C’è già una guerra regionale. Solo un cessate il fuoco a Gaza può farla terminare

Un razzo spedito da Gaza colpisce Sderot il 10 maggio 2023. Foto: Yonatan Sindel/Flash90)
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Amjad Iraqi

6 agosto 2024 – +972 Magazine

Finché le principali vittime erano i palestinesi gli alleati di Israele hanno assecondato la sua arroganza militare. Adesso hanno paura dei frutti amari del loro errore.

Gli assassinii uno subito dopo l’altro del comandante di Hezbollah Fuad Shukr a Beirut e del capo politico di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran sono state azioni o di follia strategica o di deliberata piromania. Mentre Israele ha rivendicato la responsabilità per il primo ed è rimasto molto vago circa il secondo, ci sono pochi dubbi che li abbia organizzati entrambi – ed anche i suoi alleati ritengono che questa volta gli israeliani abbiano esagerato.

I politici israeliani si sono affrettati a trovare un pretesto per un attacco di alto livello contro Hezbollah: un lancio di razzi dal Libano che ha ucciso 12 bambini e ragazzi drusi siriani sulle alture del Golan occupate, riguardo a cui Hezbollah ha negato il proprio coinvolgimento – nonostante gli abitanti del luogo protestino contro i loro appelli alla vendetta. Shukr e Haniyeh erano certamente figure chiave delle loro rispettive organizzazioni, ma Israele sa molto bene che entrambe dispongono di meccanismi interni e piani di emergenza per rimpiazzarli; dopotutto non sono i primi assassinii che i due movimenti di resistenza hanno subito.

Essenzialmente, come hanno dichiarato Hassan Nasrallah di Hezbollah e l’ayatollah iraniano Ali Khamenei, l’uccisione di due importanti personaggi in capitali straniere, eseguiti nello spazio di poche ore, è stato un inequivocabile messaggio che ha infranto le cosiddette “linee rosse” stabilite tra le parti in conflitto negli scorsi 10 mesi. Adesso il mondo trattiene il fiato per una rappresaglia contro un’inutile affermazione di potere, che ci avvicina sempre più ad una conflagrazione come non ne abbiamo viste da decenni.

Gli effetti esplosivi dell’arroganza militare di Israele sono apparsi chiari fin dai primi giorni dell’ “Operazione Spade di Ferro”, la feroce campagna scatenata contro la Striscia di Gaza dopo il mortale attacco di Hamas del 7 ottobre. Ma la politica internazionale ha sempre dato più peso all’uccisione di leader molto significativi che di civili.

Certo, nonostante il 7 ottobre abbia gettato l’intero Medio Oriente in un vortice di violenza, ci è stato ripetutamente detto che la soglia di una “guerra regionale” non è ancora stata oltrepassata. Gli attori del conflitto, ripetono gli esperti, stanno ancora giocando una gara rischiosa ma calibrata per ristabilire la reciproca “deterrenza”, consentendo determinati livelli di violenza che possono ancora essere interpretati come prevenzione di una devastazione a tutto campo.

Tuttavia sotto molti aspetti questo è uno stratagemma verbale per minimizzare l’atroce verità sul campo: siamo già da mesi nella morsa di quella guerra regionale. Ne sono la prova i corpi e le macerie che si accumulano a Gaza e nel sud del Libano e l’attivazione dell’alleanza guidata dall’Occidente e dell’Asse della Resistenza su molteplici fronti – dalle navi da guerra USA nel Mediterraneo alle milizie Houthi nel Mar Rosso, dagli attacchi aerei israeliani in Libano ad un attacco missilistico dall’Iran.

Questo scontro può diventare infinitamente peggiore. Eppure il vero motivo per cui gli attori internazionali sono entrati in azione tardivamente la scorsa settimana è lo stesso motivo per cui la guerra viene spinta nella sua fase ancor più pericolosa: che determinate vite, e determinati interessi, contano più di altri.

