Beinart è l’ultimo tra i sionisti progressisti ad abbandonare la soluzione dei due Stati

Peter Beinart
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DI PHILIP WEISS

8 luglio 2020 – Mondoweiss

Nella giornata di ieri tutti parlavano dell’articolo di Peter Beinart [editorialista, giornalista e commentatore politico progressista statunitense, ndtr.], il quale su Jewish Currents [ Correnti Ebraiche, rivista trimestrale di politica e sito con orientamento di sinistra, ndtr.] abbandona la soluzione dei due Stati. Beinart afferma che lo sforzo di creare uno Stato palestinese è fallito ed è tempo che i sionisti progressisti sostengano l’uguaglianza tra ebrei e palestinesi. Su Twitter Beinart è andato oltre, elogiando il libro rivoluzionario di Ali Abunimah [giornalista palestinese-americano convinto sostenitore della soluzione di un unico Stato, ndtr.], One Country [Un Paese, ndtr.], (che considera la soluzione dei due Stati come apartheid), e in un editoriale sul New York Times di oggi, in cui Beinart deplora l’idea di “separazione” tra palestinesi ed ebrei.

L’obiettivo dell’uguaglianza è ora più realistico rispetto all’obiettivo della separazione. Il motivo è che cambiare lo status quo richiede una prospettiva abbastanza dura da creare un vasto movimento di opinione. Uno Stato palestinese frammentato sotto il controllo israeliano non offre questa prospettiva. L’uguaglianza è in grado di farlo. Sempre di più [vivere in] un medesimo Stato non costituisce solo la propensione dei giovani palestinesi. È anche la propensione dei giovani americani.

Beinart abbandona di proposito un’argomentazione avanzata in numerose occasioni, secondo cui uno Stato per due nazioni non funziona. Ora sostiene ciò che Yousef Munayyer affermava nel corso di un dibattito del 2015 con Beinart: non sarebbe stata una cosa semplice, ma la prospettiva avrebbe dovuto essere quella di uno Stato unico democratico.

Qualsiasi intervento critico sulla svolta di Beinart deve riconoscere il suo status e la sua sincerità. Si tratta di uno scrittore molto stimato dalla classe dirigente. È stato il braccio destro di Martin Peretz a New Republic [rivista culturale e politica di cui Martin Peretz, sostenitore di Israele, era proprietario ed editore, ndtr.], quindi doveva essere un ultra-sionista. Ha tenuto conferenze private presso l’AIPAC, la lobby israeliana di destra. Ha scritto un libro a sostegno della guerra in Iraq, e in seguito ha ripudiato la sua posizione. Il suo articolo del 2010 su The New York Review of Books [rivista bisettimanale con articoli su letteratura, cultura e attualità, ndtr.] sul fallimento della classe dirigente ebraico-americana, di cui sosteneva il crollo morale in seguito al consenso all’occupazione, è stato estremamente significativo in quanto Beinart ha introdotto nell’opinione più diffusa concetti presi da Walt e Mearsheimer [John Mearsheimer e Stephen Walt hanno pubblicato nel 2007 il libro La Lobby Israeliana e la politica estera americana, in cui sostengono che Israele condiziona la politica estera USA, ndtr.] e anche B’Tselem [ONG israeliana che sostiene i diritti dei palestinesi, ndtr.]. Lo ha ribadito in seguito con un libro, La crisi del sionismo, che si apre sul disgusto dell’autore per le violazioni israeliane dei diritti umani e procede mettendo alla gogna la presidente della DNC [Comitato Nazionale Democratico, ndtr.] Debbie Wasserman Schultz per aver capeggiato le ovazioni a Netanyahu. Beinart è diventato un eroe alle riunioni dei sionisti progressisti. Agli incontri di J Street [ONG sionista liberal americana che propugna una soluzione dei due Stati, ndtr.] i giovani indossavano magliette con la scritta Beinart’s Army, [esercito di Beinart, ndtr.].

L’importanza di Beinart nella vita comunitaria ebraica progressista significa che le sue nuove opinioni rappresentano, come afferma Robert Herbst [stimatissimo giornalista americano, dagli anni ‘60 agli ’80, conduttore del telegiornale della CBS, ndtr.], un potenziale “momento Walter Cronkite”. Il momento in cui il più influente conduttore americano, di ritorno dal Vietnam nel 1968, affermò che l’America non stava vincendo la guerra, che si trattava di un “sanguinoso … stallo” e Lyndon Johnson disse, come è noto, di aver perso il Paese.

