L’occupazione ai tempi del COVID-19: Israele va considerato responsabile della salute dei palestinesi

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Yara Asi 

15 novembre 2020 – Al-Shabaka

Introduzione

A marzo e aprile 2020, mentre gran parte del mondo si adeguava alla nuova normalità di lockdown e coprifuoco, molti palestinesi hanno rivissuto circostanze familiari. Quando sono stati segnalati i primi casi di COVID-19 in Cisgiordania, vicino a Betlemme, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha imposto il lockdown su quel governatorato. Gli spostamenti all’interno della Cisgiordania sono stati ridotti in modo simile ai peggiori periodi delle restrizioni di movimento sotto l’occupazione israeliana. 

Inoltre, la Giordania ha chiuso il valico di frontiera del ponte Re Hussein, il principale punto di entrata e uscita per i palestinesi della Cisgiordania, chi lavorava in Israele è stato mandato a casa o gli è stato detto di restare in Israele, e agli abitanti di Gaza che sono sottoposti ad un rigido assedio e hanno solo due punti di entrata e uscita, è stata imposta una quarantena obbligatoria per chiunque tornasse a casa a Gaza dall’estero. Infatti, agli inizi del lockdown, il blocco di Gaza è stato descritto come un vantaggio potenziale, dato che si pensava che la restrizione dei movimenti riducesse possibili focolai.

Questo editoriale tratta dei tre modi in cui il quadro giuridico dell’occupazione, come definito dal diritto internazionale umanitario (DIU), non ha fornito l’assistenza sanitaria pubblica ai palestinesi in tempi di COVID-19. Per prima cosa analizza il “de-sviluppo” attivo e passivo del sistema sanitario palestinese prima della pandemia. Secondo, esamina i modi in cui Israele non ha rispettato i suoi obblighi di legge verso i palestinesi sul COVID-19. E in conclusione analizza come, limitando le iniziative palestinesi, l’occupazione abbia peggiorato la situazione sanitaria.

Sebbene non ci sia dubbio che il DIU abbia probabilmente dei limiti nella protezione dei diritti delle popolazioni oppresse, il mio documento ne usa il linguaggio per ritenere Israele responsabile della salute dei palestinesi. In questo modo, anche in base ai criteri limitati previsti dalla comunità internazionale, in questo momento di crisi sanitaria Israele non sta adempiendo ai doveri giuridici minimi di una potenza occupante. Così facendo, ha contribuito attivamente al deterioramento della salute e del benessere dei palestinesi. Il documento propone parecchie raccomandazioni per affrontare la presente crisi. 

Il quadro giuridico dell’occupazione e i suoi limiti

Nel 1967, con la guerra dei Sei Giorni, lo Stato di Israele conquistò la Penisola del Sinai, la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme Est e le alture del Golan. Da allora, quasi tutti i governi e organismi internazionali, inclusi il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la Corte internazionale di Giustizia, l’Assemblea generale dell’ONU, il Comitato internazionale della Croce Rossa, hanno riconosciuto Israele come potenza occupante. Eppure lo Stato di Israele non definisce come occupazione la propria presenza nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), ma anzi la contesta attivamente. Israele e i suoi sostenitori hanno obiettato che la natura dello status o degli obblighi di Israele quale potenza occupante è cambiata con gli accordi di Oslo e che dopo il “disimpegno” del 2005 almeno Gaza non è occupata. Nonostante queste argomentazioni, quasi tutte le organizzazioni internazionali hanno continuato a riconoscere questi territori come occupati, inclusa la Striscia di Gaza. In risposta, Israele e i suoi alleati hanno combattuto per delegittimare le Nazioni Unite e trasformare il concetto di “occupazione” in un problema di intransigenza palestinese, basandosi sulla narrazione che tutti i palestinesi sono potenziali minacce alla sicurezza di Israele, giustificando di conseguenza la loro punizione collettiva. 

Il DIU fornisce un quadro solido delle responsabilità delle parti coinvolte in un conflitto armato e delle responsabilità di una potenza occupante verso la popolazione civile sotto il suo controllo. La convenzione dell’Aja del 1907 concernente le guerre terrestri rispecchiava le norme della fine del XIX secolo sulle dichiarazioni che regolavano gli atti di guerra e a tutt’oggi è critica verso le indagini del DIU sulle violazioni dei diritti umani. L’articolo 42 definisce un territorio come occupato “quando è effettivamente posto sotto l’autorità di un esercito ostile,” e altri articoli attribuiscono all’occupante una serie di responsabilità, inclusa quella di garantire la sicurezza pubblica e di prevenire il sequestro di proprietà private. A corollario della convenzione dell’Aja del 1907, le quattro Convenzioni di Ginevra firmate nel 1949 hanno ulteriormente rafforzato le protezioni e i diritti in guerra e sono considerate il cuore del DIU.

