Israele vanifica la distinzione tra civili e militari

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Muhammad Ali Khalidi – 24 maggio 2021

Institute for Palestine Studies

Basta un’occhiata alle cifre delle vittime civili durante l’offensiva israeliana su Gaza per rendersi conto del numero terribilmente sproporzionato di civili palestinesi uccisi o feriti rispetto al numero dei militanti. Secondo i dati preliminari, a Gaza gli attacchi aerei e di artiglieria israeliani hanno ucciso 248 persone di cui almeno 66 bambini (il 27% di tutti i decessi), facendo 1.900 feriti. Il 16 maggio in un unico attacco Israele ha distrutto quattro case uccidendo 42 civili, seppellendo gli abitanti sotto le macerie.

L’elevata percentuale di vittime civili è una caratteristica degli attacchi militari israeliani sia sul fronte palestinese che su quello libanese. Nel 2014 l’assalto israeliano a Gaza ha provocato un totale di 2.189 morti, di cui 1.486 civili (68%) e circa 360 bambini sotto i 12 anni (16% del totale). Negli attentati del 2008-2009 sono stati uccisi ben 1.419 palestinesi, di cui 1.167 civili (82%) e 318 bambini (il 22% di tutte le vittime). Nella guerra del 2006 in Libano sono stati uccisi dall’esercito israeliano circa 1.200 civili libanesi (circa il 96% del totale).

I principali media hanno dato le vittime civili palestinesi come semplici incidenti e deplorevoli danni collaterali di una campagna israeliana diretta precisamente contro i militanti di Hamas. Ma è una forzatura credere che Israele, con una delle macchine militari tecnologicamente più avanzate che il mondo abbia mai visto possa essere così incapace ad evitare di causare danni ai civili. Data la pubblicità negativa associata all’infliggere morte e ferite a una popolazione civile disarmata, cosa c’è dietro il numero elevato e enormemente sproporzionato di vittime civili palestinesi?

Una risposta parziale si trova in uno stupefacente articolo pubblicato nel 2005 su una rivista accademica dall’ex capo dell’intelligence militare israeliana, Amos Yadlin, e da un professore israeliano, Asa Kasher. Il documento delineava l’ “etica militare” che dovrebbe guidare la guerra di Israele al “terrore”. Gli autori spiegavano il loro rifiuto del “principio di distinzione” del diritto internazionale, che richiede alle parti in conflitto di distinguere tra combattenti e non, e di adottare tutte le misure necessarie per evitare danni ai non combattenti.

Secondo Michael Walzer, una delle maggiori autorità in materia di etica militare (e talvolta difensore delle azioni militari israeliane), il principio di distinzione afferma che gli eserciti dovrebbero fare attenzione a evitare danni ai non combattenti dell’altra parte, anche a rischio dei propri militari. Come dice Walzer, “se salvare vite di civili significa rischiare la vita di soldati, il rischio dev’essere accettato.” (Walzer, Just and Unjust Wars, p. 156).

Ma Kasher e Yadlin ignorano tale principio. A loro avviso, la sicurezza dei loro soldati dovrebbe avere la meglio sulla sicurezza dei civili dall’altra parte. Scrivono: “Se lo Stato non ha controllo effettivo sulle adiacenze, non deve assumersi la responsabilità del fatto che le persone coinvolte nel terrorismo operino in prossimità di persone che non lo sono” (p. 18). Ma anche se si accetta che i civili “operino” nelle adiacenze dei combattenti, ciò non esonera i militari dall’adottare tutte le misure per evitare di danneggiarli. Questo tentativo di giustificazione è moralmente e legalmente inaccettabile.

Gli apologeti di Israele affermano regolarmente che le vittime civili sono giustificate dal presunto uso di scudi umani da parte di Hamas. Ma il Rapporto Goldstone delle Nazioni Unite non ha trovato prove dell’uso di scudi umani da parte di Hamas a Gaza nel 2009. Invece è stato ampiamente documentato l’uso di scudi umani palestinesi da parte di Israele in precedenti attacchi a Gaza, nel Rapporto Goldstone, da Amira Hass su Haaretz e da Clancy Chassay sul Guardian. In effetti, la Corte Suprema israeliana ha riscontrato come l’esercito israeliano abbia usato palestinesi come scudi umani in 1.200 occasioni nei cinque anni precedenti al 2014. Per citare solo un caso, durante l’invasione di Gaza del 2008-2009 due soldati israeliani hanno ordinato a un ragazzo di nove anni, puntandogli il fucile, di aprire una borsa che sospettavano fosse una trappola esplosiva.

Ci sono numerose prove di come questa deviazione dalle regole di guerra da parte dell’ex capo dell’intelligence militare israeliana e del suo coautore non sia solo un esercizio accademico o un proclama teorico. È stata indubitabilmente trasmessa agli alti ufficiali militari, ai comandanti di medio livello e alla base. Ora fa parte della dottrina militare israeliana, corroborata da numerose dichiarazioni e interviste.

Per quel che riguarda il personale militare superiore, il concetto di fondo è stato chiaramente articolato nel 2006 in riferimento al Libano dal generale israeliano Gadi Eisenkot, allora capo del Comando Settentrionale dell’esercito israeliano e in seguito Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano. Ha affermato che i militari israeliani avrebbero esercitato una forza sproporzionata sulle aree civili considerando tali aree basi militari. Divenne nota come “Dottrina Dahiya” (dal sobborgo meridionale di Beirut) ed Eisenkot segnalò che si trattava di un piano “autorizzato”.

I rapporti di organizzazioni come il Comitato Pubblico contro la Tortura in Israele e Breaking the Silence [organizzazione di soldati veterani che espongono al pubblico israeliano la realtà dei Territori occupati, ndtr.] da dieci anni confermano che dai comandi militari vengono date istruzioni di privilegiare la vita dei soldati israeliani rispetto ai civili palestinesi. Riferiscono anche dell’ordine di non fare distinzione tra civili palestinesi e militanti e di non correre alcun rischio per evitare danni ai civili.

Tutto ciò porta inesorabilmente alla lampante conclusione che Israele semplicemente rifiuta il principio di distinzione sancito dal diritto internazionale e rifiuta di riconoscere la differenza legale e morale tra civili e militari. Lo fa sia in teoria che nella pratica, eppure questo fatto evidente sembra essere ignorato dalla copertura mediatica e dal discorso politico prevalente a proposito dell’ultima offensiva israeliana. Quasi a giustificare questa equazione tra i civili palestinesi e i militanti da parte dei media occidentali, la CNN ha recentemente ordinato al suo staff di riferirsi al Ministero della Salute a Gaza come “gestito da Hamas”. Questa direttiva conferma efficacemente il rifiuto israeliano di distinguere tra obiettivi civili e militari.

Muhammad Ali Khalidi è Professore Emerito di filosofia presso il Graduate Center della City University di New York e ha lavorato sugli aspetti filosofici della questione palestinese.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)