Come Israele vince la guerra mediatica

John Lyons
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Rod Such

25 ottobre 2017,Electronic Intifada

Balcony Over Jerusalem: A Middle East Memoir” [“Un balcone su Gerusalemme: una memoria del Medio Oriente”], di John Lyons con Sylvie Le Clezio, HarperCollins (2017)

Di tutti i pilastri che permettono di tenere in piedi il particolare tipo di colonialismo di insediamento e di apartheid israeliani, uno dei principali rimane il ruolo dei mezzi di comunicazione occidentali nell’amplificare l’hasbara (propaganda) israeliana. Questo pilastro, tuttavia, sta iniziando ad incrinarsi.

In nessun altro luogo questo è più evidente che nelle riflessioni dell’illustre giornalista australiano John Lyons nel suo libro “Balcony Over Jerusalem” [“Un balcone su Gerusalemme”], un resoconto del soggiorno di lavoro in città suo e di sua moglie, la regista Sylvie Le Clezio, di sei anni, dal 2009 al 2015. Lyons vi si trovava come corrispondente per il Medio Oriente di “The Australian”, uno dei più importanti giornali del Paese.

C’è molto che vale la pena di notare in questo libro, ad esempio la dettagliata analisi di Lyons dei vari tentativi israeliani di “ingegneria sociale”. Ciò include il regime di permessi burocratici a vari livelli, inteso a reprimere la resistenza palestinese all’occupazione ed al continuo furto delle terre, sostenuto da zone militari chiuse e altri mezzi di confisca delle terre che rendono quasi insignificanti le stesse colonie della Cisgiordania.

Ma ciò che in ultima analisi risulta evidente in “Balcony Over Jerusalem” è l’esame che l’autore fa di come i mezzi di comunicazione dipingono Israele e di come il governo [israeliano] ed i gruppi di pressione che lo proteggono dal dover rendere conto [delle proprie azioni] tentano di intimidire i giornalisti e di distorcerne i reportage.

Una luna di miele presto finita”

Il titolo fa riferimento a un balcone dell’appartamento di Lyons e Le Clezio a Gerusalemme, che sovrastava la Gerusalemme est occupata e offriva una splendida vista sulla Città Vecchia, sulla Moschea di Omar, su quella di Al-Aqsa, sul Muro del Pianto, sul Monte degli Ulivi e sul deserto di Giudea. Lyons riconosce di aver cercato a lungo di essere inviato come corrispondente in Medio Oriente, fin da quando a metà degli anni ’90 aveva seguito la firma degli accordi di Oslo tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. I gruppi della lobby israeliana lo individuarono come una stella nascente dei media australiani e venne invitato a fare un viaggio in Israele, proprio come a quell’epoca il Sud Africa dell’apartheid corteggiò i corrispondenti occidentali.

Egli accettò uno di tali “viaggi di studio”, ma se ne andò con la sensazione di non aver visto entrambe le parti. Benché ammirasse molto Israele, era determinato a fare il suo lavoro come giornalista e a fornire informazioni equilibrate e accurate. Lyons venne invitato a cena da dirigenti della lobby israeliana in Australia prima di lasciare la sua patria per andare a Gerusalemme. Ma, come sottolinea, “la luna di miele finì presto”.

Per cominciare, c’era quel balcone: da là non poteva fare a meno di notare la casa di una famiglia palestinese vicina, i cui tre figli ogni mattina andavano a scuola a piedi.

Un giorno l’esercito israeliano demolì la casa, lasciando solo una scala. Lyons andò a trovare la famiglia e trovò il proprietario della casa che scopava i gradini. “E’ stata una delle cose più tristi che abbia mai visto,” scrive. “Un uomo distrutto che spazza la sua scala verso il nulla.”

Uno dei primi articoli di Lyons riguardava l’occupazione da parte di coloni armati della casa dell’agente di viaggio Nasser Jaber, che se n’era andato dalla sua casa nella Città Vecchia di Gerusalemme mentre era in fase di ristrutturazione. I coloni cambiarono le serrature e contestarono il reclamo di Jaber per la casa.

Il resoconto di Lyons sull’espulsione incorse nelle ire dell’“Australia/Israel & Jewish Affairs Council (AIJAC)” [“Consiglio delle Relazioni Australia/Israele ed Ebraiche”, ndt.], che iniziò una campagna contro i suoi direttori sostenendo che si trattava di un reportage non accurato. Subito dopo vi partecipò anche l’ambasciata israeliana in Australia.