La quarta Convenzione di Ginevra, che protegge i civili, fu adottata dopo le atrocità della Seconda Guerra Mondiale. La sezione III descrive le protezioni a vasto raggio garantite ai civili nei territori occupati. Ci sono parecchi articoli rilevanti nella descrizione degli obblighi legali di Israele nei confronti della popolazione palestinese, specialmente durante questa pandemia. L’articolo 53, per esempio, vieta la distruzione di proprietà privata o pubblica. L’articolo 55 impone che la potenza occupante garantisca alla popolazione rifornimenti di cibo e medicinali, specialmente quando “le risorse dei territori occupati sono inadeguate.” L’articolo 56 richiede specificatamente alla potenza occupante di garantire e mantenere la sanità e l’igiene pubbliche, mentre l’articolo 59 chiede alla potenza occupante di facilitare gli sforzi di soccorso umanitario. 

Ma cosa più importante, l’articolo 60 dice chiaramente che gli invii di soccorso umanitario “non esonereranno affatto la potenza occupante dalle responsabilità che le incombono in virtù degli articoli 55, 56 e 59.” In altre parole, la presenza di aiuti da parti terze per soddisfare bisogni umanitari nei TPO non sostituisce il dovere dello Stato di Israele di soddisfare quei bisogni al meglio delle proprie capacità. In marzo l’ONU ha ribadito questa responsabilità quando Michael Lynk, il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Palestina, ha dichiarato che “il dovere legale, stabilito dall’articolo 56 della quarta Convenzione di Ginevra, richiede che Israele, la potenza occupante, debba garantire che tutte le necessarie misure preventive a sua disposizione siano utilizzate per ‘combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie.’”

All’inizio l’ONU aveva lodato la cooperazione “eccellente” fra le autorità israeliane e quelle palestinesi nella gestione della pandemia. Tuttavia l’errore di interpretare questi sforzi come cooperazione serve solo a consolidare la percezione del quasi-Stato di Palestina e dello Stato di Israele come entità equiparabili. Inoltre è importante contestualizzare questa cooperazione. Michael Lynk “ha già notato in precedenza che Israele è in ‘grave violazione’ dei propri obblighi internazionali riguardanti il diritto alla salute dei palestinesi che vivono sotto occupazione.” Questa presunta cooperazione sul COVID-19 è più probabilmente da collegare a un atteggiamento pragmatico riguardo al rischio di diffusione di una malattia infettiva, considerando la presenza di centinaia di migliaia di coloni in Cisgiordania e il costante traffico transfrontaliero di lavoratori palestinesi in Israele e di soldati israeliani in Cisgiordania. Come detto così tante volte negli ultimi mesi, il COVID-19 “non fa differenze fra persone né si ferma ai confini.”

Il de-sviluppo del settore sanitario palestinese  

Oggi nessuna analisi del frammentato settore sanitario palestinese è completa senza una comprensione dei fattori che l’hanno portato al suo stato attuale. Fattori sociali e politici determinanti per la salute sono profondamente radicati nei modi in cui l’occupazione e le sue restrizioni si manifestano in tutti gli aspetti della vita quotidiana palestinese. Sicuramente il blocco e i continui attacchi alla Striscia di Gaza hanno portato a scarsità di cibo, elettricità e forniture mediche in un territorio con infrastrutture distrutte. La Cisgiordania ha anche sofferto continue perdite di territori e frammentazione, abbinate a finanziamenti assolutamente insufficienti al settore sociale sotto l’autorità di un’ANP in difficoltà. Le risorse sanitarie sono insufficienti, specialmente per salute mentale, condizione femminile e giovanile. Decenni di dipendenza dagli aiuti hanno diminuito lo sviluppo a lungo termine e accresciuto la dipendenza dagli aiuti.

