Cosa rivela l’uscita di Gantz sulla fallita strategia israeliana a Gaza

I tre criminali, Netanyahu, Gallant e Gantz a una conferenza stampa nel dicembre 2023. Foto: Noam Revkin Fenton/Flash90
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 Meron Rapoport

11 giugno 2024 – +972 magazine

Il 7 ottobre è fallita la pluridecennale ‘politica di separazione’ israeliana nei confronti di Gaza. Gantz e Gallant lo sanno, ma Netanyahu e l’estrema destra non vogliono ancora ammetterlo.

A prima vista è difficile capire la spaccatura nel governo israeliano sul “giorno dopo” a Gaza che ha portato domenica Benny Gantz ad abbandonare la coalizione. Annunciando la sua decisione In una conferenza stampa Gantz ha accusato il primo ministro Benjamin Netanyahu di “impedire… una vera vittoria” non presentando un piano attuabile per la governance della Striscia dopo la guerra.

Gantz, che è entrato a far parte del governo e del gabinetto di guerra dopo il 7 ottobre in qualità di ministro senza portafoglio, per mesi ha esortato Netanyahu affinché esponesse il suo piano per il “giorno dopo”. Il primo ministro, che ha un interesse personale e politico nel prolungare la guerra, fino ad ora si è rifiutato di produrne uno, anzi, ha solo insistito ripetutamente di respingere sia la continua esistenza di un “Hamastan” che la sua sostituzione con un “Fatahstan” gestito dall’Autorità Palestinese (ANP).

Comunque neppure Gantz ha un piano attuabile. La sua proposta di rimpiazzare Hamas con un “sistema civile di governance internazionale” che include alcuni componenti palestinesi, pur mantenendo nel complesso il controllo israeliano sulla sicurezza, è così inverosimile che il suo significato pratico è di continuare la guerra per sempre. In altre parole esattamente quello che vogliono Netanyahu e i suoi alleati di estrema destra.

Lo stesso si può dire del ministro della DIfesa Yoav Gallant, che era il più stretto alleato di Gantz nel consiglio di guerra. A quel che si dice lo scorso mese Gallant se ne sarebbe andato da un incontro del gabinetto di sicurezza quando altri ministri l’hanno rimproverato per aver preteso che Netanyahu escludesse un prolungato controllo israeliano civile o militare su Gaza. Ma la proposta alternativa del ministro della Difesa è essenzialmente la stessa di Gantz: insediare un governo gestito da “entità palestinesi”, ma non Hamas, con il sostegno internazionale che nessun interlocutore, palestinese, arabo, o internazionale accetterebbe. 

È vero che Gantz e Gallant hanno anche chiesto che Netanyahu dia la priorità a un accordo con Hamas per liberare gli ostaggi, mentre il primo ministro sta temporeggiando. Ma a un’analisi attenta anche questo apparente disaccordo scompare qualsiasi accordo comporterebbe una significativa, o addirittura totale, ritirata israeliana da Gaza e un cessate il fuoco di mesi, se non permanente. Tale scenario darebbe come risultato una di due possibilità: un ritorno al governo di Hamas o il reinsediamento dell’ANP, entrambe inaccettabili per Gantz e Gallant da un lato e da Netanyahu e dai suoi alleati di estrema destra dall’altro.

Allora perché la destra israeliana vede come una minaccia esistenziale le proposte fondamentalmente incoerenti di Gantz e Gallant? La risposta va più in profondità rispetto al disaccordo sulla questione del “giorno dopo” a Gaza. Quello che Gantz e Gallant stanno implicitamente riconoscendo, e Netanyahu e i suoi alleati si rifiutano di ammettere, è che la pluridecennale “politica di separazione” israeliana è crollata in seguito agli attacchi del 7 ottobre. Non più in grado di mantenere l’illusione che la Striscia di Gaza sia separata dalla Cisgiordania e perciò da qualsiasi futuro accordo politico palestinese, i leader israeliani si trovano in un vicolo cieco.

