Meron Rapoport
15 agosto 2023 +972
Il movimento religioso sionista da due decenni è largamente penetrato nello Stato e nella società israeliani. La riforma giudiziaria potrebbe far crollare tutto.
Sembra strano se si pensa che alla vigilia delle ultime elezioni israeliane Benjamin Netanyahu e il suo partito Likud non hanno dato molto peso alla riforma giudiziaria che sta ora dilaniando il Paese. In effetti, il partito non ha fatto campagna elettorale sulla riforma e il Primo Ministro vi ha appena fatto cenno nella prima riunione di governo dopo le elezioni.
Che il graduale disfacimento del sistema giudiziario sarebbe stato l’ultimo disperato tentativo di Netanyahu di evitare il possibile carcere per i suoi scandali di corruzione è ormai risaputo. Ma il vero motore dietro la riforma non è mai stato il Likud: era e rimane il progetto di punta del settore nazional-religioso, su cui si è concentrata l’agenda del Partito Religioso Sionista (PRS) che cerca di “riavviare il sistema legale”.
Nei giorni che hanno preceduto le elezioni il capo del PRS Bezalel Smotrich e il presidente del Comitato Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset Simcha Rothman hanno resa nota quasi ogni singola clausola di quella che sarebbe diventata la riforma presentata dal ministro della Giustizia Yariv Levin. I due sono stati estremamente franchi sull’annullamento della clausola di ragionevolezza [conseguente al principio di uguaglianza impone che le disposizioni normative siano adeguate o congruenti al fine, ndt.], sulla politicizzazione dei consulenti legali del governo, sulla subordinazione del comitato per la nomina dei giudici ai capricci dei politici e, naturalmente, sulla clausola di deroga [in base alla quale una norma giuridica non trova applicazione oppure viene disapplicata in luogo di altra norma, ndt.]
Smotrich e Rothman non si sono preoccupati di nascondere i motivi razzisti e suprematisti della loro proposta di riforma. Attraverso la clausola di deroga, che consentirebbe alla Knesset di ribaltare con una maggioranza semplice qualsiasi decisione emessa dalla Corte Suprema, il governo potrà, secondo il suo programma, “rimandare gli intrusi [cioè i richiedenti asilo africani] al loro paesi di origine utilizzando il metodo della ‘selezione naturale’ [non si spiega cosa si intenda con questa asserzione biologica]; emanare una legge sulla coscrizione [per esentare gli ultra-ortodossi dal servizio militare]; rimettere in vigore la legge di regolarizzazione [emanata nel 2017 e revocata dalla Corte Suprema nel 2020, ndt.] che correggerà un’ingiustizia di lunga data e consentirà di legalizzare le colonie israeliane in Giudea e Samaria, stabilite in buona fede e con il coinvolgimento del Governo su terreni privati [palestinesi], fornendo un equo risarcimento a coloro che dimostrano dei diritti su quelle terre; emanare una legge di conversione di Stato [collegata alla legge sul ritorno per gli ebrei, ndt.] che impedirà l’assimilazione [agli ebrei] e la minaccia di una politica di immigrazione, e altro ancora “.
Contrariamente a quanto i suoi sostenitori possano affermare oggi, la riforma non riguarda ciò che Rothman ha chiamato in seguito “riparare le tubature”. È invece un’ambiziosa revisione che è stata progettata, prima di tutto, per stabilizzare l’apartheid nei territori occupati e sancire la supremazia religiosa e nazionale ebraica all’interno di Israele.
Proprio perché la riforma giudiziaria è in gran parte un progetto del movimento dei coloni – Rothman vive in un avamposto illegale a Gush Etzion e Smotrich a Kedumim nel nord della Cisgiordania – dovrebbe sorprendere che Makor Rishon, il giornale più identificato con la destra dei coloni, si sia espresso a favore di un blocco totale della riforma giudiziaria. “Con il consenso o senza il consenso, con la parola o con il silenzio, la riforma deve essere abbandonata”, ha scritto Hagai Segal, redattore del giornale e fino a poco tempo fa caporedattore. “Dobbiamo abbandonarla immediatamente e annunciare alla nazione: stiamo fermando tutto”.
Le parole di Segal sono state riprese da altri giornalisti di Makor Rishon. Suo figlio, Amit Segal, uno dei giornalisti più influenti del Paese, è arrivato persino a scrivere che Netanyahu è stato “trascinato” nella riforma dal Ministro della Giustizia Levin. Nel frattempo, in seguito all’approvazione il mese scorso del disegno di legge che abolisce la clausola di ragionevolezza, la destra dei coloni ha lanciato una campagna di love bombing [bombardamento amoroso, tentativo di influenzare le persone con dimostrazioni di attenzione e affetto, possibile parte di un ciclo di abusi, ndt.] per cercare di riunire israeliani di fazioni politiche opposte in un dialogo.