La dipendenza dell’ANP dagli aiuti e dai prestiti si è rivelata particolarmente disastrosa nell’era del COVID-19, dato che le agenzie di finanziamento stanno fronteggiando necessità globali senza precedenti che hanno limitato la loro possibilità di soddisfare tutti gli aiuti necessari. Inoltre, Israele controlla tutte le importazioni ed esportazioni nei TPO e ha da tempo proibito o limitato le importazioni di materiali giudicati a “doppio uso,” che sono cioè percepiti come un rischio per la sicurezza. Sono elencati articoli come il cemento per costruire strutture sanitarie, i prodotti chimici, incluso il carburante per generatori negli ospedali, prodotti farmaceutici e molte apparecchiature mediche. Ciò continua a porre ostacoli significativi al sistema di assistenza sanitaria palestinese e alla sua possibilità di combattere il COVID-19. Solo durante il suo attacco a Gaza nel 2014 Israele ha distrutto migliaia di case e circa 73 strutture mediche, la maggior parte delle quali non può essere ricostruita a causa delle restrizioni sulle importazioni. Osservatori dell’ONU hanno duramente criticato Israele perché ostacola gli aiuti umanitari ai palestinesi e demolisce strutture finanziate da donatori.

Questo de-sviluppo economico e infrastrutturale della Palestina ha portato a precarie condizioni di salute per molti palestinesi, aumentando di conseguenza le probabilità che sviluppassero gravi sintomi di COVID-19. I TPO denunciano alti livelli di obesità e, allo stesso tempo, tassi di malnutrizione, anemia, e diabete di tipo 2 superiori a quelli auspicabili. I TPO hanno anche affrontato la scarsità di personale sanitario negli anni precedenti alla pandemia. Il personale medico, specialmente a Gaza, è stato ucciso nel corso di attacchi dell’esercito israeliano. Queste minacce, la pessima situazione economica in ulteriore peggioramento e la mancanza di risorse spingono alcuni studenti di medicina ad andare a lavorare altrove. 

Oltre all’occupazione, l’ANP non è riuscita a reagire in modo adeguato alla pandemia. Probabilmente c’era da aspettarselo anche prima del suo inizio a marzo 2020. Infatti, poco prima, i medici in tutta la Palestina avevano scioperato per un mese a causa dei ritardi nei pagamenti degli stipendi. Gli effetti distruttivi dei mancati investimenti a lungo termine dell’ANP nel settore sanitario sono aggravati dall’infrastruttura israeliana di apartheid: i checkpoint, i valichi di frontiera, il muro di separazione e il sistema di permessi che limita i movimenti delle persone e le forniture necessarie. 

Le condizioni scadenti del sistema sanitario costringono molti palestinesi che hanno bisogno di assistenza specialistica a far domanda per ottenere permessi sanitari rilasciati da Israele per essere curati in ospedali israeliani o a Gerusalemme Est. Tuttavia nel 2019 è stato approvato solo il 64% dei permessi medici di Gaza e l’81% della Cisgiordania. Inoltre, dopo che l’ANP ha interrotto il coordinamento civile con Israele in risposta al piano di annessione del 2020 e il rallentamento del piano dell’Onu per facilitare i permessi, Israele ha approvato solo la metà di quelli urgenti richiesti da Gaza alla fine della primavera. Perciò a molti palestinesi che hanno contratto il COVID-19 e che soffrivano di patologie pregresse è stato impedito di ricevere cure mediche adeguate, incluso l’accesso ai respiratori. 

Politicizzare la salute dei palestinesi durante il COVID-19

Mentre Israele ha dato all’ANP formazione e attrezzature, inclusi i kit per i test per tener sotto controllo la diffusione del virus, Yael Ravia-Zadok, vice direttore della Divisione economica del Ministero degli Esteri [israeliano], già agli inizi della pandemia aveva anche chiarito che “le necessità dei palestinesi sono maggiori di quelle che lo Stato di Israele possa soddisfare.” Allo stesso tempo, Danny Danon, l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, ha così risposto alle critiche dell’ANP sulla gestione del COVID-19 da parte di Israele nei TPO: 

I palestinesi stanno ritornando al loro comportamento naturale: antisemitismo, anti-israelismo, infangare senza motivo e tentare di usare la situazione per ottenere vantaggi politici […] Il mio messaggio è molto chiaro: i palestinesi devono scegliere. Se vogliono continuare a ricevere aiuti per il coronavirus, devono smettere di istigare all’odio.”

Quindi i palestinesi devono dimostrare di meritarsi gli aiuti, senza criticare i comportamenti del governo israeliano, o rischiano di essere accusati di incitamento all’odio e di antisemitismo. Questo ricorda i tentativi di punire i palestinesi quando, nel 2012, hanno cercato il riconoscimento dello Stato da parte dell’Onu, e gli USA hanno bloccato 147 milioni di dollari in aiuti, o quando, l’anno scorso, Netanyahu ha definito “proclami antisemiti” le inchieste della Corte Penale Internazionale su potenziali crimini di guerra commessi nelle colonie. 

