Il mio primo lockdown è stato durante la prima Intifada

Prima Intifada : una donna con una pietra fronteggia un soldato 29 febbraio 1988 ( Reuters)
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Majed Abusalama

9 maggio 2020 – Al Jazeera

Vivere un blocco totale in Europa mi ha fatto ricordare la mia infanzia a Gaza durante la rivolta palestinese.

Il 23 marzo la Germania annunciava misure su scala nazionale per prevenire un’ulteriore diffusione del coronavirus. Si consigliava alla gente di stare a casa e venivano proibiti gli assembramenti pubblici; si chiudevano ristoranti e pub. Giorni prima erano state chiuse le scuole e poi palestre, cinema, musei e altri posti pubblici. E così è cominciata la vita in lockdown.

Per molti dei miei amici tedeschi questa era la prima volta che sperimentavano tali restrizioni imposte dal governo. Il blocco a Berlino, dove ora vivo, a me ha riportato alla mente ricordi della prima Intifada.

Ero solo un bambino quando nel dicembre 1987 è cominciata la rivolta nel campo profughi di Jabalia a Gaza, il mio luogo di nascita. Quando finì avevo l’età per andare a scuola. Blocco totale, coprifuoco e una varietà di restrizioni sono tutto quello che ho vissuto per i primi sei anni della mia vita.

L’Intifada era scoppiata dopo l’uccisione di quattro palestinesi da parte di soldati israeliani a un posto di blocco del nostro campo. Quando folle di palestinesi uscirono per protestare contro le morti, i militari israeliani aprirono il fuoco e uccisero un altro palestinese.

Le uccisioni furono solo la miccia: la vera ragione erano decenni di brutale occupazione militare e apartheid che il mio popolo aveva sopportato mentre vedeva la nostra terra colonizzata da occupanti ebrei europei e americani che arrivavano dall’estero.

In tutta la Palestina storica esplose la protesta. A lacrimogeni e pallottole israeliani, i palestinesi risposero con fionde e pietre. L’esercito di occupazione israeliano e i “civili” israeliani “ uccisero 1.500 palestinesi, più di 300 dei quali erano i bambini.

Davanti a una rivolta popolare che la repressione non riusciva a domare, il governo israeliano cominciò a imporre varie modalità di blocchi per cercare di controllare la popolazione palestinese, cosa che diede inizio a una lunga campagna locale di resistenza.

I coprifuoco andavano e venivano. Gli israeliani li imponevano di volta in volta per giorni, settimane o persino mesi. Secondo la studiosa americana Wendy Pearlman, durante il primo anno dell’Intifada l’esercito di occupazione israeliano impose a varie comunità palestinesi dei coprifuoco di ventiquattro ore al giorno per più di 1600 volte.

In quei periodi non potevamo uscire. Qualche volta finivamo il cibo e mia nonna e le zie dovevano rischiare la vita per uscire e cercare di comprare delle provviste.

Il cibo era scarso perché ai contadini non era permesso di andare nei campi. Molti prodotti marcirono perché nessuno li raccoglieva.

Università e scuole chiusero, con un’intera generazione di bambini e ragazzi palestinesi che ritardarono la propria formazione. Non avevamo parchi o giardini pubblici dove giocare. Anche le spiagge erano state “chiuse” dagli israeliani.

Ma le molte restrizioni, la costante persecuzione e le continue uccisioni non riuscirono a spezzare lo spirito dei palestinesi. In tutta la Palestine storica si crearono dei comitati di resistenza popolare che coordinavano varie attività per aiutare la gente. Mio padre, Ismael, era impegnato nell’organizzazione del comitato nel nostro campo.

Le donne coltivavano prodotti in casa e sui tetti e fondarono cooperative agricole che chiamarono ‘orti della vittoria’ per creare un’economia palestinese autonoma e permettere il boicottaggio dei prodotti israeliani. I comitati dei commercianti organizzarono scioperi; quelli sanitari crearono cliniche di emergenza, quelli addetti all’istruzione organizzarono classi clandestine. Tutti contribuirono come potevano per aiutare la loro comunità e nessuno fu lasciato senza sostegno. 

Naturalmente tutto ciò fece arrabbiare gli israeliani. Ricordo chiaramente che quando avevo quattro anni i soldati israeliani fecero irruzione e cominciarono a distruggere le nostre cose. Era la punizione per le attività politiche di mio padre, un evento di cui furono ripetutamente vittime molte famiglie.