Molti potrebbero dire che le rivelazioni politiche di Beinart non sono originali e, anche se sono d’accordo, risponderei che è un giornalista carismatico e di talento. Non dimenticherò mai il momento in cui alcuni anni fa, durante un affollato incontro di J Street, ha affermato che se Israele e il sionismo avessero fallito, gli ebrei avrebbero camminato sulle macerie di quell’errore per generazioni … Ed ecco un bel passaggio dal brano di Jewish Currents:

Per generazioni, gli ebrei hanno visto uno Stato ebraico come un tikkun, una riparazione, un modo per superare l’eredità dell’Olocausto. Ma non ha funzionato. Per giustificare la nostra oppressione nei confronti dei palestinesi, lo Stato ebraico ci ha richiesto di considerarli come nazisti. E, in questo modo, ha mantenuto in vita l’eredità dell’Olocausto. Il vero tikkun è l’uguaglianza, una casa ebraica che è anche una casa palestinese.

Beinart si unisce all’elenco di sionisti progressisti che hanno abbandonato la soluzione dei due Stati e la sua adesione a tale elenco significa che crescerà. Alcuni dei sionisti liberali che lo hanno preceduto sono … Gershon Baskin [fondatore dell’IPCRI – Centro di ricerca e informazione Israele/ Palestina, dedicato alla risoluzione del conflitto israelo-palestinese sulla base di una soluzione “due Stati per due popoli”, ndtr.] l’anno scorso sul Jerusalem Post:

Quelli di noi in Israele che hanno sostenuto e lottato per ottenere una soluzione con due Stati sono ora costretti ad accettare la nuova realtà che [Netanyahu] creerà e dovremo unirci ai ranghi del popolo palestinese che combatterà per la democrazia e uguaglianza in uno Stato laico non-nazione-non-etnico.

Ian Lustick [politologo ed esperto americano del Medio Oriente, ndtr.] nel suo libro dell’anno scorso, Paradigm Lost, che una volta era un attivista a favore dei due Stati, ora fa appello ad una battaglia per la parità dei diritti.

O Eric Alterman [storico e giornalista americano, ndtr.] che afferma su The Nation [la più antica rivista statunitense, ndtr.] che il sionismo progressista è una contraddizione in termini … Lara Friedman della Fondazione Middle East Peace, in precedenza di Americans for Peace Now, che chiede sanzioni … Larry Derfner [giornalista israelo americano, ndtr.] che pubblica il suo libro No Country for Jewish Liberals [Gli ebrei progressisti non hanno un Paese, ndtr.] e che sostiene il BDS…. o il leggendario Jeff Halper [antropologo, docente e attivista politico israeliano, ndtr.], contrario all’occupazione, che ha abbandonato da vari decenni il sionismo…

La defezione di Beinart rispetto all’opzione per i due Stati e per la separazione esercita un’enorme pressione sulle principali organizzazioni sioniste liberal-centriste J Street, Americans for Peace Now, New Israel Fund e Israel Policy Forum, perché mettano da parte gli orribili discorsi su “separazione” e demografia e si spostino più a sinistra. J Street è già sotto pressione. La sua opposizione all’annessione è stata, secondo gli studenti che fanno parte della sua sezione giovanile, solo parolaia e inefficace, e questi giovani, molti dei quali della comunità ebraica, stanno sicuramente esultando per le nuove opinioni di Beinart e stanno cercando di andare oltre. Scommetto che IfNotNow [organizzazione progressista ebraico americana che si oppone all’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, ndtr.] appoggerà fra non molto il BDS…

Il sionista conservatore David Harris recentemente si è lamentato del fatto che sia i finanziatori che i sostenitori ebrei stanno facendo pressioni su di lui affinché prenda una posizione decisa contro Israele. Sia i finanziatori che i sostenitori! La comunità ebraica organizzata è chiaramente in evoluzione rispetto a Israele e la sinistra può avere l’opportunità di guidare questo dibattito. L’appoggio di Beinart ad Ali Abunimah mostra che la narrazione palestinese del sionismo si trova ora nel campo degli ebrei e non se ne andrà più.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)