. Ciò che portano non è adatto al consumo umano. Il riso è cotto solo a metà, quasi tutto è andato a male. E sai, ci sono anche dei ragazzini lì, che non sono mai stati in prigione prima. Abbiamo cercato di prenderci cura di loro, di dare loro un po’ del nostro cibo andato a male. Ma se dai via un po’ del tuo cibo, anche una goccia, è come se ti stessi suicidando. Ora c’è una carestia nelle prigioni, e non è dovuta a un disastro naturale, è la politica del servizio carcerario israeliano”.
Ultimamente la fame è persino aumentata. A causa del sovraffollamento il servizio carcerario sta trovando il modo di rendere le sezioni ancora più anguste. Gli spazi pubblici, come il commissariato, o qualsiasi altro luogo l’amministrazione carceraria potesse rivendicare come propria, si sono trasformati in altre celle. Il numero di detenuti nei reparti, già prima stipati al massimo, è solo aumentato. Ci sono sezioni che hanno ospitato 50 detenuti in più, ma senza nessun alimento aggiuntivo per loro. Quindi non c’è da stupirsi che i detenuti perdano un terzo o anche di più del loro peso corporeo nel giro di pochi mesi.
Nelle prigioni il cibo non è l’unica cosa a scarseggiare. Ai detenuti è proibito, ad esempio, possedere qualsiasi cosa che non sia un set di vestiti. Una maglietta, un paio di mutande, un paio di calzini, un paio di pantaloni, una felpa. Tutto qui. Per l’intera durata della loro detenzione. Ricordo che una volta, quando l’avvocato di Munther, Riham Nasra, è andato a trovarlo, lui è arrivato scalzo in sala visite. Era inverno e a Ofer faceva un freddo gelido. Quando gli ha chiesto perché fosse a piedi nudi lui ha risposto solo: “Non ce ne sono”.
Secondo una dichiarazione del tribunale rilasciata dallo stesso servizio carcerario circa un quarto di tutti i prigionieri palestinesi soffre di scabbia (una malattia della pelle contagiosa e pruriginosa). Al momento della liberazione di Nazar la pelle era già in fase di guarigione. Le lesioni non sanguinavano più ma le croste gli coprivano ancora gran parte del corpo.
“L’odore nella cella è qualcosa che le parole non possono descrivere. È come una puzza di putrefatto, ci siamo seduti lì e siamo marciti: la nostra pelle, la nostra carne. Non siamo esseri umani lì, siamo carne in putrefazione”, ha detto. “Ma come potrebbe essere altrimenti? L’acqua di solito manca del tutto, è disponibile solo un’ora al giorno, e a volte non abbiamo avuto acqua calda per giorni. Ci sono state settimane intere in cui non mi sono fatto la doccia. C’è voluto più di un mese per avere del sapone. Ci sediamo lì, con gli stessi vestiti, perché nessuno ha un cambio di vestiti, e sono coperti di sangue e pus, e c’è un tanfo, non di rifiuti, ma di morte. I nostri vestiti erano infradiciati dai corpi in putrefazione”.
Tawfiq racconta che “c’era solo un’ora di acqua corrente al giorno. Non solo nella doccia, ovunque, compresi i gabinetti. Quindi in quell’ora 12 persone nella cella dovevano fare tutto ciò che richiedeva acqua, incluso fare i propri bisogni. Ovviamente è impossibile. E inoltre, poiché quasi tutto il cibo era andato a male, la maggior parte di noi aveva sempre disturbi di stomaco. Puoi immaginare da solo quanto puzzasse la nostra cella”.
In queste condizioni lo stato fisico dei detenuti inevitabilmente peggiora. Una perdita di peso così rapida, ad esempio, porta il corpo a consumare il tessuto muscolare. Quando Munther è stato rilasciato, ha raccontato a sua moglie Sanaa, un’infermiera, che era così sporco mentre era dentro che il sudore aveva macchiato i suoi vestiti di arancione. Lei lo ha guardato e gli ha chiesto: “E l’urina?” Al che lui ha risposto: “Ho anche urinato sangue.” “Ya ahbal!” gli ha urlato – “Idiota! Non era sporcizia, era il tuo corpo che espelleva i muscoli che aveva consumato per sopravvivere.”
Gli esami del sangue di quasi tutti quelli che conosco hanno rivelato che soffrivano di malnutrizione e di gravi carenze di ferro, oltre che di altri minerali e vitamine essenziali. Ma anche le cure mediche erano un lusso. Cosa accade oggi nelle infermerie delle prigioni va oltre la mia comprensione, ma dal punto di vista dei detenuti è come se non esistessero. Per coloro che stavano ricevendo trattamenti continuativi le cure sono semplicemente state interrotte. Di tanto in tanto un paramedico fa il giro della prigione ma non viene somministrato alcun trattamento e la “visita” non è altro che una conversazione attraverso la porta della cella. A volte può passare una settimana o più senza che si presenti un paramedico.
Nella migliore delle ipotesi la risposta medica è il paracetamolo e nella maggior parte dei casi è più simile a un’istruzione di “bere acqua”. Naturalmente non ce n’è abbastanza nelle celle perché per la maggior parte del giorno manca l’acqua corrente.
