Apartheid in Palestina. Origini e prospettive della questione palestinese,

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Gabriel Traetta. Apartheid in Palestina.Origini e prospettive della questione palestinese DeriveApprodi, Roma 2022

Recensione di Amedeo Rossi

25 settembre2022

Il libro rappresenta una denuncia della situazione che nel corso dei decenni è andata progressivamente deteriorandosi in Medio Oriente. Nelle due autorevoli prefazioni Luisa Morgantini e Wasim Dahmash evidenziano uno dei pregi di questo libro: “Chiamare le cose con il proprio nome”, come afferma Dahmash, cioè “colonialismo d’insediamento, apartheid, occupazione militare”, come enumera Morgantini. Inoltre, aggiungono, la peculiarità di questo libro è il riferimento puntuale al contesto internazionale. L’autore ne tratta con cognizione di causa, avendo collaborato con l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite specificamente dedicata ai profughi palestinesi. E il fulcro di questo lavoro è proprio la contraddizione tra dichiarazioni di principio, denunce e risoluzioni ONU e la sostanziale inanità, quando non connivenza e sostegno, della comunità internazionale nei confronti di Israele a rappresentare.

La tragedia di cui i palestinesi sono vittime è maturata soprattutto a partire dal Mandato britannico e dalla dichiarazione Balfour, che impegnava l’impero a favorire la costituzione di un “focolare ebraico” in Palestina. Fin da allora alla popolazione autoctona è stato riservato un ruolo marginale, ignorandone il diritto all’autodeterminazione e liquidandola come “popolazione non ebraica” da tutelare solo dal punto di vista religioso e sociale. È singolare che i sostenitori di Israele citino questa dichiarazione come una delle fonti di legittimazione di Israele, nonostante si tratti di un documento di chiaro stampo colonialista. E d’altra parte il colonialismo di insediamento è una delle caratteristiche che definiscono l’impresa sionista.

Il secondo momento cruciale su cui si sofferma Traetta è rappresentato dalla risoluzione 181 dell’ONU che nel 1947 stabilì la spartizione della Palestina tra uno Stato ebraico e un altro arabo, ignorando la situazione demografica sul terreno e le legittime aspirazioni del popolo palestinese. Si tratta, scrive l’autore, “dell’unico caso nella storia delle Nazioni Unite e del diritto internazionale in cui è stato conferito a un movimento politico-coloniale il diritto di fondare uno Stato e per di più a evidente discapito del popolo indigeno.” Ciò fu possibile grazie alla maggiore capacità del gruppo dirigente sionista rispetto alla controparte araba di muoversi nel contesto internazionale e trovare quindi legittimazione alle proprie pretese non solo in Occidente, ma anche nel blocco socialista. Infatti, pur nell’imminenza della Guerra fredda, la risoluzione 181 venne votata sia dagli Stati Uniti che dal blocco socialista in via di formazione. Da allora lo Stato ebraico ha continuato a violare impunemente le disposizioni delle Nazioni Unite, a cominciare proprio dalla stessa risoluzione 181. I territori occupati andavano ben oltre quelli destinati al cosiddetto Stato ebraico, ma vennero annessi senza conseguenze. La capitale venne spostata da Tel Aviv a Gerusalemme ovest, che era invece destinata ad essere un territorio gestito dalla comunità internazionale. Infine, Israele si rifiutò di consentire il ritorno delle centinaia di migliaia di profughi palestinesi, nonostante nell’atto di adesione all’ONU accettasse di riaccoglierli.

Dal problema dei profughi nacque nel dicembre 1949 la United Nation Relief and Works Agency for Palestinian Refugees in the Near East (l’UNRWA), incaricata di fornire una serie di servizi ai profughi palestinesi. Logicamente a questa agenzia Traetta dedica particolare attenzione, in quanto essa sintetizza tutte le contraddizioni e le incongruenze della comunità internazionale rispetto al conflitto israelo-palestinese. Egli evidenzia che l’UNRWA non ha un mandato specifico: “Non esiste infatti una dichiarazione esplicativa del termine unica ed esaustiva, ma vari documenti e risoluzioni ONU contengono elementi che, se correlati, forniscono la descrizione dell’istituto del mandato.” Il risultato è che “le risoluzioni sulle quali poggiano i mandati utilizzano prevalentemente […] una terminologia che lascia spazio all’arbitrio e non prevede l’esecutività della richiesta.”

