Amazon costringe i palestinesi a registrarsi come israeliani per la spedizione gratuita

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Middle East Monitor

14 febbraio 2020 Middle East Monitor

I clienti che inseriscono il proprio indirizzo come “Territori palestinesi” sono costretti a pagare le spese di spedizione e gestione a partire da [un ordine di] 24 dollari

L’azienda internazionale di commercio on line Amazon è stata accusata di discriminare i palestinesi in quanto offre spedizioni gratuite verso le colonie della Cisgiordania occupata ma non ai palestinesi che vivono nella stessa area.

Nei risultati pubblicati in un’indagine del Financial Times, il giornale ha scoperto che, prendendo tutti gli indirizzi corrispondenti alle colonie illegali e inserendoli nel portale di consegna di Amazon, l’azienda applica l’offerta di spedizione gratuita prevista nel proprio sito web “se il tuo indirizzo di spedizione è in Israele, gli articoli scelti sono ammessi e il tuo ordine totale soddisfa la soglia di spedizione gratuita minima di 49 dollari [45,36 euro, ndtr.]”.

Invece i clienti che inseriscono il proprio indirizzo come “Territori Palestinesi” sono costretti a pagare le spese di spedizione e gestione a partire da [un ordine di] 24 dollari [22,22 euro,ndtr.]. Il portavoce di Amazon Nick Caplin ha dichiarato al giornale che i palestinesi possono solo aggirare il problema: “Se un cliente all’interno dei territori palestinesi inserisce il proprio indirizzo e seleziona Israele come Paese, può ricevere la spedizione gratuita usufruendo della stessa promozione”.

Tutte le consegne dell’azienda devono passare attraverso Israele per raggiungere la Cisgiordania occupata e ciò determina lunghi ritardi.

L’avvocato internazionale per i diritti umani Michael Sfard, tuttavia, ha ritenuto tale motivazione non sufficiente e ha definito la politica di Amazon “una palese discriminazione tra potenziali clienti sulla base della loro nazionalità” all’interno della stessa area operativa. Anche l’organizzazione di attivisti Peace Now [O.N.G. pacifista israeliana, ndtr.] ha commentato la situazione, affermando che la politica discriminatoria di Amazon “si aggiunge al quadro generale di un gruppo di persone che godono dei privilegi di cittadinanza, al contrario di altre che vivono nello stesso territorio”.

Negli ultimi anni le colonie ebraiche nei territori palestinesi occupati della Cisgiordania e di Gerusalemme est sono notevolmente aumentate, con un numero di coloni di oltre 463.000 in Cisgiordania e altri 300.000 a Gerusalemme est alla fine del 2019.

Nonostante il fatto che le colonie siano illegali ai sensi del diritto internazionale, numerose grandi e fiorenti aziende hanno continuato a trattare con loro e ad operare nel territorio che questi hanno occupato illegalmente. Questa settimana le Nazioni Unite hanno pubblicato una lista nera di 112 aziende che continuano a operare nei territori occupati, tra cui i giganti mondiali Airbnb, Expedia, Opodo e Motorola.

Dopo la pubblicazione del documento gli Stati Uniti hanno bocciato l’iniziativa, mentre Israele ha sospeso i rapporti con il Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)