Perché la Palestina è ancora il problema

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John Pilger

18 settembre 2017,Defend Democracy Press

Quando andai per la prima volta in Palestina come giovane reporter negli anni ’60, soggiornai in un kibbutz. Le persone che incontrai erano grandi lavoratori, coraggiosi e si definivano socialisti. Mi piacevano.

Una sera a cena domandai chi fossero le figure che si vedevano in lontananza, al di là dell’area (del nostro kibbutz).

Arabi”, mi dissero, “nomadi”. Le parole vennero quasi sputate. Israele, dissero, intendendo la Palestina, era per la maggior parte una terra deserta e una delle grandi opere dell’impresa sionista è stata rendere verde il deserto.

Portarono ad esempio il loro raccolto di arance di Jaffa, che veniva esportato nel resto del mondo. Che grande vittoria sulle bizzarrie della natura e l’incuria degli uomini.

Fu la prima menzogna. La maggior parte degli aranceti e dei vigneti appartenevano a palestinesi che avevano coltivato la terra ed esportato arance ed uva in Europa fin dal diciottesimo secolo. L’ex città palestinese di Jaffa veniva chiamata dai precedenti abitanti come “il posto delle arance tristi”.

Nel kibbutz il termine “palestinese” non veniva mai pronunciato. Chiesi il perché. La risposta fu un silenzio imbarazzato.

In tutto il mondo colonialista, la vera sovranità del popolo autoctono fa paura a coloro che non possono mai nascondere del tutto il fatto, ed il crimine, che vivono su una terra rubata.

La negazione dell’umanità della popolazione è il passo successivo – come il popolo ebraico sa fin troppo bene. Infamare la dignità, la cultura e l’orgoglio del popolo viene di conseguenza, in modo altrettanto logico della violenza.

A Ramallah, dopo un’invasione della Cisgiordania da parte del defunto Ariel Sharon nel 2002, camminavo attraverso strade costellate da automobili sfasciate e case demolite, verso il “Centro Culturale Palestinese”. Fino a quel mattino i soldati erano accampati là.

Mi accolse la direttrice del Centro, la scrittrice Liana Badr, i cui manoscritti originali erano sparsi e a pezzi sul pavimento. Il disco rigido contenente il suo romanzo ed una raccolta di racconti e poesie erano stati portati via dai soldati israeliani. Quasi ogni cosa era in frantumi e insudiciata.

Neanche un libro era rimasto integro; neanche una bobina di una delle migliori collezioni del cinema palestinese.

I soldati avevano urinato e defecato sui pavimenti, sui tavoli, sui ricami e i manufatti artistici. Avevano imbrattato di escrementi i dipinti dei bambini e avevano scritto – con le feci – “Nato per uccidere”.

Liana Badr aveva gli occhi pieni di lacrime, ma la schiena dritta. “Lo rimetteremo a posto di nuovo”, disse.

Ciò che fa imbestialire quelli che colonizzano ed occupano, rubano ed opprimono, vandalizzano e violano, è il rifiuto delle vittime di piegarsi. E questo è il prezzo che tutti noi dobbiamo pagare ai palestinesi. Il rifiuto di sottomettersi. Loro tirano dritto. Aspettano – finché ricominceranno la lotta. E fanno così anche quando chi li governa collabora con i loro oppressori.

Nel mezzo dei bombardamenti israeliani su Gaza del 2014, il giornalista palestinese Mohammed Omer non ha mai smesso di scrivere. Lui e la sua famiglia erano stati danneggiati; lui faceva la coda per il cibo e l’acqua e li trasportava attraverso le macerie. Quando gli telefonavo potevo sentire le bombe fuori dalla sua porta. Si è rifiutato di arrendersi.

Gli articoli di Mohammed, accompagnati dalle sue fotografie, sono stati un esempio di giornalismo professionale che faceva vergognare il giornalismo corrivo e codardo del cosiddetto ‘mainstream’ britannico e statunitense. Il concetto di obbiettività della BBC – che diffonde le falsità e le menzogne dell’autorità, prassi di cui si fa vanto – viene quotidianamente confutato da gente come Mohammed Omer.

