Israele: Netanyahu ha chiesto al mondo di dimenticarsi dell’occupazione. Ben-Gvir la vuole in primo piano e al centro

Una chiacchierata tra Netanyahu e Ben-Gvir durante l'insediamento della nuova Knesset Foto: AFP
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Meron Rapoport

22 novembre 2022 – Middle East Eye

Il primo ministro israeliano entrante ha lavorato duramente per togliere i palestinesi dalla lista delle priorità sia degli israeliani che degli arabi, ma lo scontro è fondamentale per i suoi nuovi partner di coalizione

Circa due settimane prima delle ultime elezioni israeliane Benjamin Netanyahu ha illustrato la sua concezione del futuro di Israele in un articolo pubblicato da Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndt.]. “Negli ultimi 25 anni ci è stato detto ripetutamente che ci sarebbe stata pace con gli altri Paesi arabi solo dopo che avessimo risolto il conflitto con i palestinesi,” ha scritto. Ma egli credeva che “la strada verso la pace non passi da Ramallah [sede dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndt.], ma piuttosto le giri attorno.”

La sua via, ha sostenuto su Haaretz, si è dimostrata giusta. Ha firmato accordi di normalizzazione con quattro Paesi arabi e si prospettano ulteriori accordi con altri Stati. In poche parole, non solo Israele può prosperare senza risolvere il suo conflitto con i palestinesi, ci dice, ma il modo per raggiungere la prosperità è di fatto ignorarli. Non hanno nessuna importanza.

Sono trascorse altre tre settimane dalle elezioni del 1° novembre in cui il blocco di partiti di destra guidato da Netanyahu ha ottenuto una maggioranza apparentemente comoda di 64 seggi nel parlamento israeliano, la Knesset. Al momento rimane incerto quale sarà l’esatta composizione del suo prossimo governo e chi deterrà dicasteri chiave come Difesa, Finanza e Affari Esteri.

Tuttavia una cosa è già chiara: per dei possibili partner di Netanyahu, in particolare Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, i due leader della lista razzista e nazionalista della lista Sionismo Religioso che hanno vinto 14 seggi alle elezioni, il conflitto di Israele con i palestinesi non è solo un fattore importante: è l’unico fattore importante.

Netanyahu ha inequivocabilmente dimostrato che rimuovere la questione palestinese dall’agenda pubblica in Israele, e anche a livello globale, è stato uno dei suoi obiettivi preminenti, soprattutto dal suo ritorno al potere nel 2009.

Ha perseguito questo obiettivo utilizzando tre approcci principali: in primo luogo, cancellando il confine del 1948 (noto come Linea Verde) dalla coscienza della maggioranza degli ebrei in Israele espandendo le colonie e annettendo nella pratica ampie fasce dell’Area C [più del 60% dei territori occupati e sotto totale controllo di Israele, ndt.] in Cisgiordania.

In secondo luogo, promuovendo l’affermazione secondo cui “non esiste un partner per la pace” da parte palestinese, ignorando quasi completamente la leadership palestinese e le sue richieste di porre fine all’occupazione; infine, moderando in qualche modo l’uso della forza militare israeliana in base alla teoria che meno violento è il conflitto, minore sarà l’attenzione, in Israele, nel Medio Oriente e in tutto il mondo.

Questo approccio ha avuto un grande successo. La maggior parte degli ebrei israeliani oggi non sa dove sia la Linea Verde [il confine tra Israele e Giordania prima della guerra del 1967, ndt.]. Il termine “occupazione” è diventato una parolaccia che non viene quasi mai menzionata nei principali media israeliani. L’affermazione che “non c’è nessuno con cui parlare” dalla parte palestinese si è solidificata nel consenso non solo nella destra e nel centro ebraici, ma anche nella sinistra moderata.

Il contenimento di operazioni militari di vasta portata, a parte la guerra mortale a Gaza nel 2014, ha ridotto il numero di israeliani uccisi a causa del conflitto a poco più di 10 all’anno, tanto che la discussione su quello che veniva chiamato il “prezzo dell’occupazione” è quasi scomparsa.