Questa voluta ambiguità si manifestò anche nel 1967, quando circa altri 350.000 palestinesi vennero cacciati dalla Cisgiordania e da Gaza. L’ulteriore pressione sull’UNRWA ne accrebbe il ruolo dal punto di vista quantitativo, ma Israele scaricò sui finanziatori internazionali dell’agenzia il costo della sua espansione territoriale.

Nel 2000 l’UNRWA aveva 30.000 dipendenti, al 95% palestinesi (rappresentando quindi una fonte di lavoro imprescindibile per i rifugiati) e forniva ai suoi beneficiari servizi nei campi della salute, dell’istruzione, della formazione, dei servizi sociali, ecc. Tuttavia queste attività sono soggette alla disponibilità di fondi, a loro volta subordinati alle erogazioni da parte dei Paesi donatori, che per ragioni di politica internazionale possono decidere di ridurre o negare gli stanziamenti. È quanto ha fatto l’amministrazione Trump, che ha contribuito alla campagna di discredito e il boicottaggio promosso da Israele per eliminare alla radice la questione dei profughi palestinesi.

Nella seconda parte del libro Traetta parla delle radici colonialiste dello Stato di Israele e delle sue innumerevoli violazioni delle leggi internazionali, della Convenzione di Ginevra e delle risoluzioni ONU. Ricorda che dal 2008 Israele nega impunemente al relatore speciale ONU l’accesso sia al suo territorio che a quelli occupati. Non c’è quindi da stupirsi che oltre il 50% delle risoluzioni di denuncia per violazioni dei diritti umani, sia da parte del Consiglio ONU per i diritti umani che dell’Assemblea generale riguardino Israele.

Una serie di pratiche e di politiche discriminatorie in atto già dalla fondazione dello Stato nel 1948 hanno dato vita a sistema di apartheid istituzionalizzato sia nei territori occupati che sul territorio israeliano. Lo hanno affermato nel 2021 rapporti dell’ONU, di ong internazionali come Amnesty International e Human Rights Watch e israeliane come B’Tselem, ma i palestinesi lo denunciano da decenni. Ancora più grave è la situazione a Gaza, sottoposta dal 2007 a un assedio asfissiante che sta distruggendo l’economia, l’ambiente e la vita stessa di 2 milioni di persone. I periodici attacchi israeliani hanno provocato migliaia di vittime e preso di mira le infrastrutture fondamentali per la sopravvivenza della popolazione, compresi i servizi dell’UNRWA. Nel 2019, durante la Grande Marcia del Ritorno, i cecchini israeliani hanno fatto strage dei manifestanti. A questo proposito Traetta cita il rapporto del relatore speciale ONU, secondo il quale, nonostante la comunità internazionale sia pienamente consapevole di quanto sta avvenendo in Palestina, essa si dimostra “riluttante ad agire in merito a tali prove schiaccianti e a utilizzare gli abbondanti strumenti politici e legali a sua disposizione per porre fine all’ingiustizia.”

Proprio tra il 2018 e il 2020, afferma l’autore, ci sono stati tre cambiamenti epocali che hanno riconosciuto come legittime le violazioni operate da Israele: lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, la legge sullo Stato-Nazione ebraico e infine l’Accordo del secolo proposto dall’amministrazione Trump, che ha escluso la partecipazione dei palestinesi persino dalla definizione dei suddetti “accordi”. Questi avvenimenti non solo rafforzano il progetto sionista, ma fanno a pezzi le leggi internazionali e ogni norma che pretenda di regolare i rapporti tra gli Stati e i popoli. Come afferma in chiusura Traetta, “la questione palestinese ricorda al mondo intero, ogni giorno, quanto l’ordinamento internazionale contemporaneo sia una farsa: nel nome del diritto internazionale, i cinque membri permanenti possono utilizzare secondo le proprie esigenze nazionali il potere vastissimo conferito loro dal Consiglio di sicurezza ma al tempo stesso, tramite il diritto di veto, sono immuni dalla possibilità di esserne oggetto.”

Come dimostra questo libro, la questione palestinese non riguarda solo un’area relativamente marginale del mondo, ma i diritti di tutti, e non è un problema di carattere umanitario, ma è eminentemente politico.