Nel complesso è chiaro che la riforma giudiziaria è al centro di un fallimento nelle pubbliche relazioni anche all’interno dell’estrema destra israeliana.
L’elite isreliana nel 2023
Per essere chiari, la destra dei coloni non ha riserve sulla riforma stessa. Come ha scritto Hagai Segal, se combattere la “tirannia dell’Alta Corte” è una necessità, è più importante “l’armonia domestica”, in modo che la nazione possa dedicarsi a compiti altrettanto importanti come “la sorveglianza dell’Area C in Giudea e Samaria [la Cisgiordania] e mantenere la meshilut [gestione] all’interno della Linea Verde”. In altre parole, andare avanti con la riforma può effettivamente interferire con la continuazione dell’occupazione.
Questo è un punto chiave. Per il movimento dei coloni il trauma del disimpegno da Gaza nel 2005 è stato più grave della rimozione di 9.000 coloni e lo smantellamento delle loro colonie; la ferita che non si è mai rimarginata, ai loro occhi, è l’idea che il movimento delle colonie sia stato lasciato solo nella lotta per il “Grande Israele”. La società in generale, compresi i tradizionali elettori di destra del Likud, era sembrata abbastanza disinteressata al progetto.
Infatti la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana era favorevole al disimpegno, come fu manifesto nelle elezioni del 2006: i partiti di destra contrari al ritiro da Gaza registrarono un minimo storico di 32 seggi (di cui 12 per il partito Yisrael Beiteinu di Avigdor Liberman, i cui elettori non erano troppo coinvolti nella lotta). Oggi, in confronto, il Likud e il Partito Religioso Sionista hanno un totale di 46 seggi alla Knesset.
La lezione per il movimento nazional-religioso fu che per mantenere la sua iniziativa nei territori occupati avrebbe dovuto lasciare la Cisgiordania e “stabilirsi nei cuori” della società ebraica. Questo è stato il progetto principale negli ultimi 15 anni: normalizzare gli insediamenti e rendere invisibili la Linea Verde e l’occupazione.
Questa mossa si è manifestata con una sempre maggiore presenza di ufficiali nazional-religiosi nell’esercito, una presenza molto ampia nella funzione pubblica a tutti i livelli (l’attuale commissario della funzione pubblica e il supervisore dei conti, l’ex procuratore generale e l’ex commissario di polizia provengono tutti dal settore nazional-religioso, e questa è solo la punta dell’iceberg), un ingresso massiccio nel panorama dei media e la creazione di una rete di think tank di destra, il più noto dei quali è il Kohelet Forum, un artefice della riforma.
Difatto se c’è un gruppo omogeneo che può valere come élite israeliana nel 2023 sono i coloni e i nazional-religiosi. Sette dei 33 ministri del governo provengono da questo settore, più due ministri non religiosi che vivono in Cisgiordania. La loro egemonia è evidente anche nel discorso pubblico: oggi è impossibile trovare parole come “occupazione”, “Cisgiordania” o persino “hitnahlut” [comune termine ebraico per le colonie nei territori occupati] nei media più popolari in Israele.
Ma è proprio la riforma giudiziaria – che i coloni hanno concepito per le loro urgenze nazionaliste-religiose e che avrebbe dovuto portarli all’apice del potere – che minaccia di distruggere ciò che erano riusciti a ottenere dal disimpegno di Gaza.
Ciò che è iniziato a gennaio con le educate manifestazioni della classe medio-alta israeliana si è trasformato in una ribellione non solo contro la riforma e l’attuale governo ma contro l’intero regime di destra e contro il nazionalismo teo-etnocratico che ne è alla base.
Di fronte a questa ribellione il movimento dei coloni si trova in una situazione particolarmente vulnerabile. I partiti ultra ortodossi (Haredi), che sono stati partner a pieno titolo nella riforma, possono ancora chiedere di correggere la rotta e sognare di partecipare ad un potenziale futuro governo guidato da Benny Gantz. Anche il Likud può fantasticare di un governo di unità nazionale, in particolare se Netanyahu finirà per firmare un patteggiamento sui suoi casi di corruzione. I nazional-religiosi sono entrati così a fondo nella destra fascista che se cade l’attuale governo, cadranno anche loro.