Annessione strisciante

Ovviamente lo status quo proposto da Netanyahu non è stato realmente uno status quo, poiché l’annessione strisciante dei territori palestinesi è continuata e sul terreno ha gradualmente preso forma un regime di apartheid. Ma nel complesso per gli (ebrei) israeliani continuare con questa situazione sembra preferibile al tentativo di cambiarla.

Parte del successo di Netanyahu deriva da processi non direttamente collegati alla sua persona. Quando nel 2009 diventò primo ministro per la seconda volta, la Seconda Intifada era finita. La scissione tra Hamas a Gaza e Fatah in Cisgiordania aveva notevolmente indebolito la posizione palestinese e Netanyahu potè sfruttare questa debolezza.

Nel 2011, con l’avvento delle decantate primavere arabe, i Paesi arabi vicini erano inclini a dedicare più attenzione ai propri affari e meno alla causa palestinese. E la crescente ondata di populismo di destra in tutto il mondo, culminata con l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti nel 2016, ha creato un’atmosfera congeniale a Netanyahu e alla sua politica di strisciante apartheid.

Ma negli ultimi anni qualcosa è andato storto in questo gioco di equilibrio promosso da Netanyahu. La scomparsa del conflitto con i palestinesi dall’agenda nazionale di Israele ha effettivamente sollecitato il movimento dei coloni di destra a spingere per l’annessione o, nel loro lessico, per “l’applicazione della sovranità”. La logica dei coloni sostiene che se i palestinesi non sono più una minaccia, non c’è motivo di evitare di annettere, in tutto o in parte, la Cisgiordania. Sebbene Netanyahu abbia rinunciato all’annessione all’ultimo minuto, questa spinta della destra per sconvolgere lo status quo non è svanita.

Il momento in cui è diventato chiaro che il falso status quo costruito da Netanyahu non funzionava più è arrivato nel maggio 2021. I palestinesi, che Netanyahu aveva cercato di escludere dal discorso pubblico in Israele, si sono ribellati non solo a Gerusalemme est e a Gaza, ma anche nelle cosiddette “città miste” all’interno di Israele: Lydd (Lod), Ramla, Acre (Akka) e altre località.

Invece di retrocedere in Cisgiordania dietro le montagne di tenebre, il conflitto con i palestinesi si è presentato improvvisamente sulla porta di casa di molti ebrei nel cuore del Paese.

Subito dopo l’esponente della destra Naftali Bennett ha deciso di allearsi con il centrista Yair Lapid per formare un governo alternativo e lasciare, per la prima volta in 12 anni, Netanyahu all’opposizione. Le ragioni di questa mossa sono state molte, ma potrebbe aver contribuito alla sua caduta anche il fatto che Netanyahu non fosse più considerato in grado di fornire una risposta al “problema palestinese”.

Nel vuoto lasciato da Netanyahu, la destra razzista è passata nelle mani del famoso colono Itamar Ben-Gvir, leader del partito Otzma Yehudit (“Potere ebraico”), residente a Hebron e ammiratore di Baruch Goldstein, che nel 1994 uccise 29 fedeli musulmani nella Moschea Ibrahimi di Hebron. Gli eventi del maggio 2021 sono stati sfruttati da Ben-Gvir come prova del fatto che gli ebrei in Israele vivono sotto la minaccia della “violenza araba”, che può essere contrastata solo ricordando agli arabi che gli ebrei sono gli unici “proprietari ” di questo luogo. Per sostenere questa argomentazione Ben Gvir ha evocato anche il timore della gente di un aumento della criminalità nelle città del sud di Israele, dove il crimine viene attribuito principalmente agli abitanti beduini palestinesi dell’area, che vivono in condizioni di estrema povertà e discriminazione di lunga data.