Per oltre 40 anni ho constatato il rifiuto del popolo palestinese di piegarsi ai suoi oppressori: Israele, Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Europea.

Dal 2008 la sola Gran Bretagna ha assicurato licenze di esportazione di armi e missili, droni e fucili di precisione verso Israele per un valore di 434 milioni di sterline.

Quelli che hanno resistito a questo, senza armi, quelli che hanno rifiutato di piegarsi, sono tra i palestinesi che ho avuto il privilegio di conoscere:

Il mio amico, il defunto Mohammed Jarella, che lavorava per l’agenzia delle Nazioni Unite UNRWA [per i rifugiati palestinesi, ndt.], nel 1967 mi ha mostrato per la prima volta un campo profughi palestinese. Era un gelido giorno d’inverno e gli scolari tremavano di freddo. “Un giorno….”, diceva. “Un giorno…”

Mustafa Barghouti, la cui eloquenza rimane intatta, ha descritto lo spirito di tolleranza che c’era in Palestina tra ebrei, musulmani e cristiani fino a quando, come mi disse, “I sionisti pretesero uno Stato a spese dei palestinesi.”

La dottoressa Mona El-Farra, medico a Gaza, la cui passione era raccogliere denaro per la chirurgia plastica per i bambini sfigurati dalle pallottole e dalle granate israeliane. Il suo ospedale è stato raso al suolo dalle bombe israeliane nel 2014.

Il dottor Khalid Dahlan, psichiatra, i cui ambulatori per bambini a Gaza – bambini resi quasi pazzi dalla violenza israeliana – erano oasi di civiltà.

Fatima e Nasser sono una coppia la cui casa si trovava in un villaggio vicino a Gerusalemme, designato come “Zona A e B”, che significava che la terra era destinata ai soli ebrei. I loro genitori avevano vissuto là; i loro nonni avevano vissuto là. Oggi i bulldozer spianano strade per soli ebrei, protetti da leggi per soli ebrei.

Era passata la mezzanotte quando Fatima iniziò il travaglio del suo secondo figlio. Il bimbo era prematuro; quando arrivarono ad un checkpoint in vista dell’ospedale, il giovane israeliano disse che c’era bisogno di un altro documento.

Fatima stava perdendo molto sangue. Il soldato rideva e imitava i suoi gemiti e disse loro: ”Andatevene a casa”. Il bambino nacque là in un camion. Era cianotico per il freddo e in breve, senza cure, morì assiderato. Il suo nome era Sultan.

Per i palestinesi, queste storie sono consuete. La domanda è: perché non lo sono a Londra e Washington, a Bruxelles e Sydney?

In Siria una recente campagna progressista– una campagna di George Clooney – viene lautamente finanziata in Gran Bretagna e Stati Uniti, anche se i beneficiari, i cosiddetti ribelli, sono capeggiati da jihadisti fanatici, il prodotto dell’invasione di Afghanistan e Iraq e della distruzione della moderna Libia.

E ancora, non viene riconosciuta la più lunga occupazione dell’epoca moderna. Quando le Nazioni Unite improvvisamente si risvegliano e definiscono Israele uno Stato di apartheid, come hanno fatto quest’anno, si grida allo scandalo – non contro uno Stato il cui “obiettivo fondamentale” è il razzismo, ma contro una commissione dell’ONU che ha osato rompere il silenzio.

La Palestina”, ha detto Nelson Mandela, “è la più grande questione morale dei nostri tempi.”

Perché questa verità è negata, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno?

Su Israele – lo Stato di apartheid, colpevole di un crimine contro l’umanità e di violazioni del diritto internazionale più numerose di qualunque altro Stato – persiste il silenzio tra coloro che sanno ed il cui compito è di dire come stanno effettivamente le cose.

Riguardo a Israele, moltissimi giornalisti vengono intimiditi e controllati da un pensiero unico che chiede silenzio sulla Palestina, mentre il giornalismo onesto è diventato dissidenza: un metaforico movimento clandestino.