Rompere i tabù
È difficile per i nazional-religiosi legarsi al discorso anti-élite che sentiamo arrivare da certe correnti del Likud per screditare i manifestanti. Se i piloti e i lavoratori tecnologici sono già etichettati come “privilegiati ashkenaziti [ebrei di provenienza europea, ndt.]”, come saranno etichettati i sionisti religiosi la cui leadership è chiaramente ashkenazita, che in realtà godono di privilegi che non ha nessun altro gruppo nella società israeliana e che sono stati parte integrante del governo sin dalla fondazione dello Stato?
Ma, anche più importante, i coloni hanno inconsapevolmente creato un collegamento diretto tra la sfacciata violenza contro i palestinesi in Cisgiordania e il colpo di stato giudiziario. Il pogrom di Huwara, seguito dall’appello di Smotrich a spazzare via la città, è stato uno spartiacque nel modo in cui il movimento di protesta si è rapportato all’estrema destra. Slogan come “Dov’eri a Huwara?” diretti agli agenti di polizia sono diventati parte del repertorio delle proteste, anche tra coloro che in precedenza non avevano mai pensato molto all’occupazione.
I pogrom che sono seguiti hanno ulteriormente rafforzato questo legame. Oggi è difficile trovare un solo oratore che salga sul palco delle proteste a Tel Aviv e non faccia un collegamento tra la riforma giudiziaria, i pogrom in Cisgiordania e la supremazia ebraica – un collegamento che fino a poco tempo fa era tracciato esclusivamente dalla sinistra radicale. Il velo con cui il sionismo religioso ha cercato di nascondere la realtà dell’occupazione e dell’oppressione dei palestinesi è stato strappato.
Mentre le proteste continuano a sfidare il dominio della destra e i politici di estrema destra iniziano a sostenere apertamente la violenza dei coloni, la destra stessa è diventata oggetto della rabbia dei manifestanti. L’uccisione all’inizio di questo mese da parte dei coloni di Qosai Jammal Mi’tan, un palestinese del villaggio di Burqa, ha portato questa connessione al culmine. “Falangi di ebrei fascisti intrisi di un falso senso di superiorità compiono pogrom nei villaggi arabi”, ha detto Shikma Bressler, leader de facto del movimento di protesta, sul palco di Tel Aviv. “Milizie assassine al servizio del governo che ci sta portando alla distruzione”.
Brothers in Arms, un’organizzazione di riservisti dell’esercito israeliano contrari alla riforma giudiziaria, di cui alcuni membri hanno attaccato il mese scorso gli attivisti del blocco anti-occupazione, ha definito i pogromisti a Burqa “braccio militare di Otzma Yehudit [partito politico di estrema destra, kahanista e anti-arabo, ndt.] – un corpo che dovrebbe essere dichiarato organizzazione terrorista.” Il generale di brigata Ilan Paz, ex capo dell’Amministrazione Civile, l’organo militare che sovrintende alla vita quotidiana in Cisgiordania, si è pubblicamente chiesto quando verrà il giorno in cui invocherà il rifiuto di massa a prestare servizio nei territori occupati.
E sebbene Hagai Segal abbia scritto il suo articolo prima dell’uccisione a Burqa, lui e altri nel campo nazional-religioso si rendono conto che il movimento di protesta non solo è molto più forte di quanto si rendessero conto all’inizio, ma che è disposto a infrangere tabù che nessuno immaginava si potessero infrangere, come l’obiezione di coscienza. Ai loro occhi, il mantenimento della riforma giudiziaria significa la continuazione delle proteste. E la continuazione delle proteste potrebbe erodere ulteriormente la volontà di molti nella società israeliana di continuare a finanziare il progetto delle colonie e rischiare la vita per difenderlo. Pertanto, è meglio rinviare le riforme fino a data da destinarsi.
Naturalmente i coloni sono tutt’altro che deboli. Smotrich sta rafforzando il suo controllo in Cisgiordania, la violenza dei coloni sta espellendo le comunità palestinesi e la probabilità che gli assassini di Mi’tan vengano processati è molto bassa. E nemmeno significa che vedremo un consenso, da Gantz a Bressler, per smantellare le colonie o un riconoscimento che l’obiettivo finale della riforma è preservare l’occupazione e l’apartheid – che devono essere entrambi smantellati per stabilire una vera democrazia tra il fiume (Giordano) e il mare (Mediterraneo). Ma è possibile a questo punto affermare che il movimento dei coloni non può più “stabilirsi nei cuori” della società israeliana.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato in ebraico su Local Call. Meron Rapoport è redattore di Local Call.
(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)