Conflitto come priorità

Ovviamente Ben-Gvir non ha inventato l’idea della supremazia ebraica, che sin dall’inizio è stata, in misura maggiore o minore, un aspetto del sionismo. Ma con il suo effettivo successo nel trasformare l’aspirazione alla supremazia ebraica in un’ampia piattaforma politica Ben-Gvir ha sfidato, consapevolmente o inconsapevolmente, il presupposto di Netanyahu di ignorare la questione palestinese.

Mentre Netanyahu ha sostenuto che il problema non esiste più, o almeno non sta influenzando le vite degli israeliani, è arrivato Ben-Gvir e ha sostenuto che il conflitto palestinese colpisce le vite degli ebrei, sempre e ovunque, all’interno o al di là della Linea Verde. La soluzione di Ben-Gvir è violenta e razzista – uccidere o deportare chiunque, palestinese o anche ebreo, si opponga al regime di supremazia ebraica – ma, nel frattempo, ha messo al primo posto la questione delle relazioni ebraico-palestinesi.

Anche Bezalel Smotrich, partner di Ben-Gvir nell’alleanza del “sionismo religioso”, fa della questione del conflitto tra ebrei e palestinesi la sua massima priorità politica. E Smotrich, come Ben-Gvir, propone una soluzione violenta e razzista. Nel suo saggio “Il progetto decisivo di Israele” pubblicato nel 2017, Smotrich offre tre opzioni ai palestinesi in Cisgiordania: accettare di vivere senza diritti politici sotto il dominio ebraico, emigrare in un altro Paese o affrontare un esito  deciso dalla guerra.

Come Ben-Gvir, Smotrich pensa che in nessun caso si dovrebbe mai rinunciare alla supremazia ebraica all’interno di Israele. Nel 2021 ha ritirato l’appoggio che avrebbe consentito a Netanyahu di formare un governo perché per farlo Netanyahu avrebbe dovuto dipendere da un partito arabo, la Lista Araba Unita guidata da Mansour Abbas. “Un nemico non è un alleato legittimo. Punto,” ha scritto all’epoca Smotrich per giustificare la sua decisione.

Ben-Gvir ha cercato di persuadere gli elettori nelle città periferiche che Netanyahu non ha offerto loro nessuna risposta – né riguardo alle loro preoccupazioni per il crescente rafforzamento economico, accademico e politico dei loro vicini palestinesi, né in merito al fatto che loro, abitanti di zone marginali, devono ancora godere della sbandierata prosperità economica di cui Netanyahu si è vantato.

Smotrich è stato popolare soprattutto tra l’opinione pubblica religiosa, che oggi è parte dell’élite economica e governativa di Israele. Ma ciò che è chiaro è che entrambi questi uomini, dopo aver incrementato i loro risultati insieme dai 6 seggi nella precedente tornata elettorale ai 14 nell’attuale Knesset, che consentono loro di dettare le condizioni a Netanyahu, che sa che senza di loro non può governare, sono i grandi vincitori delle ultime elezioni.

Promesse vincenti

Come c’era da aspettarsi, queste circostanze riguardano innanzitutto questioni che coinvolgono il conflitto con i palestinesi. Prima ancora che finiscano i negoziati sulla formazione del governo, Netanyahu ha già promesso a Ben-Gvir quanto segue: in Cisgiordania verranno forniti allacciamenti alla rete elettrica e idrica a 60 avamposti coloniali senza permesso, la maggior parte dei quali costruiti su terra di proprietari privati palestinesi; su terreni della città palestinese di Beita, in un luogo che i coloni chiamano Evyatar, potrà essere fondata una yeshiva [scuola religiosa ebraica, ndt.]; verrà ora abrogata una legge del 2005 adottata al fine di consentire l’evacuazione di tre insediamenti coloniali nel nord della Cisgiordania per permettere che vi venga ricostruita una colonia, di nuovo su terre private palestinesi, insieme a notevoli investimenti in strade di collegamento per le colonie in Cisgiordania.

