Facebook mi ha bloccata per aver chiamato eroe l’evaso da Gilboa Zakaria Zubeidi

Il funerale di Shadi al-Shurafa ucciso a Beita a fine luglio Foto AFP
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Orly Noy

14 Settembre 2021 – Middle East Eye

Il mio appoggio pubblico ad uno dei prigionieri evasi ha provocato clamore tra gli israeliani. Il mio crimine? L’ho chiamato eroe e ho detto che capisco perché i palestinesi facciano ricorso alla lotta violenta

Entro un’ora dal mio post su Facebook relativo a Zakaria Zubeidi, uno dei sei prigionieri palestinesi che recentemente sono evasi dal carcere di Gilboa e uno dei quattro in seguito catturati, Facebook mi ha bloccata per tre giorni per aver violato le sue “linee guida della comunità”.

Non sono stata particolarmente sorpresa. Sapevo che molti israeliani avrebbero immediatamente segnalato il post e sarebbero riusciti a farlo cancellare. Il motivo è che io insisto nel considerare Zubeidi ed i suoi compagni dei combattenti per la libertà e non dei terroristi. Ed insisto nel delineare il contesto del tragico ed eroico percorso della vita di Zubeidi.

Tale contesto è descritto limpidamente in ‘I ragazzi di Arna’, il film del 2003 di Juliano Mer-Khamis sul lavoro di sua madre, Arna Mer-Khamis, e sul suo progetto del Freedom Theatre (Teatro della Libertà) degli anni ’90 per i ragazzi del campo profughi di Jenin.

I giovani partecipanti al progetto ci vengono presentati come ragazzi sorridenti che si trasformano gradualmente in combattenti determinati, molti dei quali sono stati alla fine uccisi. Uno dei ragazzi di Arna è Zakaria Zubeidi, che ha in seguito raggiunto lo status di super ricercato dalle forze di sicurezza israeliane ed è considerato dall’opinione pubblica israeliana come il perfetto terrorista.

Nel post rimosso da Facebook ho definito Zubeidi un eroe. Non solo perché ha lottato per la libertà del suo popolo, ma anche perché ogni palestinese che sopravvive all’occupazione e insiste nel continuare a vivere è un eroe – anche se non ha mai lanciato neanche una pietra.

La famiglia di Zubeidi ha donato parte della propria casa per le prove del Freedom Theatre. Sua madre e suo fratello sono stati in seguito uccisi dall’esercito israeliano e lui infine ha preso le armi per combattere per la libertà. Noi, il pubblico israeliano, siamo quelli (così ho scritto) che dovrebbero rendere conto della trasformazione compiuta da Zubeidi, uno di quei ragazzini sorridenti del film.

Stupore e indignazione

Ovviamente ciò è estremamente improbabile. Il pubblico israeliano rifiuta drasticamente di riconoscere il contesto della lotta palestinese e si stupisce quando qualcuno osa anche solo parlarne. Questo stupore ha improntato la risposta israeliana quando è uscita la notizia dell’evasione dei sei prigionieri da Gilboa: in qualche modo ci hanno ingannati, ma come? Noi siamo così bravi e così forti – noi siamo invincibili!

Lo stupore e l’indignazione sono tipici della reazione israeliana ogni volta che i palestinesi riescono ad ottenere una vittoria contro il regime israeliano ed il suo sofisticato, potente, articolato sistema di oppressione. La straordinaria e riuscita azione palestinese provoca una meravigliata protesta da parte degli israeliani del genere: ‘non fanno un gioco corretto’.

Dal punto di vista israeliano le regole di questo gioco stabiliscono che la nostra parte è quella che conquista, schiaccia, umilia, espelle, esilia, arresta, incarcera, preme il grilletto ed uccide. Il loro ruolo (dei palestinesi, ndtr.) è di essere sconfitti, schiacciati, espulsi, incarcerati e di morire. Che cosa gli dà il diritto di violare questa equivalenza tra ebraismo e democrazia?

E’come se Golia dovesse vedere il mondo come lo vedeva Davide ed insistesse nel considerarsi una vittima, anche quando infierisce sul debole e ignora il diritto internazionale. Per esempio, imprigionare un abitante dei territori occupati al di fuori di quei territori è una violazione del diritto internazionale. L’incarcerazione di Zubeidi e dei suoi amici a Gilboa è stata essa stessa illegittima e un crimine di guerra.