Già nel gennaio 2020, organizzazioni come l’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei profughi palestinesi, si sono mobilitati per proteggere dalla pandemia i rifugiati palestinesi che vivono nei campi. Inoltre alla fine di marzo l’OCHA, l’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari, ha preparato un progetto anti- Covid nei TPO e il Comitato Ad Hoc ha chiesto ai donatori milioni di dollari in aiuti. Paesi come Turchia e Arabia Saudita hanno contribuito con denaro e forniture mediche. La Banca mondiale ha approvato un prestito di 30 milioni di dollari per ripristinare i redditi delle famiglie. Persino gli Stati Uniti, che avevano tagliato quasi tutti gli aiuti ai palestinesi, inclusi i fondi all’URNWA e quelli che andavano agli ospedali a Gerusalemme Est, hanno reso noto un modesto aiuto per aiutare la loro risposta al COVID-19. A maggio anche Israele ha destinato 800 milioni di shekel (circa 200 milioni di euro) per aiuti, ma sotto forma di un prestito garantito dai futuri introiti fiscali palestinesi che Israele riscuote.

Perciò parte di quello che va sotto il nome di cooperazione può essere considerato come l’allentamento di alcune delle restrizioni imposte da Israele sui palestinesi per permettere ad altri di fornire aiuti. Inoltre Israele ha agito in modo strategico con i suoi cosiddetti aiuti. Ad aprile 2020 il ministro della difesa Naftali Bennet aveva affermato che gli aiuti a Gaza sarebbero stati condizionati al recupero dei resti di due dei suoi soldati morti nella guerra del 2014. Bennett aveva persino collegato la crisi umanitaria a Gaza al recupero dei corpi dei soldati: “Se si parla di problemi umanitari a Gaza, anche Israele ha delle necessità umanitarie, che sono principalmente il recupero dei caduti.” E poi in agosto, in risposta agli attacchi con palloni incendiari da Gaza che avevano causato decine di incendi, Israele ha lanciato attacchi aerei, impedito l’importazione di combustibile, limitato l’accesso alle zone di pesca e bloccato 30 milioni di dollari di aiuti a Gaza provenienti dal Qatar. 

Blocco degli sforzi palestinesi per affrontare il COVID-19

L’ANP, dopo una risposta iniziale efficace con veloci lockdown e chiusure, è stata poi criticata per la sua scarsa leadership, ma le va riconosciuto che non aveva risorse sufficienti né il potere di fare di più. Oltre a mancare dell’autonomia necessaria per costruire un sistema sanitario pubblico funzionale, i palestinesi non hanno neppure autonomia per rispondere in tempo reale a crisi sanitarie. A Gerusalemme Est, dove Israele limita pesantemente le operazioni dell’ANP, le autorità israeliane hanno trascurato di costruire e promuovere strutture sufficienti per eseguire i test o fornire dati accurati, e le ONG sono dovute intervenire per garantire informazioni aggiornate in arabo. 

Inoltre l’esercito israeliano ha regolarmente bloccato le iniziative sanitarie palestinesi. Non solo Israele ha fatto un raid su un centro di test a Silwan, ha anche arrestato i suoi organizzatori per prevenire “ogni attività dell’Autorità Nazionale Palestinese a Gerusalemme.” Un altro esempio: le autorità israeliane non assistono aree come Kufr Aqab, che sono tecnicamente all’interno dei confini stabiliti da Israele, ma fuori dal muro di separazione. Ne risulta che, dato che Israele vieta attività dell’ANP in queste aree, i palestinesi sono lasciati senza servizi pubblici. Le autorità sanitarie si sono impegnate ad aprire cliniche e centri per i tamponi in queste aree, e solo quando l’ONG palestinese Adalah ha presentato una petizione alla Suprema Corte Israeliana. Israele ha inoltre respinto gli sforzi di volontari palestinesi per limitare i movimenti o chiudere attività commerciali, anche se alcuni abitanti palestinesi di queste aree hanno il permesso di viaggio e quindi avrebbero potuto diffondere il contagio in Israele e Cisgiordania.