Mio padre fu anche spesso interrogato e imprigionato per settimane, talvolta mesi. Una volta, dopo un interrogatorio di un’ora, un comandante israeliano gli chiese se avesse qualcosa da dire. Mio padre rispose che voleva un permesso per andare dalle sue api. Il comandante ridendo disse: “Stai per finire in galera fra poco e pensi alle tue api?” Mio padre rispose che doveva occuparsene sennò sarebbero morte e quelle api davano da mangiare alla sua famiglia. Quella volta mio padre rimase in carcere per una settimana. Le api non sopravvissero.

Incominciammo a dipendere dal salario della mamma che faceva l’infermiera in una clinica UNRWA [Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa specificamente dei rifugiati palestinesi in Medio Oriente, ndtr.]. Dovendo andare a lavorare ogni giorno anche durante il coprifuoco aveva un permesso per attraversare i posti di blocco degli israeliani. Curava molti degli adolescenti del nostro campo che venivano picchiati o feriti dai soldati israeliani. Secondo l’ong Save the Children, nei primi due anni tra le 23.600 e 29.900 persone ebbero bisogno di aiuto medico per le ferite riportate.

Nell’estate del 1991, a mia mamma vennero le doglie. Dato che all’epoca nel campo profughi c’erano pochi telefoni, non riuscimmo a chiamare l’ambulanza e comunque non avrebbe potuto entrare durante il coprifuoco. Così fu costretta ad andare a piedi fino alla clinica UNRWA, a un chilometro di distanza. Fece tutta la strada appoggiandosi alla nonna che sventolava un fazzoletto bianco, nella speranza che i soldati israeliani non sparassero.

Non lontano da casa, i soldati puntarono le armi contro di loro e le costrinsero a fermarsi. Cominciarono a fare delle domande a mia mamma sul motivo per cui avevano infranto il coprifuoco anche se era ovvio che stava per partorire e che poteva a malapena reggersi in piedi. “Fu un momento spaventoso,” mi ha poi raccontato. “Stavo cercando di proteggere la mia pancia dalle loro armi mentre si susseguivano le dolorose contrazioni.”

Poi le lasciarono andare e quella sera la mamma diede alla luce la mia sorellina,Shahd. La mattina sfidarono nuovamente il coprifuoco e tornarono a piedi a casa. Noi eravamo tutti felici di rivedere loro e la sorellina.

La vita era estremamente difficile per noi, ma i miei genitori ricordano sempre l’Intifada come un momento di liberazione e spesso dicono: “Non abbiamo rinunciato alla resistenza. Non siamo diventati delle vittime sottomesse.” Anzi, i palestinesi diedero l’esempio di una lotta dal basso raramente vista prima di allora.

Ed eccomi qua oggi, oltre trent’anni dopo, di nuovo a vivere in un lockdown che è però molto diverso. Non ci sono proiettili ricoperti di gomma o veri, o candelotti lacrimogeni a colpire la gente che cammina in strada; non ci sono checkpoint; nessuna repressione violenta come l’avevo vissuta in Palestina.

Anch’io sono in ansia, come i miei amici tedeschi, per la situazione qui, ma quasi tutto il tempo la mia mente va a Gaza.

La mia famiglia vive ancora nel campo profughi di Jabalia, densamente popolato, dove il distanziamento fisico è impossibile. Nel nostro campo vivono più di 113.000 persone su una superficie di poco più di mezzo chilometro quadro.

A Gaza già diciassette persone sono risultate positive. Le autorità locali e le organizzazioni internazionali hanno già avvertito della possibilità di una catastrofe imminente.

Sento la preoccupazione dei miei genitori, specialmente di mia mamma che continua a lavorare per la clinica dell’UNRWA. Lei corre un grosso rischio ogni volta che va al lavoro, dove ogni giorno assiste decine di persone. Il sistema sanitario a Gaza è stato compromesso per anni dall’assedio soffocante imposto da Israele ed Egitto sulla Striscia e da varie guerre distruttive lanciate dall’esercito israeliano contro il mio popolo. La situazione è estremamente delicata e una grande epidemia di coronavirus causerebbe un disastro.

A differenza della Germania, dove il governo sta già allentando le misure e parlando di un ritorno alla “normalità” in futuro, a Gaza la mia gente si sta preparando per il peggio. La morte e le sofferenze che questa epidemia potrebbe infliggere ai palestinesi sarebbero un altro episodio della lunga lista di crimini di guerra che gli israeliani hanno commesso contro di noi e peserà notevolmente sulla coscienza della comunità internazionale che ci ha abbandonati.

In questi giorni continuo a chiedermi se il mondo ci ha dimenticati, accettando le nostre condizioni di vita disumane, o se questa volta farà qualcosa e riterrà Israele responsabile.

Le opinioni espresse in quest’articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera. 

Majed Abusalama è un pluripremiato giornalista palestinese, studioso, attivista e difensore dei diritti umani.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)