Huda Ammori
28 giugno 2022 – The New Arab
Huda Ammori, cofondatrice di Palestine Action [rete di attivisti filo-palestinesi che usa tattiche di disobbedienza civile contro fabbriche di armi israeliane, ndtr.], descrive l’azione diretta degli attivisti contro la fabbrica di armi Elbit Systems per il suo ruolo nel produrre armi per Israele e di come siano riusciti a estrometterla dal Regno Unito.
Armati di vernice rosso sangue, stencil fatti in casa e una macchina fotografica: eravamo pronti a prendere d’assalto 77 Kingsway, il quartier generale londinese della maggiore industria bellica israeliana, Elbit Systems. Per farci aprire la porta ed entrare nei loro prestigiosi uffici è bastato un sorriso. Siamo entrati: la vernice spruzzata ovunque nell’atrio, gli striscioni appesi, le riprese fatte e tutto finito prima che gli addetti alla sicurezza ci buttassero fuori. Ma prima di andarcene avevamo scritto una promessa sul loro muro: ritorneremo!
E siamo ritornati.
Per creare un movimento abbastanza forte da far chiudere tutte e dieci le sedi della Elbit in Gran Bretagna dovevamo essere destabilizzanti e costanti. Azioni occasionali non sarebbero servite. Ogni minuto senza una nostra azione era un minuto in cui la Elbit avrebbe commesso un altro omicidio. Per sconfiggerli dovevamo bombardarli.
Lottavamo contro Golia: una fabbrica di armi fondata nel 1966 con lo scopo specifico di armare le milizie sioniste per attuare la pulizia etnica del popolo palestinese. Oggi il loro modello aziendale si basa sullo sviluppo di armi sperimentali usate contro la popolazione imprigionata a Gaza ed etichettate come “testate in battaglia” e poi spedite verso Israele e altri regimi repressivi.
A luglio 2020 la Gran Bretagna ospitava dieci sedi della Elbit che producevano droni militari, software per artiglieria e acquisizione dati.
Palestine Action è nata per cacciare dal Paese il commercio di armi israeliane. Le azioni non hanno solo preso di mira le sedi della Elbit, ma abbiamo anche fatto pressione su chi ne agevolava la capacità di operare in Gran Bretagna.
Israele non potrebbe fabbricare in modo autonomo la sua sanguinaria catena produttiva di armi. Per ottenere un prestigioso spazio per i propri uffici nel centro di Londra la Elbit aveva avuto bisogno di un agente immobiliare che chiudesse un occhio sui crimini di guerra israeliani, una carneficina che le ha permesso di fare una paccata di soldi. Ecco perché la multimiliardaria società immobiliare JLL è diventata il punto focale a livello nazionale degli attivisti autonomi. Da York a Brighton le sedi di JLL sono regolarmente state oggetto delle scritte con la vernice rossa di Palestine Action.
Con un bersaglio secondario e una palazzina di uffici nel centro di Londra da prendere sistematicamente di mira, la duplice strategia per cacciare la Elbit da Londra si è velocemente messa in moto.
A poche settimane dal lancio della campagna i ministeri israeliani degli Affari Strategici e della Difesa hanno incontrato il governo britannico per discutere su come “reprimere il nostro movimento”. Come noi, anche loro avevano capito il potere dell’azione diretta.
È cominciata così una campagna strategica dello Stato per distruggere il nostro movimento nelle fasi iniziali della sua formazione. Passaporti rubati dalla polizia, irruzioni nelle case e una serie di arresti violenti non sono esperienze piacevoli, ma nulla a confronto con quello che succede a chi si trova dalla parte sbagliata delle armi di Elbit.
Ogni ostacolo che affrontavamo era un passo avanti verso la sconfitta del commercio israeliano di armamenti. E ogni volta che lo Stato interveniva, altre persone si offrivano di unirsi alla lotta per far chiudere Elbit. Le tattiche dello Stato hanno avuto l’effetto contrario.
Palestine Action non faceva che rafforzarsi mentre le sedi della Elbit diventavano sempre più deboli. Il maggiore trafficante di armi israeliano è stato costretto a spendere in sicurezza cifre sempre maggiori, tra l’altro non riuscendo a tenere lontani i nostri attivisti. Le azioni sono diventate più frequenti, più dirompenti e, per la Elbit, considerevolmente più costose.
Con il tempo quello che era partito come un prestigioso edificio nel centro di Londra è diventato un posto squallido, vecchio e fatiscente. Hanno rimosso le sporgenze per impedire alla gente di arrampicarsi, tolto le decorazioni esterne in modo che non fossero abbattute dagli attivisti e assunto un servizio di sicurezza 24 ore su 24 per sorvegliare l’ingresso.
Comunque tutte le loro ulteriori misure per tener lontana Palestine Action sono continuamente fallite. Siamo andati, siamo rimasti e li abbiamo fatti chiudere mille volte.
Nell’aprile 2022 gli attivisti hanno piantato l’ultimo chiodo nella bara del quartier generale londinese di Elbit. Settimana dopo settimana abbiamo danneggiato 77 Kingsway, bloccando gli ingressi, spruzzando l’edificio di vernice rosso sangue e facendo sì che l’opinione pubblica sapesse esattamente chi si nascondeva dietro la porta.
Mentre Elbit era contrariata da tutte le continue azioni al loro quartier generale, la comunità circostante offriva agli attivisti caffè, cibo e costanti messaggi di sostegno. Man mano che cresceva la pressione sulla Elbit e sull’agenzia immobiliare che le aveva affittato la sede, l’unica opzione che restava loro era quella di andarsene.
E infatti se ne sono andati! Proprio la settimana scorsa è stato annunciato che Elbit Systems ha abbandonato il quartier generale londinese a causa della continua campagna di azione diretta di Palestine Action durante la quale sono state arrestate 60 persone. La notizia è arrivata esattamente 5 mesi dopo la chiusura permanente della fabbrica di armi Elbit-Ferranti a Oldham.
La prova è nei fatti: l’azione diretta funziona.
Le pressioni sui governi, le petizioni e le tattiche tradizionali delle campagne non sono mai riuscite a bloccare il traffico di armi fra Gran Bretagna e Israele. Ma nessuno riesce a fermare chi si impegna in prima persona per far chiudere le fabbriche di armamenti sulla soglia di casa nostra.
Huda Ammori è la cofondatrice della rete azione diretta Palestine Action e ha condotto vaste ricerche e campagne contro la complicità britannica con l’apartheid israeliano.
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non rappresentano necessariamente quelle di The New Arab, della sua direzione o redazione.