La diffusione dell’infezione è una grande preoccupazione nelle prigioni israeliane, dove a giugno 2020 c’erano più di 4.000 prigionieri e detenuti palestinesi. Centinaia sono in detenzione amministrativa a tempo indeterminato senza processo o accusa. Mentre all’inizio della pandemia gli esperti di diritti umani dell’Onu chiedevano il rilascio in massa dei prigionieri, e centinaia di detenuti israeliani venivano rilasciati in anticipo, nessuna azione simile è stata presa per i palestinesi. Nonostante i vari resoconti di prigionieri e guardie carcerarie israeliane positive al virus, a luglio la Corte Suprema Israeliana ha deliberato che i prigionieri palestinesi non hanno diritto al distanziamento fisico.  

Dato che le politiche israeliane hanno soffocato la possibilità di sviluppare la loro economia da parte dei palestinesi, specialmente nel vitale settore agricolo, molti palestinesi in Cisgiordania sono costretti a lavori poco qualificati in Israele, mentre in genere agli abitanti di Gaza non vengono dati permessi di lavoro. Infatti in Israele quasi il 70% della manodopera nei cantieri edili è palestinese. Questi lavoratori non possono lavorare da casa e, data l’elevata disoccupazione, quelli che hanno un lavoro devono mantenerli. Molto di questo lavoro è continuato e infatti il ministero dei Transporti israeliano ha previsto un’ accelerazione dei progetti durante il lockdown. Ciò promuove il costante sviluppo dell’economia israeliana mentre quella palestinese è crollata, oltre ai salari bassissimi di questi lavoratori. 

A parte lo squilibrio economico, ciò aumenta il rischio sanitario di quelli in Cisgiordania dato che molti lavoratori sono stati rimandati a casa senza testarli. Alcune delle prime morti in Cisgiordania sono state ricondotte a palestinesi che lavoravano in Israele. Oltre alla riluttanza a fare i tamponi ai lavoratori, le condizioni di alloggio e lavoro di migliaia di lavoratori rimasti in Israele durante il lockdown sono state in gran parte ignorate dal governo israeliano, persino quelle di chi era costretto a dormire in una struttura per il deposito dei rifiuti a Gerusalemme, dove non c’erano alloggi per fermarsi la notte.

Come detto sopra, il blocco israeliano su Gaza e le restrizioni in Cisgiordania hanno causato la scarsità delle grandi dotazioni necessarie per cure complesse, come i ventilatori. All’inizio di aprile 2020, l’80-90% dei 256 ventilatori in Cisgiordania e gli 87 nella Striscia di Gaza erano già occupati. Mentre Israele temeva che la disponibilità di 40 ventilatori per 100.000 persone fosse insufficiente, la Striscia di Gaza ne aveva solo 3 per 100.000 persone. Anche dopo l’inizio della pandemia, i fornitori di attrezzature mediche che avevano lavorato direttamente con il ministero della Salute palestinese per importare prodotti avevano difficoltà a ottenere l’approvazione del Coordinatore israeliano delle Attività del Governo nei Territori (COGAT). Un fornitore ha cercato per tre anni senza successo di fare entrare apparecchiature mediche a Gaza. 

Per aggirare questi problemi, i palestinesi hanno trovato modi per produrre ventilatori con i materiali disponibili e dopo una richiesta di assistenza del ministero degli Esteri palestinese, un’Ong australiana ha donato all’ANP ventilatori e altre apparecchiature. Comunque anche queste donazioni urgentemente necessarie devono essere approvate e avallate dal governo israeliano e saranno mandate in Israele prima di essere distribuite a Ramallah.

Le autorità israeliane hanno anche confiscato materiali indispensabili per attrezzare cliniche e alloggi di emergenza nella valle del Giordano, inclusi materiali per installare tende e un generatore. Dopo una temporanea interruzione delle demolizioni all’inizio di aprile 2020, alla fine di quel mese Israele ha demolito 65 strutture a Gerico e al-Khalil (Hebron), lasciando senza casa decine di palestinesi, inclusi almeno 25 bambini. 

Nonostante l’aumento dei casi positivi in Israele e in Cisgiordania, durante la primavera e l’estate le demolizioni sono continuate e hanno incluso un centro indispensabile per fare i test nell’Area C [in base agli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo israeliano, ndtr.] vicino ad al-Khalil, l’epicentro della pandemia in Cisgiordania. Inoltre le demolizioni a Gerusalemme Est stanno per superare i numeri degli anni precedenti, al settembre 2020 sono state distrutte approssimativamente 90 unità residenziali. 