Una sola parola – “conflitto” – consente questo silenzio. “Il conflitto arabo-israeliano”, scandiscono i robot nelle loro suggestioni televisive. Quando un reporter della BBC di lunga esperienza, uno che conosce la verità, parla di “due narrazioni”, la distorsione morale è completa.

Non c’è un conflitto, non ci sono due narrazioni, con un proprio fulcro etico. C’è un’occupazione militare messa in atto da una potenza nucleare appoggiata dal potere militare più grande al mondo; e c’è un’enorme ingiustizia.

Il termine “occupazione” può essere bandito, cancellato dal vocabolario. Ma la memoria della verità storica non può essere cancellata: quella della sistematica espulsione dei palestinesi dalla loro patria. Gli israeliani nel 1948 l’hanno chiamata “Piano D”.

Lo storico israeliano Benny Morris racconta di quando uno dei suoi generali domandò a Ben-Gurion, il primo capo del governo israeliano: “Che cosa dobbiamo fare degli arabi?”

Il Primo Ministro, ha scritto Morris, “fece uno sprezzante e vigoroso gesto con la mano”. “Espelleteli!” disse.

Settant’anni dopo, questo crimine è sparito dalla cultura intellettuale e politica dell’Occidente. Oppure è opinabile, o semplicemente controverso. Giornalisti ben pagati accettano volentieri i viaggi, l’ospitalità e le lusinghe offerti dal governo israeliano, poi sono durissimi nel professare la propria indipendenza. Il termine “utili idioti” è stato coniato per loro.

Nel 2011 mi ha colpito la leggerezza con cui uno dei più famosi scrittori britannici, Ian McEwan, un uomo intriso dell’alone di illuminismo borghese, ha accettato il Jerusalem Prize per la letteratura nello Stato dell’apartheid.

McEwan sarebbe andato a Sun City nel Sudafrica dell’apartheid? Anche là attribuivano premi, con tutte le spese pagate. McEwan giustificò il suo comportamento con parole evasive circa l’indipendenza della “società civile”.

La propaganda – del tipo che McEwan ha espresso, con la sua simbolica tirata d’orecchi per i suoi deliziati ospiti – è un’arma in mano agli oppressori della Palestina. Come lo zucchero, oggi permea quasi ogni cosa.

Il nostro compito più importante è comprendere e decostruire la propaganda statale e culturale. Stiamo andando velocemente verso una seconda guerra fredda, il cui scopo finale è sottomettere e balcanizzare la Russia e intimidire la Cina.

Quando Donald Trump e Vladimir Putin hanno parlato in privato per oltre due ore al meeting del G20 di Amburgo, apparentemente della necessità di non entrare in guerra tra loro, gli oppositori più accesi sono stati quelli che si sono appropriati del liberismo, come il commentatore politico sionista del Guardian.

Non c’è da stupirsi che Putin sorridesse ad Amburgo”, ha scritto Jonathan Freedland. “Sa di aver raggiunto il suo principale obbiettivo: ha reso l’America di nuovo debole.”

Questi propagandisti non hanno mai conosciuto la guerra, ma amano il gioco imperialista della guerra. Ciò che McEwan chiama “società civile” è diventata una ricca fonte di propaganda ad esso connessa.

Prendete un termine spesso usato dai tutori della società civile – “diritti umani”. Come un altro nobile concetto, “democrazia”, “diritti umani” è stato semplicemente svuotato del suo significato e del suo scopo.

Così come il “processo di pace” e la “road map”, i diritti umani in Palestina sono stati sequestrati dai governi occidentali e dalle ONG da loro finanziate, che si arrogano un’utopica autorità morale.

Perciò quando Israele viene richiamata da governi ed ONG a “rispettare i diritti umani” in Palestina, non succede niente, perché tutti sanno che non c’è niente da temere; niente cambierà.

Notate il silenzio dell’Unione Europea, che accontenta Israele mentre rifiuta di mantenere gli impegni verso la popolazione di Gaza – come mantenere aperto il varco del confine di Rafah: una misura concordata come parte del suo ruolo nel cessate il fuoco del 2014. [Il progetto di] un porto marittimo per Gaza – concordato da Bruxelles nel 2014 – è stato abbandonato.

