Saudamini Jain
20 marzo 2020 – +972
In Israele un ebreo indiano di 28 anni è finito in ospedale dopo essere stato aggredito da israeliani che lo hanno chiamato “corona”.
Sabato scorso Am Shalem Singson, ventottenne studente di una scuola religiosa, stava camminando verso il centro di Tiberiade con alcuni amici quando due uomini israeliani hanno arricciato il naso e li hanno chiamati “corona, corona”. Singson ha detto loro di non essere neanche cinese, ma indiano – lui e i suoi amici sono Bnei Menashe [lett. Figli di Menasseh, una delle tribù ebraiche citate nella Bibbia, ndtr.], una comunità di ebrei indiani [ma di aspetto mongoloide, ndtr.], alcune migliaia dei quali vivono in Israele. Ma gli uomini, furiosi per essere stati contestati, prima lo hanno spintonato, poi lo hanno ripetutamente colpito. Singson ha dovuto essere sottoposto ad un intervento chirurgico al torace e ai polmoni.
Singson, che è ancora ricoverato in ospedale, crede che la nuova pandemia di coronavirus sia diventata un catalizzatore perché i razzisti accentuino il proprio fanatismo. “Non vogliono vivere con noi, vogliono solo picchiare,” dice. “Approfittano (della situazione) utilizzando il coronavirus…e non solo io, molte persone lo subiscono.”
Ci sono state rilevanti informazioni di attacchi razzisti contro asiatici in tutto il mondo da parte di persone che li incolpano dell’epidemia e della diffusione del coronavirus. Il presidente USA Donald Trump, che continua a chiamarlo “cinesevirus”, è stato accusato di danneggiare gli asiatici incoraggiando l’individuazione razzista di un capro espiatorio mentre si accentuano la rabbia e il timore per la diffusione del virus.
I “Bnei Manashe” hanno dovuto affrontare il peso di questo tipo di razzismo – in prevalenza, essi pensano, perché la grande maggioranza degli israeliani non sa molto di loro. I “Bnei Menashe”, cinquemila persone in Israele, sono emigrati da due Stati del nord est indiano – Manipur e Mizoram, sui confini con il Myanmar —e credono di essere i discendenti di una “tribù perduta” di Israele di 2.700 anni fa. In base alla legge israeliana del ritorno non hanno i requisiti per emigrare, ma sono riusciti ad arrivare poco alla volta in piccoli gruppi di qualche centinaio di persone tramite “Shavei Israel”, una Ong israeliana che lavora per individuare comunità ebraiche “perdute” in tutto il mondo e portarle in Israele. Signson è immigrato con sua madre, sua nonna e suo fratello da Manipur nel 2017.
I Bnei Menashe hanno manifestato il proprio sdegno e la propria amarezza per il razzismo rivolto contro di loro, e nelle ultime settimane denunciano numerosi esempi in cui membri della comunità sono stati chiamati “coronavirus” da altri israeliani.
“È veramente triste vedere molti israeliani infettati non dal coronavirus ma dal virus del razzismo,” dice il ventiquattrenne Shlomo Thangminlien Lhungdim, amico di Singson. Pochi giorni fa, mentre viaggiava in pullman con alcuni amici “Bnei Menashe”, gli altri passeggeri lo hanno guardato in modo strano e molti si sono coperti il naso. “Persino l’autista si è messo intenzionalmente a tossire appena ci ha visti,” dice. “La gente tende a correre via da noi. Ci guardano come diversi alle stazioni degli autobus, nei supermercati…siamo discriminati ovunque. La vita è orribile. Perché? Solo perché abbiamo un aspetto diverso?”
Isaac Thangjom, un responsabile di progetto della Federazione Ebraica del New Mexico, emigrato in Israele nel 1997, dice che a Ramle o nei dintorni, dove vive, la sua famiglia non ha dovuto subire nessuno di tali episodi. Ma questi esempi sono frequenti in città più piccole come Tiberiade, Kiryat Arba in Cisgiordania e San Giovanni d’Acri, dove vive anche la maggior parte dei “Bnei Menashe”, afferma. Ha anche sentito di molti episodi di razzismo legati al coronavirus. C’è stata una donna che ha preso un pullman da Kiryat Arba per Gerusalemme ed ha detto che si è sentita a disagio perché, mentre viaggiava su un autobus urbano, la gente la teneva a distanza.”
I “Bnei Menashe” hanno sempre dovuto affrontare il razzismo in Israele. Nonostante i loro vestiti da ebrei ortodossi, sono spesso confusi con i lavoratori thailandesi e i filippini. Ma la pandemia del coronavirus ha portato i pregiudizi a un livello più alto, dice Thangjom.
Le aggressioni come quella contro Singson in Israele si riscontrano anche in India. Gli indiani del nordest sono sottoposti a discriminazioni ed aggressioni in altre parti del Paese, dove sono una minoranza razziale. Pare che molti siano stati chiamati “corona”, “coronavirus” e “cinesi”, anche in grandi città come Delhi e Mumbai. In un video diventato virale la scorsa settimana, studenti indiani del nordest hanno fatto appello ai loro connazionali indiani perché smettano di prenderli di mira.
Nella colonia israeliana di Kiryat Arba la ventenne Dimi Lhungdim, in licenza dal servizio militare, si è infuriata dopo aver visto un video di “Shevet Achim Va’achayot” (una tribù di fratelli e sorelle), la canzone ufficiale dei festeggiamenti per il Giorno dell’Indipendenza di Israele del 2019. Alla luce dell’aggressione contro Singson, per Lhungdim il messaggio di fratellanza della canzone suona vuoto.
“Pensavo: perché state cantando questa canzone e dite che siamo fratelli e sorelle?” dice Lhungdim. “Ogni volta che tornava quella frase pensavo: ‘Non sapete quello che state dicendo.’ Sostengono: ‘ questa è la nostra casa in Israele, questo è il nostro cuore.’ Quello che hanno fatto ad Am Shalem non è quello che stanno cantando nella canzone. Ero furiosa.”
Saudamini Jain è una scrittrice che abita a Nuova Delhi. Ha scritto articoli da tutta l’India, dalla Cisgiordania e da New York.
(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)