I tentativi fallirono perché l’articolo di Lyons era inattaccabile. Ma in seguito un’anonima giornalista israeliana, fingendo di essere una reporter australiana, tentò di convincere Jaber a dire di essere stato citato in modo errato nell’articolo di Lyons. La stessa giornalista israeliana tentò anche di coinvolgere il programma televisivo australiano “Media Match” per screditare il resoconto di Lyons, ma senza rivelare la sua vera identità – un altro tentativo fallito. Alla fine la giornalista venne scoperta.

La conclusione di Lyons sul perché sia avvenuta questa campagna di “giochi sporchi” è rivelatrice: “Se un corrispondente estero scrive dei “palestinesi” come un gruppo generico non ci sono problemi. Ma se un giornalista da’ un nome a un palestinese – un’identità, un’aspirazione, una professione, una vita –, come ho fatto io, ciò può scatenare l’ira dei sostenitori di Israele.”

Acque intorbidite

Questo non è l’unico modo con cui Israele semina dubbi sulle rivendicazioni dei palestinesi. Una famiglia palestinese di Gerusalemme est raccontò che qualcuno aveva tagliato un ulivo nel suo giardino e scritto “price tag” [“prezzo da pagare”, nome di un gruppo di coloni estremisti e violenti, ndt.] in ebraico, un attacco frequente nel resto della Cisgiordania, ma, secondo Lyons, meno comune a Gerusalemme, e di conseguenza degno di attenzione per i media stranieri.

Lo Shin Bet, la polizia segreta israeliana, in breve tempo arrestò un adolescente membro della famiglia e cercò di obbligarlo a confessare di aver tagliato l’albero e di averlo mascherato come un attacco di “price tag”.

Lyons cominciò a riconoscere in questo “un modello, che ho iniziato a vedere, di come Israele confonde le acque. Era molto più difficile per i mezzi di comunicazione informare che “Price Tag” si stava diffondendo tra gli estremisti ebrei dal momento che un giovane palestinese era stato interrogato per il crimine.”

Guardando indietro, Lyons si rende conto che fu il fatto di aver informato su come Israele tratta i bambini palestinesi ad aver scatenato veramente le ire dell’esercito, soprattutto in seguito alla diffusione su una televisione australiana del suo documentario “Fredda giustizia di pietra”, prodotto da Le Clezio, all’inizio del 2014.

Un ufficiale dell’esercito israeliano incontrò Lyons per fargli sapere in termini espliciti che l’esercito, che secondo quanto affermò era estremamente sensibile alla copertura mediatica straniera, non era contento del suo reportage. In seguito Lyons si accorse di avere un minor accesso a ufficiali israeliani.

Lyons non fu l’unico corrispondente straniero a subire pressioni da Israele o dai gruppi della lobby di casa sua. Le sue interviste a inviati di “The New York Times”, “The Guardian” e dell’agenzia “France-Presse”, tra gli altri, rivelarono tutti tattiche simili, come fare pressione sui direttori di un reporter e sostenere presunti errori fattuali.

Significativamente, l’ex capo-redattore del “Times” a Gerusalemme Jodi Rudoren disse a Lyons che secondo lei l’occupazione israeliana della Cisgiordania assomigliava “molto all’apartheid”.

Oltretutto, disse a Lyons, “il problema dell’apartheid è più grave per come sono trattati gli arabo-israeliani,” in riferimento ai palestinesi cittadini di Israele. Eppure i lettori del “Times” non ebbero neanche una vaga idea di questa prospettiva durante gli anni in cui Rudoren fu corrispondente.

Lyons crede che attualmente Israele stia vincendo la guerra mediatica, nonostante una immagine all’estero in continuo peggioramento. Ma pensa che, con Internet e con i telefonini di facile accesso, Israele non possa più controllare il messaggio, un’opinione che è avvalorata quotidianamente dalle reti sociali, con post di palestinesi che patiscono la crudeltà dell’occupazione.

Le occupazioni militari sembrano brutte perché lo sono,” scrive Lyons. “La reputazione di Israele sanguinerà finché continuerà il suo controllo su un altro popolo.”

Egli avverte: “Un giorno la storia farà i conti con Israele.”

Rod Such è un ex editorialista delle enciclopedie “World Book” [enciclopedia in inglese edita negli USA, ndt.] ed “Encarta” [enciclopedia multimediale edita da Microsoft, ndt.]. Vive a Portland, in Oregon, ed è attivo nella campagna “Portland Libera dall’Occupazione”.

(traduzione di Amedeo Rossi)