Operai palestinesi scioperano in una zona industriale della Cisgiordania

Lavoratori palestinesi a un controllo nei pressi della zona industriale Mishor Adumin vicino alla colonia Maale Adumin (Photo by MENAHEM KAHANA / AFP)
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Danny Zaken

14 gennaio 2021 – Al-Monitor

Gli operai palestinesi della Yamit stanno scioperando per ottenere il loro primo consistente aumento salariale in decenni.

La storia delle fabbriche israeliane nelle zone industriali in Cisgiordania in cui vige un’ambiguità legale ha risvolti economici e politici e la crisi da coronavirus ne ha evidenziato le dinamiche nel momento in cui i palestinesi lottano per l’uguaglianza salariare con gli israeliani.

Ogni giorno entrano in Israele circa 80.000 lavoratori palestinesi. Stando ai dati dell’Amministrazione Civile israeliana, un dipartimento del Ministero della Difesa [israeliano] che tiene i collegamenti tra le autorità palestinesi e quelle israeliane, i lavoratori hanno un salario mensile in media di 6.000 shekel [circa €1.500]. Ciò equivale all’incirca al salario minimo per gli israeliani, ma corrisponde a circa quattro volte la media nei territori palestinesi. Altri 30.000 palestinesi lavorano in Cisgiordania, principalmente nelle zone industriali adiacenti alle colonie israeliane. Alcune migliaia sono occupati nell’edilizia. Secondo l’Amministrazione Civile, i salari dei palestinesi che lavorano nelle colonie in Cisgiordania sono solo leggermente inferiori a quelli dei palestinesi che lavorano in Israele, con una media di circa 5.500 shekel [€1.400] al mese. Hanno anche diritto a condizioni e sussidi previsti dalla legge israeliana come pensioni, malattia e vacanze retribuite.

Un funzionario dell’Amministrazione Civile ha detto ad Al-Monitor che nel 2019 i redditi di questi 120.000 lavoratori sono ammontati a più di un quarto del totale delle entrate in Cisgiordania. Quest’anno la cifra è persino maggiore a causa della pandemia che ha devastato l’economia palestinese. Dato che Israele dipende in buona misura dalla forza-lavoro palestinese, soprattutto nell’edilizia, persino durante il picco delle ondate dell’infezione i lavoratori che altrimenti avrebbero dovuto essere in lockdown hanno avuto il permesso di entrare in Israele.

Nel 2007 la Corte Suprema ha deliberato che la legge israeliana si applica ai palestinesi impiegati in Israele e nelle colonie della Cisgiordania. Nove giudici hanno deciso all’unanimità che la nazionalità non poteva essere usata come scusa dai datori di lavoro per offrire loro condizioni che differissero da quelle della controparte israeliana.

La decisione si applica a tutti i palestinesi che lavorano in Israele e nelle colonie. Comunque non vale nella zona industriale di Nitzanei Shalom, che negli anni ’90, subito dopo la firma degli accordi di Oslo, fu costruita vicino alla città palestinese di Tulkarem e lungo la barriera di separazione. La Yamit, che costruisce filtri dell’acqua per uso agricolo e casalingo, si trova in questa zona industriale e perciò non è soggetta alla legge israeliana in generale.

La fabbrica impiega 80 palestinesi che guadagnano mensilmente fra i 5.000 e i 6.000 shekel (1.260-1.500 €). Alcuni vi lavorano da vent’anni o più e ora che hanno una considerevole esperienza professionale vogliono un aumento. Si sono persino organizzati come un sindacato con Maan, l’organizzazione sindacale israeliana.

I negoziati con la fabbrica sono iniziati l’anno scorso, ma, a causa del coronavirus, si sono trascinati per mesi. Alla fine Ofer Talmi, il proprietario, li ha informati che non avrebbe potuto soddisfare le loro richieste a causa della crisi economica conseguente al COVID-19. Ma i lavoratori si sono rifiutati di cedere. Il 31 dicembre 2020 sono scesi in sciopero. Sorpreso, Talmi ha mandato una email di protesta al capo di Maan, Assaf Adiv, dicendo che lui aveva soddisfatto tutti gli obblighi di legge verso i propri lavoratori. Poi ha aggiunto: “La terra di Israele appartiene al popolo ebraico. Quindi non voglio avere dei lavoratori palestinesi con legami di alcun tipo con lo Stato di Israele.” Furiosi per la risposta, gli scioperanti hanno passato la mail ai media palestinesi e israeliani.

Halil Shihab, uno degli scioperanti, dice: “Noi abbiamo lavorato per anni pagati con il minimo salariale. Noi siamo specializzati e prendiamo il minimo. Adesso lui dice che non vuole dare ai suoi dipendenti nemmeno le condizioni di base perché sono arabi, non certo perché non può permetterselo.”

Rendendosi conto dell’enormità del suo errore, Talmi ha diffuso una lettera in arabo in cui si scusava con i suoi lavoratori e li metteva in guardia che se lo sciopero fosse continuato sarebbe stato costretto a chiudere. Ha promesso a ognuno di loro 1.000 shekel [€ 253] se fossero ritornati al lavoro e ha detto che avrebbe ripreso i negoziati sui salari. “Voglio scusarmi e ritrattare quello che ho scritto nella mia mail precedente sul diritto alla Terra di Israele. L’ho scritta in un momento di estrema pressione. … Per me è molto duro vedere chiusi i cancelli della nostra fabbrica perché potrebbe avere serie conseguenze per tutte le nostre vite. Attraversiamo un periodo difficile e lo sciopero ci danneggia tutti. Mette in pericolo la nostra stessa esistenza.”

Secondo i dirigenti della fabbrica, Adiv aveva condiviso la prima lettera con organizzazioni antiisraeliane come il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, che l’ha usata per attaccare Israele. I suoi motivi, loro dicono, erano totalmente politici. Nel frattempo il proprietario della fabbrica dice ad Al-Monitor: “Yamit ha impiegato lavoratori palestinesi per oltre 35 anni. Opera in accordo con la legge e garantisce a tutti vari diritti e indennità, inclusi una paga migliore, pensioni, indennità per malattia e indennizzi. Assaf Adiv di Maan sta usando cinicamente questo momento difficile, sapendo che Yamit, come tante altre fabbriche e industrie in Israele e in tutto il mondo, sta affrontando enormi difficoltà a causa del coronavirus. Questo tentativo di interferire, apparentemente a favore di una o l’altra ideologia, causa un danno enorme a relazioni che altrimenti funzionavano bene, con una effettiva coesistenza che per anni è stata il marchio distintivo di questa fabbrica. ”

Adiv nega le accuse. In una conversazione con Al-Monitor afferma che tutto quello che voleva era ottenere migliori condizioni lavorative per dipendenti con anzianità. Se Talmi avesse dichiarato la sua disponibilità ad aumentare i salari alla fine della crisi, l’intera situazione si sarebbe risolta. Adiv ha anche affermato che nel corso degli anni Talmi, non avendo mai pagato i contribuiti al fondo pensioni dei lavoratori, ha risparmiato milioni.

Ali, un altro operaio, parla con Al-Monitor del conflitto. Chiedendo di non citare il suo cognome, dice: “Sono disposto a perdonare Ofer Talmi, ma lui deve capire che ci meritiamo di più. Se vuole veramente sostenere la coesistenza, che ci faccia vedere come. Poi noi lo aiuteremo a far uscire la fabbrica dalla crisi.” In questo caso il modello della zona industriale potrebbe sopravvivere. Altrimenti potrebbe trovarsi in serio pericolo.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)