Arroganza e ambizioni

Per i governi occidentali il principale pericolo costituito dagli assassinii di Shukr e Haniyeh non è l’indicibile numero di arabi o iraniani che potrebbero venire uccisi in un’escalation di ostilità. Anzi, gli ultimi 10 mesi hanno dimostrato che finché le principali vittime erano i palestinesi, una guerra prolungata era un tollerabile, seppur spiacevole, dato di fatto. Di conseguenza le capitali occidentali, in primis Washington, hanno evitato di utilizzare tutti i mezzi per frenare il conflitto, dando invece tempo ad Israele di tentare di portare avanti i suoi dichiarati obbiettivi a Gaza e in Libano – anche se era chiaro che gli israeliani non ci sarebbero riusciti.

Ma adesso i governi occidentali sono nel panico. Non solo temono ciò che un’intensificazione della guerra potrebbe comportare per l’ordine mondiale, compreso fomentare il caos nella sicurezza e l’interruzione degli scambi economici. Vi è anche la più che reale prospettiva che una simile guerra provochi un grande numero di morti israeliani- e con esso l’indebolimento senza precedenti dello Stato israeliano.

Questo processo di indebolimento è iniziato probabilmente all’inizio del 2023, durante il conflitto interno al Paese riguardo alla riforma giudiziaria dell’estrema destra, ma è stato rapidamente accelerato dal 7 ottobre e dall’operazione contro Gaza. L’entità del danno del logoramento dell’esercito e della perdita di prestigio mondiale di Israele deve ancora farsi sentire, ma un pesante attacco da parte di Hezbollah o dell’Iran peggiorerà probabilmente questo declino.

Anche se alcuni in Israele ammettono che l’esercito può aver esagerato, l’ego nazionale li obbligherà a rispondere nuovamente; il Ministro della Difesa Yoav Gallant sta già orientando l’esercito a prepararsi ad un “veloce passaggio all’offensiva”. Il pervicace desiderio di regolare i conti e rivendicare una qualche vittoria potrebbe sconfiggere ogni ragione per deporre le armi.

Ci si poteva aspettare che i leader israeliani riconoscessero questa spirale verso il peggio, con l’economia del Paese in flessione, l’esercito sempre più logorato e le popolazioni del sud e del nord sfollate. Ma questi leader sono troppo accecati da ambizioni ideologiche, arroganza nazionalista e timori per la propria sopravvivenza politica per prendere in considerazione strade che non siano quelle del militarismo e della tracotanza.

Non si tratta solo di Benjamin Netanyahu, il cui stesso gabinetto di sicurezza ammette che il primo ministro sta direttamente sabotando un accordo sugli ostaggi con Hamas. Da Gallant al capo di stato maggiore dell’esercito Herzi Halevi, molti dei pezzi grossi della politica e dell’esercito hanno un interesse personale in qualche forma di conflitto prolungato. Tutti erano in carica nel giorno in cui Israele ha subito il suo peggiore fallimento da decenni e tutti stanno lottando per recuperare la propria reputazione, se non la propria carriera: pensano che un’emergenza senza fine possa favorire il prolungamento dei loro giorni al potere.

Intanto i ministri di estrema destra del governo, guidati dal Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e dal Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir, approfittano della crisi per perseguire i propri obbiettivi messianici. I loro elettori sul terreno, soprattutto i coloni in Cisgiordania, stanno accompagnando i progressi legislativi per l’annessione formale con pogrom appoggiati dall’esercito contro le comunità palestinesi e rafforzando la loro visione di Grande Israele promuovendo piani per insediarsi anche a Gaza.