Quando sei un Golia che si percepisce come un Davide, sei cieco rispetto all’eroismo di coloro che stai calpestando, quelli che impugnano una fionda contro il tuo immenso potere. Né puoi comprendere il terribile prezzo che pagano per essersi comportati così – come i ragazzi del Freedom Theatre di Jenin, la maggior parte dei quali hanno pagato con la vita.

Yusuf per esempio era un ragazzo del Freedom Theatre. Durante la seconda Intifada, dopo che una granata ha colpito un’aula della scuola, Yusuf si è trovato a portare in braccio una ragazzina che è morta dopo pochi minuti. I suoi amici dicono che quell’esperienza lo ha completamente cambiato. Ha smesso di sorridere, di ridere, è diventato apatico. Poi, pur essendo del tutto ateo, si è unito alla Jihad islamica, ha imbracciato le armi, è andato con un amico a Hadera nel centro di Israele ed ha aperto il fuoco, uccidendo quattro persone e ferendone 30. In risposta la polizia ha ucciso sia Yusuf che il suo compagno.

Non mi arrenderò mai’

Poi c’è Ashraf, nel film un dolce ragazzo e nel gruppo teatrale un attore importante. In una scena, dopo che l’esercito israeliano ha distrutto la casa della famiglia del suo vicino Alaa, Ashraf fruga tra le macerie per recuperare qualcuna delle cose del suo amico. Scatto in avanti e si sente Alaa che descrive come Ashraf in seguito sia morto combattendo contro le forze israeliane nella battaglia di Jenin nel 2002. Residenti armati hanno preso posizione nell’edificio che un tempo ospitava il teatro ed è là che è morto Ashraf.

O prendiamo Alaa, che da bambino ha visto distruggere la casa della sua famiglia. Vediamo un Alaa cresciuto, che spiega che lui non sarebbe mai stato catturato perché sarebbe “diventato libero o sepolto nella sua tomba”. Nella scena seguente vediamo il suo cadavere bruciato all’ospedale, circondato da amici e parenti in lutto, dopo che è stato colpito dalle forze armate israeliane nel novembre 2002, due settimane dopo la nascita del suo primo figlio.

E poi c’è lo stesso Zubeidi. “Non mi arrenderò mai”, dice nel film ai suoi amici. “Mai!” Ed effettivamente non lo ha mai fatto. E’stato catturato da un poliziotto armato fino ai denti alle dipendenze di un vile e codardo regime le cui incessanti e sadiche violenze sono attribuite a “necessità di sicurezza” e in cui la persecuzione di questi combattenti per la libertà è chiamata “eroismo”.

Perciò sì, per quanto incredibile possa essere per gli israeliani, un giorno la gente rinchiusa in un ghetto dove una morte lenta ha migliaia di facce tenterà di insorgere e rischierà la vita per farlo. Uno delle migliaia di prigionieri del ghetto potrebbe addirittura uccidere uno dei suoi carcerieri. E sì, il popolo i cui conquistatori lo incarcerano per anni in una prigione più materiale del ghetto potrebbe tentare di scappare ed una su decine di migliaia di persone potrebbe farcela. Sì, compresi quelli che hanno scelto la violenza.

Ricerca interiore

Perché qui c’è un’altra sorpresa: viviamo in una realtà molto violenta che, benché abbia due lati, non è affatto simmetrica. La violenza di una delle parti ha il fine di opprimere, di schiacciare, di sradicare, di stabilire la superiorità, mentre la violenza dell’altra parte è una ricerca di liberazione. Ecco come persino azioni che non dovrebbero mai avvenire diventano parte della lotta per la libertà.

Alla fine di questa settimana milioni di ebrei osserveranno il giorno più sacro dell’anno ebraico, lo Yom Kippur: un giorno di esame di coscienza e di ricerca interiore. Nella tradizione ebraica le nostre preghiere durante lo Yom Kippur ci permettono di ottenere il perdono per i peccati contro Dio, ma non per quelli che abbiamo commesso contro altri esseri umani. Solo le vittime stesse possono perdonarci per quelli.

In questo Yom Kippur dovremmo inginocchiarci di fronte ai milioni di palestinesi che abbiamo oppresso per decenni e domandare loro perdono dal profondo dei nostri cuori, mentre ci pentiamo sinceramente dei peccati che abbiamo commesso contro di loro. Come negli anni passati, tuttavia, non succederà nemmeno in questo Yom Kippur. L’esibizione di forza degli ebrei ha sostituito la loro moralità 73 anni fa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Orly Noy è una giornalista e un’attivista politica che vive a Gerusalemme.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)