Dalla separazione all’annessione

La politica israeliana di separazione risale agli inizi degli anni ’90 quando, sullo sfondo della prima Intifada e della guerra del Golfo, il governo cominciò a imporre ai palestinesi un regime di permessi che limitavano gli spostamenti tra Cisgiordania e Gaza. Tali restrizioni si intensificarono durante la Seconda Intifada e culminarono sulla scia del “disimpegno” israeliano da Gaza nel 2005 e con la successiva salita al potere di Hamas.

La maggioranza degli israeliani pensò che Israele avesse lasciato Gaza e perciò non avesse più nessuna responsabilità per quello che succedeva nella Striscia. Gran parte della comunità internazionale respinse questa posizione e continuò a considerare Israele una potenza occupante a Gaza, ma il governo israeliano si sottrasse sempre alle proprie responsabilità nei confronti degli abitanti dell’enclave. Al massimo il governo era disposto a concedere ai palestinesi permessi di viaggio per entrare in Cisgiordania o in Israele per speciali motivi umanitari.

Quando Netanyahu ridivenne primo ministro nel 2009 lavorò per rafforzare la politica di separazione. Ampliò la spaccatura tra Gaza e la Cisgiordania convogliando i fondi verso il governo di Hamas nella Striscia, basandosi sulla convinzione che dividere i palestinesi geograficamente e politicamente avrebbe limitato la possibilità di uno Stato palestinese indipendente. 

A sua volta ciò ha spianato la strada a Israele per annettere parte o persino tutta la Cisgiordania. Quando nel 2021 chiesero a Yoram Ettinger, “esperto” demografo israeliano di destra, come avrebbe gestito il fatto che fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo c’è circa lo stesso numero di ebrei e palestinesi, ha spiegato che “Gaza non fa parte del gioco e non è rilevante … Le zone contese sono la Giudea e la Samaria.” [termine usato dagli israeliani per indicare la Cisgiordania occupata, ndt.].

David Friedman, l’ambasciatore USA pro annessione nominato da Donald Trump, era d’accordo sul fatto che, dopo il ritiro da Gaza, restava rilevante solo la questione della Cisgiordania. Nel 2016 disse: “L’evacuazione [degli israeliani] da Gaza ha avuto un effetto benefico: ha rimosso 2 milioni di arabi dall’equazione demografica.” Togliendo Gaza dal discorso, spiegò l’ex ambasciatore, Israele potrebbe mantenere una maggioranza ebraica anche se si annettesse la Cisgiordania e si concedesse la cittadinanza ai suoi abitanti palestinesi.

Un vuoto di potere strategico

Una delle ragioni dichiarate da Hamas per l’attacco del 7 ottobre è quella di mandare in frantumi l’illusione che Gaza sia un’entità separata e di riportare sul palcoscenico della storia la causa della Striscia e dell’intera Palestina. In questo indubbiamente ha avuto successo.

Tuttavia anche dopo il 7 ottobre Israele ha continuato in buona misura a ignorare il legame fra Gaza e la Cisgiordania e la sua centralità nella lotta palestinese nel suo complesso. Israele ha sistematicamente rifiutato di elaborare un piano coerente per il “giorno dopo” perché farlo richiederebbe inevitabilmente affrontare lo status della Striscia entro il più ampio contesto israelo-palestinese. Qualsiasi discussione del genere mina alla radice la politica di separazione israeliana attentamente coltivata.

Oltre alla sua totale brutalità, il presente attacco israeliano a Gaza si differenzia in modo significativo dalle guerre precedenti. Mai prima Israele aveva permesso che un territorio sotto il suo controllo militare rimanesse sostanzialmente senza governo. Quando nel 1967 l’esercito israeliano occupò per la prima volta la Cisgiordania e Gaza stabilì immediatamente un governo militare che si assunse la responsabilità dell’amministrazione civile delle vite degli abitanti occupati. Quando nel 1982 occupò il Libano non smantellò il governo libanese esistente; nel 1985 dopo aver stabilito una “zona di sicurezza” Israele passò la responsabilità per gli affari civili a una milizia locale.