Più lungimiranza della Casa Bianca

È proprio a questi dirigenti che il presidente Joe Biden e altri leader occidentali hanno garantito una quasi totale impunità, nonostante tutti i segnali dei loro secondi fini, dei loro patenti crimini di guerra e persino del crescente risentimento della stessa opinione pubblica israeliana. Per 10 mesi i più potenti governi del mondo sono stati muti e impotenti, facendo finta di avere scarsa influenza su uno Stato che preme per ottenere più armi, finanziamenti e appoggio diplomatico per il suo violento attacco. E Biden, anche se pare si stia rendendo conto di quanto venga “preso in giro” da Netanyahu, continua a mantenere aperti i rubinetti dell’America, assicurando che le redini del potere rimangano nelle mani dei pazzi e dei piromani.

Ora Washington – e per la verità i Paesi arabi firmatari degli Accordi di Abramo – stanno raccogliendo i frutti amari di uno dei loro più gravi errori: coltivare l’idea che ignorare i palestinesi avrebbe aperto la strada alla pace nella regione. L’attacco di Hamas del 7 ottobre ha infranto quella fuorviante convinzione, ma l’amministrazione Biden non ha imparato la lezione.

Infatti gli Stati Uniti hanno preferito lanciare attacchi aerei sullo Yemen e l’Iraq, minacciare le più importanti corti internazionali e assecondare Netanyahu a Washington con standing ovations, invece di costringere Israele ad un cessate il fuoco a Gaza. Che fin dai primi giorni milioni di manifestanti in tutto il mondo siano scesi in piazza nelle città e nei campus per chiedere uno stop alla guerra, e l’amministrazione Biden non lo abbia fatto, dimostra quanta più lungimiranza abbiano i comuni cittadini rispetto ai decisori seduti alla Casa Bianca.

Ma la catastrofe non è inevitabile. Nel vuoto diplomatico lasciato dagli Stati Uniti negli ultimi mesi altri si sono imposti per cercare di contenere le conseguenze. Il Qatar sta ancora mediando i negoziati tra Hamas e Israele, nonostante quest’ultimo sistematicamente disprezzi e comprometta gli sforzi del mediatore ed abbia ora assassinato uno dei capi negoziatori della controparte.

La Cina, che tradizionalmente ha evitato un forte coinvolgimento nel conflitto, ha agevolato gli ultimi tentativi di riconciliazione palestinese, quando 14 fazioni, comprese Fatah e Hamas, hanno firmato una dichiarazione di unità lo scorso mese a Pechino. Il nuovo governo inglese guidato dai laburisti ha revocato i tagli ai finanziamenti all’UNRWA fatti dal governo precedente, ha annullato le obiezioni alla stesura da parte della Corte Penale Internazionale di mandati di arresto e pare stia per bloccare la vendita di determinate armi a Israele.

Cosa importante, la Corte Internazionale di Giustizia, che ha riconosciuto la plausibilità di un genocidio perpetrato a Gaza, ha inequivocabilmente giudicato illegale l’occupazione di Israele e chiesto azioni decise per fermarla. E il Procuratore capo della CPI Karim Khan sta aspettando il benestare per ordinare a Netanyahu e Gallant di andare a processo all’Aia, insieme al capo di Hamas a Gaza Yahya Sinwar (che, se sono vere le notizie dell’uccisione del comandante Mohammed Deif, adesso è l’unico sospettato di Hamas ancora in vita.)

Tutte queste sono misure minime se paragonate alla pesante influenza di Washington o alle più gravi pressioni economiche e politiche che altri governi ancora esercitano. Ma sono indici di dove stia alla fine andando la politica internazionale. Gli Stati Uniti non hanno bisogno di trovarsi spiacevolmente all’inseguimento di questi cambiamenti, ma andare avanti significa accettare la verità, cioè che il loro più prezioso alleato nella regione – e la potenza USA stessa – ha prodotto più devastazione che pace.

Esercitare un potere smisurato

Da parte loro i palestinesi sono numericamente inferiori, hanno minori armamenti e sono surclassati dalle forze regionali e globali al di là del loro controllo e subiscono una campagna genocidaria più devastante della Nakba del 1948. I campi di morte di Israele hanno distrutto ogni famiglia palestinese a Gaza, trasformato gran parte della Striscia in distese di macerie e condannato 2 milioni di persone assediate, per la metà bambini, ad una vita di traumi fisici e psicosociali.