Mentre la violenza strutturale dell’occupazione è particolarmente evidente in questi tempi di crisi globale, la violenza diretta non è cessata. Gaza è stata impegnata in un conflitto attivo per la maggior parte dell’estate, aerei e artiglieria israeliana hanno colpito aree nella Striscia in risposta ai palloni incendiari e ai razzi. In Cisgiordania, incursioni e raid dell’esercito israeliano sono continuati e la popolazione palestinese temeva che i soldati israeliani che entravano nelle loro case o lavoravano nei checkpoint potessero essere infettati.

Raccomandazioni

Come affermato dall’Onu in occasione del cinquantesimo anniversario dell’occupazione israeliana, “l’occupazione impedisce che il precedente flusso di aiuti si traduca in tangibili miglioramenti in termini di sviluppo. Molto del sostegno dei donatori è stato usato per limitare i danni, interventi umanitari e sostegno al budget.” Che siano l’interminabile e astratto dibattito su uno Stato o due o l’enorme industria degli aiuti che privilegia sorveglianza e governance a sanità ed agricoltura, molto di ciò che si fa “per” i palestinesi cambia molto poco la macabra realtà. Ciò nasconde semplicemente l’esistente crisi umanitaria, ora aggravata dalla crisi sanitaria globale che sta mettendo a dura prova persino gli Stati più stabili e ricchi. Definire “tranquillo” ogni periodo senza una guerra attiva è una falsità quando scoppia una crisi come quella del COVID-19 e nessun organismo vuole e può proteggere le vite dei palestinesi. 

Ecco quello che è disperatamente necessario per affrontare la crisi sanitaria in Palestina durante la pandemia da COVID-19: I leader palestinesi che fino a ora e per varie ragioni non sono stati all’altezza nell’ occuparsi dei palestinesi durante la pandemia, devono guardar oltre lo status quo e avere un “approccio forte e socialmente collaborativo” che vada incontro alle necessità dei palestinesi.

  • Israele deve liberare i prigionieri politici palestinesi, con la massima urgenza quelli anziani e i malati cronici, e allo stesso tempo deve migliorare le condizioni di quelli che stanno scontando una condanna.

  • Per proteggere questa popolazione marginalizzata, che è stata colpita in modo sproporzionato dalla pandemia, è necessaria una giusta definizione dello status dei rifugiati palestinesi in tutto il Medio Oriente, incluso il ritorno e l’implementazione dei diritti negli Stati ospiti. Fino all’inizio di tale implementazione, la comunità internazionale dovrebbe ripristinare la possibilità da parte dell’UNRWA di provvedere a servizi sanitari ed educativi nelle comunità dei rifugiati palestinesi invece di dover far affidamento ad appelli urgenti e altri tentativi di raccolta fondi ad hoc.

  • Israele deve togliere l’assedio a Gaza, specialmente per permettere l’ingresso di prodotti medici e materiali per costruire strutture sanitarie e di personale medico a sostegno di quello drammaticamente carente a Gaza. Allentare le restrizioni delle importazioni in Cisgiordania alleggerirebbe inoltre il peso sulle strutture mediche.

  • La comunità internazionale, inclusi Unione europea, Lega Araba e Consiglio di Sicurezza dell’ONU devono far pressione su Israele affinché faccia ogni sforzo per adempiere ai suoi obblighi di potenza occupante in in base alla Quarta Convenzione di Ginevra. Dovrebbero chiedere che Israele cessi tutte le incursioni in Cisgiordania, fermi tutte le demolizioni e metta in atto particolari sistemi di protezione per i lavoratori palestinesi in Israele.

  • Yara Asi è ricercatrice post-dottorato presso l’università della Florida centrale, dove per oltre 6 anni ha insegnato nel Dipartimento di Gestione sanitaria e informatica. È borsista Fulbright USA della Cisgiordania nel 2020-2021. Le sue ricerche si concentrano principalmente sulla salute globale e lo sviluppo in popolazioni fragili e colpite dalla guerra. 

Oltre ad aver lavorato in una delle prime organizzazioni di assistenza certificate negli Stati Uniti, ha anche collaborato con Amnesty International USA, con lArab Center Washington DC, il Palestinian American Research Center, [Centro Palestinese Americano di Ricerca] e con Al-Shabaka, un network per le politiche palestinesi su temi relativi alla sensibilizzazione. Ha tenuto conferenze su argomenti relativi alla salute globale, come sicurezza alimentare, informatica biomedica e donne nel sistema sanitario, e ha pubblicato le sue ricerche in molti articoli per riviste, capitoli di libri e altro. Il suo libro di prossima uscita con la Johns Hopkins University Press tratta delle minacce poste da guerre e conflitti a salute pubblica e sicurezza umana.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)