Gli ha anche promesso il ministero della Sicurezza Pubblica, che controlla la polizia, dove Ben-Gvir vuole mano libera per reprimere i beduini palestinesi nel sud di Israele e pretende cambiamenti delle regole d’ingaggio relative a quando è consentito aprire il fuoco, in modo che i poliziotti possano sparare e uccidere chiunque ritengano sospetto senza timore di essere perseguiti.

Smotrich sta puntando più in alto. Vuole essere ministro della Difesa. In tale veste Smotrich sarebbe di fatto l’unico potere sovrano in Cisgiordania e potrebbe fare più o meno quello che vuole. Per non parlare del fatto che ha promesso di mandare l’esercito nelle cosiddette “città miste” all’interno di Israele se e quando si ripetessero gli avvenimenti violenti del maggio 2021.

Finora su questo punto Netanyahu si è rifiutato, in parte perché l’amministrazione Biden a quanto pare è stata chiara sul fatto di non aver intenzione di collaborare con un ministero della Difesa israeliano gestito da Smotrich. E anche perché Netanyahu forse comprende che, se i bellicosi razzisti di Sionismo Religioso avessero il controllo sia del ministero della Sicurezza Pubblica che di quello della Difesa, egli non controllerebbe più il modo in cui Israele gestisce il conflitto con i palestinesi.

Netanyahu avrebbe voluto fare a meno di Smotrich e Ben-Gvir e avrebbe scelto invece di includere nel suo governo l’attuale ministro della Difesa, il centrista Benny Gantz, rinnovando il tal modo l’approccio della “gestione del conflitto” che ha guidato con tanto successo negli ultimi 15 anni. A quanto pare gli americani stanno facendo pressione su di lui e su Gantz perché raggiungano un simile accordo. Ma ciò potrebbe non dipendere da Netanyahu. La destra razzista, stanca dello status quo che egli vende agli elettori israeliani, è più forte di lui.

Crescente violenza

È ancora troppo presto per prevedere le conseguenze di questa nuova situazione. Netanyahu riuscirà, nonostante tutto, a imporre la sua politica preferita e mettere da parte la questione palestinese? Non sarà facile, e non solo perché tornerà alla carica di primo ministro durante un periodo molto violento, con il numero di palestinesi e israeliani uccisi dall’inizio del 2022 a livelli record, che non si vedevano dalla fine della Seconda Intifada nel 2005: al 18 novembre 139 palestinesi e 27 israeliani.

Anche se la destra razzista dovesse riuscire a farsi carico della polizia e dell’esercito, le possibilità che metta in pratica le sue fantasie violente non sono una conclusione scontata. I palestinesi si trovano in una posizione diversa da quella del 1948 o del 1967 ed essi non saliranno senza resistere sugli autobus per essere deportati.

La comunità internazionale, con tutti i suoi limiti, ha già difficoltà ad accettare l’apartheid israeliana (come evidenziato dalla recente decisione di affidare la discussione sulla legalità dell’occupazione israeliana alla Corte Internazionale di Giustizia). Oltretutto l’economia di Israele dipende totalmente da quella mondiale; dopo le recenti elezioni la società ebraica in Israele è anche più divisa che mai, con una parte sostanziale del centro-sinistra che vede i partiti “religiosi” di Ben-Gvir e Smotrich come una minaccia per il suo stile di vita laico.

Nell’articolo citato all’inizio di questo resoconto Netanyahu ha adottato il concetto del “Muro di Ferro”, titolo di un famoso testo del padre della destra sionista, Zeev Jabotinsky, che negli anni ‘20 scrisse che solo dopo che gli ebrei avessero occupato la Terra di Israele con la forza i palestinesi avrebbero accettato la loro esistenza qui. Ma nel Muro di Ferro che Netanyahu ha cercato di costruire per tenere a distanza la questione palestinese stanno comparendo vistose crepe. Non è necessariamente una cosa negativa.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)