Tutto ciò è in violento contrasto con l’attuale operazione. Nonostante il fatto che controlli effettivamente larghe parti di Gaza, Israele tratta i suoi 2.3 milioni di abitanti come se vivessero in un vuoto. 

Per ovvie ragioni Israele considera illegittimo il governo di Hamas che ha governato la Striscia per 16 anni, ma non vede come un’alternativa adatta l’ANP, che amministra parti della Cisgiordania. Tale scenario minerebbe totalmente la politica di separazione israeliana: la stessa entità palestinese governerebbe entrambi i territori occupati e Israele dovrebbe fronteggiare una maggiore pressione per negoziare la creazione di uno Stato palestinese. 

Quindi fintanto che esiste il vuoto di potere a Gaza la destra può ottenere ciò che vuole: la guerra può continuare, Netanyahu può prolungare il suo periodo in carica e non ci può essere una vera possibilità di iniziare i negoziati di pace che adesso persino gli americani sembrano ansiosi di riprendere. Anche la destra messianica e nazionalista vuole mantenere questo limbo perché apre la porta alla possibilità della cosiddetta “migrazione volontaria” dei palestinesi da Gaza, il desiderio di Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, o alla “distruzione totale” dei centri popolati di Gaza, che è l’obiettivo del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich. Entrambi credono che le colonie israeliane con i tetti rossi [per evitare di essere bombardati dagli israeliani, ndt.] si trovino alla fine di questo periodo di limbo.

Due visioni per Gaza

Tuttavia l’esercito sembra stanco di questo vuoto. Esso gli prospetta solo infiniti combattimenti senza raggiungere un obiettivo, il burn-out fra i soldati e i riservisti e uno scontro crescente con gli americani, con cui l’establishment della difesa israeliana ha una relazione stretta ed esclusiva. L’invasione di Rafah ha solo aumentato il malcontento dell’esercito

L’occupazione del valico di Rafah con l’Egitto da parte di Israele ha ulteriormente compromesso l’idea che non abbia responsabilità per quello che succede a Gaza. Gallant ha correttamente riconosciuto che il controllo del valico di Rafah e del Corridoio Filadelfia ha portato Israele più vicino alla creazione di un governo militare nella Striscia: senza volerlo, e sicuramente senza ammetterlo, Israele sembra sul punto di governare Gaza come governa la Cisgiordania.

Gantz e Gallant hanno reagito a questa situazione in modi simili. Entrambi sono in stretto contatto con gli Stati Uniti e sono anche più esposti alle pressioni da parte delle famiglie degli ostaggi, il cui sostegno continua a crescere nell’opinione pubblica israeliana. Entrambi comprendono molto bene che i continui rifiuti di Netanyahu, Ben Gvir e Smotrich a discutere il “giorno dopo” impedisce qualsiasi possibilità di raggiungere un accordo per il rilascio degli ostaggi e li condanna a una morte lenta e certa nei tunnel di Hamas.

Le proposte di Gallant e Gantz per il governo palestinese non sono serie e non possono essere accettate da nessuna autorevole entità palestinese, araba o internazionale. Ma sono sufficienti a sfidare le preferenze di Netanyahu, Smotrich e Ben Gvir per un limbo eterno, per provocare la loro scellerata rabbia e minare la stabilità del governo.

Le dichiarazioni di Gantz e Gallant esprimono anche un’ammissione inconscia che attualmente Israele si trova di fronte solo due possibilità concrete. La prima è un accordo che riconosca Gaza come parte integrante di qualsiasi entità politica palestinese, il che comporterebbe il ritorno dell’ANP e l’insediamento di un governo palestinese unitario. L’alternativa è una guerra di attrito che la destra messianica spera finirà con l’espulsione o l’annientamento de palestinesi, ma che più probabilmente finirà come la prima guerra del Libano: il ritiro di Israele sottoposto a una forte pressione militare e il radicamento di una abile formazione di guerriglieri sul confine israeliano.

Meron Rapoport è un editorialista di Local Call. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)