Hamas sopravvive grazie alla sua resistenza armata e ai suoi organi politici, ma dopo i massacri del 7 ottobre ha subito pesanti colpi militari, perso molta legittimazione internazionale e sta arrabattandosi per il controllo e l’appoggio nella stessa Gaza. L’Autorità Nazionale Palestinese guidata da Fatah ha dimostrato ancora una volta la sua totale incapacità di aiutare il suo popolo, inchiodata al suo ruolo di forza di polizia dell’occupazione, mentre sta velocemente scivolando verso la bancarotta politica e finanziaria.

Ma i palestinesi hanno anche dimostrato che dispongono di una smisurata forza di fronte a questi enormi ostacoli e devono esercitarla di conseguenza. Se la priorità assoluta è assicurare la sopravvivenza dei palestinesi a Gaza dai missili, dalla carestia e dalle malattie, è vitale anche affermare la propria agenda politica in un momento in cui attori esterni – dall’esercito israeliano agli Stati arabi e occidentali – stanno stilando piani per decidere il loro destino.

In questo senso la dichiarazione di unità di Pechino è un’iniziativa cruciale, seppure parziale, per mobilitarsi. Nonostante il presidente Mahmoud Abbas e i suoi fedeli stiano probabilmente cercando di ostacolare gli sforzi di riconciliazione, molti membri di Fatah e Hamas riconoscono la necessità impellente di cooperare per ripristinare la propria legittimità e far sì che i palestinesi siano titolari dei propri interessi. La società civile palestinese dovrà esercitare pressioni sulle élite perché trasformino le loro affermazioni in azioni concrete, insistendo al contempo per aprire canali di partecipazione popolare e democratica.

Dovrebbero essere incrementati gli sforzi per creare un consiglio per la ricostruzione di Gaza guidato da palestinesi e aiutato dal sostegno finanziario e tecnico dall’estero, per assicurarsi che la Striscia non diventi terreno di gioco per interferenze straniere, né dell’ovest né dell’est. Deve anche essere approntato un piano per un apparato di sicurezza nazionale che includa le forze di sicurezza di Fatah, la polizia di Hamas e altri gruppi armati per avere la capacità e credibilità di ristabilire l’ordine e la sicurezza tra la popolazione.

Le questioni dello Stato e dei negoziati di pace non sarebbero la priorità o la precondizione di questo programma nazionale: la precedenza deve andare alla sopravvivenza, alla ricostruzione e alla riorganizzazione. E gli attori internazionali devono rispettarla.

Ma tutto questo significherà poco se i palestinesi rimarranno prigionieri delle dinamiche geopolitiche che hanno ostacolato la loro causa per un secolo e condotto la regione sull’orlo della catastrofe. Per quanto le potenze occidentali possano aggirare il problema, un cessate il fuoco a Gaza rimane la chiave per la de-escalation regionale, e la liberazione della Palestina il modello per la speranza nella regione.

La Palestina forse non è il primo epicentro delle lotte regionali in Medio Oriente, ma può essere la crepa definitiva che frantuma ogni parvenza di ordine internazionale, che non è riuscito a impedire una simile guerra. Ciò che verrà dopo sarà determinato da ciò che accade a Gaza – e i palestinesi devono impadronirsi degli strumenti per realizzarlo.

Amjad Iraqi è caporedattore di +972 Magazine. È anche membro associato del Programma MENA di Chatham House, membro politico del gruppo di esperti Al-Shabaka e in precedenza è stato coordinatore della difesa presso il centro legale Adalah. Oltre che per +972, ha scritto, tra gli altri, per la London Review of Books, The New York Review of Books, The Nation e The Guardian. È cittadino palestinese di Israele e attualmente vive a Londra.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)