La commissione dell’ONU di cui ho parlato – il suo nome esatto è Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale – ha descritto Israele come, e cito testualmente, “finalizzato all’obiettivo fondamentale” della discriminazione razziale.

Milioni di persone lo capiscono. Ciò che i governi a Londra, Washington, Bruxelles e Tel Aviv non possono controllare è che l’opinione pubblica sta cambiando, forse come mai prima d’ora.

La gente ovunque si sta risvegliando ed è più consapevole, secondo me, di quanto lo sia mai stata prima d’ora. Alcuni sono già apertamente in rivolta. L’atrocità della Grenfell Tower [grattacielo con appartamenti popolari bruciato il 14 giugno 2017, ndt.] di Londra ha unificato la collettività in una attiva resistenza praticamente in tutta la Nazione.

Grazie ad una campagna popolare, la magistratura sta ora esaminando le prove di una possibile imputazione contro Tony Blair per crimini di guerra. Anche se questo non avverrà, si tratta di un importante sviluppo, che elimina un’ ulteriore barriera tra l’opinione pubblica ed il riconoscimento della natura vorace dei crimini del potere statale – il sistematico disprezzo dell’umanità perpetrato in Iraq, alla Grenfell Tower, in Palestina. Questi sono i punti che attendono di essere uniti.

Per la maggior parte del XXI secolo, l’imbroglio del potere delle imprese camuffato da democrazia ha poggiato sulla propaganda del diversivo: soprattutto su un culto dell’individualismo finalizzato a disorientare la nostra capacità di guardare agli altri e di agire insieme, il nostro senso di giustizia sociale e di internazionalismo.

Classe, genere e razza sono stati separati. Il personale è diventato politico e i media sono diventati il messaggio. La promozione dei privilegi borghesi è stata presentata come politica “progressista”. Non lo era. Non lo è mai stata. E’ la valorizzazione del privilegio e del potere.

Tra i giovani l’internazionalismo ha trovato una nuova vasta platea. Guardate l’appoggio a Jeremy Corbin e l’attenzione che ha ricevuto il G20 ad Amburgo. Se comprendiamo la verità e gli imperativi dell’internazionalismo, e rifiutiamo il colonialismo, comprendiamo la lotta della Palestina.

Mandela lo ha espresso così: “Sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi.”

Il cuore del Medio Oriente è la storica ingiustizia in Palestina. Finché questa non venga risolta e i palestinesi abbiano la loro libertà e la loro patria e ci sia eguaglianza di fronte alla legge tra israeliani e palestinesi, non vi sarà pace nella regione, o forse in nessun luogo.

Ciò che Mandela diceva è che la libertà stessa è precaria finché i governi potenti possono negare la giustizia ad altri, terrorizzarli, imprigionarli ed ucciderli, in nostro nome. Certamente Israele comprende il rischio che un giorno potrebbe dover essere normale.

Ecco perché il suo ambasciatore in Gran Bretagna è Mark Regev, ben noto ai giornalisti come propagandista di professione, e perché il “grande bluff” delle accuse di antisemitismo, come lo ha definito Ilan Pappe, ha potuto sconvolgere il partito laburista e indebolire Jeremy Corbin come leader. Il punto è che non ci è riuscito.

I fatti procedono in fretta adesso. La notevole campagna per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) sta funzionando, ogni giorno di più; città e comuni, sindacati e organismi studenteschi la stanno supportando. Il tentativo del governo britannico di impedire agli enti locali di sostenere il BDS è stato sconfitto nei tribunali.

Queste non sono parole al vento. Quando i palestinesi si solleveranno di nuovo, e lo faranno, potrebbero non vincere subito – ma alla fine vinceranno, se noi comprendiamo che loro sono noi, e noi siamo loro.

Questa è una versione ridotta dell’intervento di John Pilger al Palestinian Expo di Londra l’8 luglio 2017.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

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