Nir Hasson, Yanal Jbareen, Fatima Khamaisi
9 maggio 2021 – Haaretz
Tradizionalmente i cittadini arabi di Israele hanno evitato di unirsi alle lotte dei palestinesi. Tuttavia le recenti proteste di Gerusalemme segnano un radicale cambiamento.
Dei 200 palestinesi feriti nei violenti scontri di venerdì a Gerusalemme, due lo sono stati in modo relativamente grave. Data la partecipazione senza precedenti di cittadini arabo-israeliani agli ultimi incidenti, non è sorprendente che entrambi non siano abitanti di Gerusalemme Est, ma cittadini arabi di Israele.
Secondo Sireen Jbareen, 25 anni, un’esponente di spicco del movimento di protesta dei giovani cittadini arabi, dalla sola città araba di Umm al-Fahm più di 250 manifestanti hanno partecipato alle proteste di venerdì a Sheikh Jarrah. Inoltre le centinaia di dimostranti che venerdì sera si sono scontrate con la polizia nel complesso della moschea di Al-Aqsa erano arrivate da città arabe della parte centro-settentrionale di Israele.
Tuttavia il rapporto tra i palestinesi di Gerusalemme est e i cittadini arabi di Israele è complesso. Da una parte gli arabo-israeliani mediano tra gli abitanti di Gerusalemme est e le autorità israeliane, in quanto la maggioranza di loro ricopre posizioni di spicco nella parte orientale della capitale israeliana (avvocati, presidi di scuola e funzionari di agenzie governative). D’altra parte gli abitanti di Gerusalemme est nutrono risentimento nei confronti dei cittadini-arabo-israeliani benestanti, che, sostengono, hanno dimenticato i loro fratelli di Gerusalemme che soffrono soggetti all’occupazione israeliana.
Negli scorsi anni questo concetto è stato confermato, in quanto solo i palestinesi gerosolimitani hanno partecipato alla lotta di Gerusalemme est. Solo di rado le ondate di protesta a Gerusalemme est, soprattutto riguardo alla moschea di Al-Aqsa, hanno provocato manifestazioni anche altrove in Israele.
Tuttavia nessuno ricorda un coinvolgimento così massiccio di cittadini arabo-israeliani alle manifestazioni di Gerusalemme est. Durante gli ultimi 10 giorni di Ramadan decine di autobus di fedeli, alcuni dei quali hanno preso parte ai recenti scontri con la polizia, sono arrivati nella capitale dalle città e cittadine arabo-israeliane del nord e del centro. Per molti palestinesi, gerosolimitani e non, ciò segna un cambiamento radicale.
La vecchia generazione palestinese, che ha vissuto due intifada all’inizio degli anni ’90 e 2000, “dice che non ne è uscito niente per loro” e che “hanno ormai perso la speranza,” dice Jbareen. “Ora i giovani sentono di dover uscire (e protestare),” aggiunge. Yara, 21 anni, anche lei di Umm al-Fahm, afferma che “ciò che sta avvenendo a Gerusalemme non succede solo ai suoi abitanti,” sottolineando che gli arabi cittadini di Israele lottano affinché gli arabi in tutto Israele possano esercitare il proprio diritto di rimanere sulla loro terra. Gli abitanti di Umm al-Fahm hanno un ruolo centrale nelle proteste degli arabo-israeliani in generale. Tra i manifestanti palestinesi gerosolimitani i giovani di Umm al-Fahm hanno la reputazione di non aver paura della polizia.
Unirsi ai palestinesi di Gerusalemme è strettamente legato alla recente ondata di proteste a Umm al-Fahm contro l’indifferenza della polizia nei confronti della crescente violenza all’interno della comunità araba. Un paio di mesi fa tre organizzazioni di giovani impegnate nel sociale si sono unite per formare l’“United Fahmawi Movement” [Movimento Unitario Fahmawi] (Fahmawi è il soprannome di chi abita a Umma al-Fahm). I suoi dirigenti coordinano sia le proteste contro la polizia a nord che le proteste a Gerusalemme. Anche le reti sociali hanno giocato un ruolo fondamentale nel riunire i giovani sostenitori della lotta. Sabato molti giovani hanno cambiato l’immagine del proprio profilo sulle reti sociali in solidarietà con i feriti negli scontri nel complesso della moschea di Al-Aqsa usando l’hashtag Palestinian Lives Matter [Le vite dei palestinesi contano, in riferimento al movimento degli afroamericani contro le violenze della polizia negli USA, ndtr.].
Recentemente persino la comunità drusa di Israele, che in genere evita di unirsi alle proteste della comunità araba e sicuramente non si fa coinvolgere in quelle dei palestinesi di Gerusalemme, ha iniziato a postare video su social media utilizzando l’hashtag Save Sheikh Jarrah” [Salvare Sheikh Jarrah]. Finora, domenica [9 maggio], l’hashtag ha ricevuto più di 1.5 milioni di condivisioni su Twitter ed è comparso nel pannello di tendenza in Israele e in Cisgiordania.
“Venerdì, quando sono arrivato a Sheikh Jarrah, ho visto chiaramente la separazione razzista,” dice Shadi Nassar, 23 anni, dalla cittadina arabo-israeliana di Arabeh, nel nord. “Gerusalemme è il centro della questione palestinese, senza di essa non c’è liberazione del popolo palestinese, che vive sotto occupazione e un’ingiustizia storica.” Ha aggiunto che i giovani arabo-israeliani stanno andando a Gerusalemme “per esprimere solidarietà agli abitanti di Sheikh Jarrah la cui capitale sia Gerusalemme” così come nella lotta per la creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme come capitale.
Lin Jbareen, 17 anni, di Umm al-Fahm, afferma che dopo che “ho visto l’ingiustizia e la sofferenza del (suo) popolo,” ha capito “che la resistenza in ogni sua forma è efficace e quindi sto cercando di fare del mio meglio per partecipare alle manifestazioni e alle iniziative sociali in modo che forse un giorno ci sarà una grande rivoluzione.”
Ibrahim, 18 anni, della città arabo-israeliana di Kafr Kana, sempre nel nord, vede le proteste come un obbligo religioso. “Gli abitanti musulmani di Gerusalemme stanno soffrendo discriminazioni in ogni aspetto della vita, come l’espulsione dal quartiere di Sheikh Jarrah,” dice. “Sono contro le discriminazioni in generale, soprattutto nei confronti dei deboli, e quindi è un mio obbligo religioso appoggiarli,” aggiunge. Yara, 22 anni, della città settentrionale di Baka al-Garbiyeh, sostiene che i cittadini arabo-israeliani giovani si stanno unendo alle ultime proteste “perché siamo un unico popolo, una Nazione, dalla Galilea al Negev, e continueremo ad andare (alle proteste)”, dice.
(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)