Stupro e aggressioni sessuali sono citati quasi esclusivamente come voci, come qualcosa che è successo ad altri. L’unico che me ne ha parlato esplicitamente è stato Burhan. Era nella prigione di Ketziot, nel Negev, e c’è stato un raid nella sua ala. Le guardie li hanno fatti uscire dalla cella uno ad uno dopo averli ammanettati con fascette di plastica. Mentre aspettava il suo turno ha sentito suppliche di aiuto e grida di dolore, insieme a imprecazioni da parte delle guardie.
Giunto il suo turno è stato condotto in un’area comune dell’ala. Lì ha visto i detenuti che erano stati fatti uscire dalla cella prima di lui sdraiati sul pavimento uno sopra l’altro, nudi e sanguinanti. Una guardia lo ha spogliato, gli ha bendato gli occhi e poi, con calci, imprecazioni e minacce, lo ha spinto a terra. Li hanno pestati, racconta, mentre giacevano lì, nudi e senza poter vedere, mentre i cani camminavano intorno a loro e annusavano i loro corpi.
A un certo punto ha sentito un dolore terribile al retto mentre un oggetto di qualche tipo veniva spinto dentro di lui. Non sa, o non vuole dire, per quanto tempo sia andato avanti, in che modo esattamente, o se anche altri siano stati aggrediti. Tornato in cella, sono rimasti tutti semplicemente seduti a fissare il vuoto. Nessuno ha detto una parola. Racconta però che per un po’ di tempo è stato difficile camminare, in parte a causa delle percosse, e che per una settimana dopo l’incidente ha trovato sangue nelle feci e nelle urine. Ricevere cure mediche non era un’opzione.
Mentre i resoconti di stupro sono tabù e raramente citati, l’umiliazione sessuale è evidente per tutti: sui social media sono stati pubblicati video di detenuti condotti completamente nudi dal personale del servizio carcerario. Ciò poteva essere documentato solo dalle guardie stesse, orgogliose delle loro azioni. L’uso di una perquisizione corporea come opportunità per perpetrare un’aggressione sessuale, solitamente tramite un colpo all’inguine con la mano o con il magnetometro, è un’esperienza quasi standard, che viene menzionata regolarmente dai detenuti che hanno scontato la pena in varie prigioni.
Essendo un uomo, naturalmente non ho sentito nulla di prima mano riguardo alle violenze sessuali sulle donne. Ma quello che ho sentito più volte è che c’è una carenza di prodotti per l’igiene mestruale e che il ciclo viene usato come strumento di umiliazione. Dopo le prime percosse subite il giorno del suo arresto Munira è stata portata nella prigione di Hasharon, nel centro di Israele. Tutti vengono sottoposti a una perquisizione corporale all’ingresso del carcere ma la perquisizione integrale non è la norma: secondo i regolamenti del servizio carcerario essa richiede un sospetto ragionevole che il detenuto nasconda un oggetto proibito e l’autorizzazione dell’ufficiale responsabile.
Tuttavia durante la perquisizione integrale a cui Munira è stata sottoposta non era presente alcun ufficiale di grado elevato e certamente non è stata autorizzata nessuna procedura sulla base di un ragionevole sospetto. È stata spinta da due guardie di sesso femminile nella piccola stanza usata per i controlli di sicurezza, dove ha dovuto togliersi i vestiti, compresi mutandine e reggiseno, e inginocchiarsi. Dopo averla lasciata sola per qualche minuto una guardia è tornata, l’ha percossa e se ne è andata. Alla fine le hanno gettato addosso i vestiti e ha potuto vestirsi.
Il giorno dopo era il primo giorno del ciclo. Ha ricevuto un assorbente e ha dovuto arrangiarsi per tutta la durata. Lo stesso valeva per le altre. Al rilascio soffriva di infezione e grave infiammazione delle vie urinarie.
Epilogo
Sde Teiman, un campo di prigionia dell’esercito vicino al confine di Gaza, era chiaramente il posto peggiore in cui essere incarcerati e presumibilmente è per questo che è stato chiuso e trasformato in un centro di detenzione temporaneo. In effetti è difficile pensare alle descrizioni di orrori e atrocità che sono emerse da quel recinto di tortura senza immaginare che fosse stato progettato per fungere da centro del nono girone dell’inferno. Ma non è un caso che lo Stato abbia accettato di trasferire i detenuti di quel carcere in altri luoghi, principalmente Ketziot e Ofer, che non sono molto migliori.
Sde Teiman o no, Israele sta tenendo migliaia di palestinesi in recinti di tortura; dal 7 ottobre almeno 68 sono stati uccisi. Di questi, quattro detenuti sono morti solo dall’inizio di dicembre. Uno, Mohammed Walid Ali, 45 anni, del campo profughi di Nur Shams, vicino a Tul Karm in Cisgiordania, è stato ucciso solo una settimana dopo essere stato preso in custodia.
Tutte le forme di tortura – fame, umiliazione, violenza sessuale, percosse, uccisioni e costrizione a vivere in celle sovraffollate – non sono semplicemente azioni casuali. Considerate nel loro insieme, come dovrebbero, costituiscono la politica israeliana.
(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)