I palestinesi non sono bugiardi – contro la violenza della delegittimazione dei media

L'arresto di un giornalista palestinese. Foto: ActiveStills
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Ramzy Baroud e Romana Rubeo

24 gennaio 2023, PalestineChronicle

Il 19 gennaio, durante uno dei suoi raid nella Cisgiordania occupata vicino alla città di Al-Khalil (Hebron), l’esercito israeliano ha arrestato un giornalista palestinese, Abdul Muhsen Shalaldeh. È solo l’ultima di un numero impressionante di violazioni contro i giornalisti palestinesi e contro la libertà di espressione.

Pochi giorni prima durante una conferenza stampa a Ramallah il capo del Sindacato dei Giornalisti Palestinesi (PJS) Naser Abu Baker ha diffuso alcuni numeri tremendi. “Dal 2000 sono stati uccisi cinquantacinque giornalisti dal fuoco o dalle bombe israeliane”, ha detto. Altre centinaia sono stati feriti, arrestati o detenuti. Sebbene scioccante, questa realtà è in gran parte censurata dai principali media.

L’omicidio dell’11 maggio ad opera dell’esercito di occupazione israeliano della veterana giornalista palestinese Shireen Abu Akleh è stata un’eccezione, in parte a causa dell’importanza mondiale della sua testata, Al Jazeera Network. Tuttavia, Israele e i suoi alleati si sono impegnati a nascondere la notizia, ricorrendo alla consueta tattica di diffamare coloro che sfidano la narrativa israeliana.

I giornalisti palestinesi pagano un caro prezzo per portare avanti la loro missione di diffondere la verità sull’attuale oppressione israeliana dei palestinesi. Il loro lavoro non è solo fondamentale per una buona ed equilibrata copertura mediatica, ma anche per la causa stessa della giustizia e della libertà in Palestina.

In un recente rapporto del 17 gennaio, PJS ha dettagliato alcune delle spaventose esperienze dei giornalisti palestinesi. “Decine di giornalisti sono stati presi di mira dalle forze di occupazione e dai coloni durante lo scorso anno, che ha (registrato) il maggior numero di gravi attacchi contro giornalisti palestinesi”.

Tuttavia, il danno inflitto ai giornalisti palestinesi non è solo fisico e materiale. Sono anche costantemente esposti a una minaccia molto sottile ma ugualmente pericolosa: la costante delegittimazione del loro lavoro.

La violenza della delegittimazione

Romana Rubeo, co-autrice di questo articolo, ha partecipato il 18 gennaio a un incontro riservato che ha coinvolto oltre 100 giornalisti italiani con lo scopo di consigliarli su come riferire in modo accurato della Palestina. Rubeo ha fatto del suo meglio per illustrare alcuni dei fatti discussi in questo articolo, su cui è impegnata quotidianamente come caporedattrice di Palestine Chronicle.

Tuttavia, una giornalista israeliana veterana, spesso lodata per i suoi coraggiosi reportage sulla Palestina, ha scioccato tutti quando ha suggerito che non ci si può sempre fidare dei palestinesi per i particolari. Ha detto qualcosa del genere: sebbene la verità sia dalla parte palestinese, non ci si può fidare totalmente di loro sui particolari, mentre gli israeliani sono più affidabili sui dettagli ma mentono sul quadro generale.

Per quanto oltraggioso tale pensiero possa apparire – per non parlare del suo orientalismo [costruzione imperialista della disuguaglianza, dall’omonimo libro 1978 di Edward Said, ndt.] – è una minuzia in confronto alla macchina dell’hasbara [controllo e manipolazione delle notizie sulle politiche del governo e sull’esercito israeliani, ndt.] gestita dallo Stato del governo israeliano.

Ma è vero che non ci si può fidare dei palestinesi per i particolari?

Quando a Jenin Abu Akleh è stata uccisa non era l’unica giornalista presa di mira. Era presente il suo collega Ali al-Samoudi, un altro giornalista palestinese anch’egli colpito e ferito da un proiettile israeliano alla schiena.

Naturalmente al-Samoudi era il principale testimone oculare di quanto era accaduto quel giorno. Ha detto ai giornalisti dal suo letto d’ospedale che non c’erano combattimenti in quella zona; che lui e Shireen indossavano giubbotti stampa chiaramente contrassegnati; che sono stati intenzionalmente presi di mira dai soldati israeliani e che i combattenti palestinesi non erano neanche lontanamente vicini alla distanza di tiro da cui sono stati colpiti.

Tutto ciò è stato negato da Israele e, a propria volta, dai principali media occidentali, poiché presumibilmente “non ci si può fidare dei palestinesi per i particolari”.

Tuttavia, le indagini di organizzazioni internazionali per i diritti umani e infine una timida ammissione israeliana di possibile colpevolezza hanno dimostrato che quello di al-Samoudi era il racconto più dettagliato e onesto della verità. Questo episodio si è ripetuto centinaia di volte nel corso degli anni per cui all’inizio le opinioni palestinesi vengono respinte come false o esagerate e la narrazione israeliana accolta come l’unica verità possibile finché infine viene alla luce la verità che conferma ogni volta la versione palestinese. Molto spesso, la verità dei fatti viene rivelata troppo poco e troppo tardi.

Il tragico assassinio del ragazzo palestinese di 12 anni Mohammed al-Durrah rimane fino ad oggi l’episodio più vergognoso del pregiudizio dei media occidentali. La morte del ragazzo, ucciso dalle truppe di occupazione israeliane a Gaza nel 2000 mentre cercava rifugio accanto al padre è stata essenzialmente attribuita ai palestinesi, prima che la narrazione del suo assassinio fosse riscritta suggerendo che fosse rimasto ucciso nel “fuoco incrociato”. Quella versione della storia alla fine è cambiata con la riluttante accettazione del racconto palestinese sull’evento. Tuttavia, la storia non è finita qui, poiché l’hasbara sionista ha continuato a perseguire la propria narrativa, diffamando coloro che adottano la versione palestinese come anti-israeliani o addirittura “antisemiti”.

(Nessuna) Autorizzazione a narrare

Nonostante il giornalismo palestinese abbia dimostrato negli ultimi anni la sua efficacia – esempio lampante le guerre di Gaza – grazie al potere dei social media e alla loro capacità di diffondere informazioni direttamente ai fruitori di notizie, le sfide rimangono grandi.

Quasi quattro decenni dopo la pubblicazione del saggio di Edward Said “Permission to Narrate” [Autorizzzione a narrare, Journal of Palestine Studies XIII/3 1984, pp. 27-48] e più di dieci anni dopo il fondamentale poema di Rafeef Ziadah “We Teach Life, Sir” [“…non pensi si risolverebbe tutto se la smetteste di insegnare così tanto odio ai bambini?…”] sembra che, in alcune piattaforme mediatiche e ambienti politici i palestinesi debbano ancora ottenere il permesso di narrare, in parte a causa del razzismo anti-palestinese che continua a prevalere ma anche perché, secondo il giudizio della giornalista supposta filo-palestinese, i palestinesi non sono affidabili nei particolari.

Tuttavia, c’è speranza in questa storia. C’è una nuova generazione di attivisti palestinesi, emancipata e coraggiosa – autori, scrittori, giornalisti, blogger, registi e artisti – più che qualificata a rappresentare i palestinesi e a presentare un discorso politico coeso, non fazioso e universale sulla Palestina.

Una nuova generazione alla ricerca della verità

In realtà i tempi sono cambiati e i palestinesi non hanno più bisogno di filtri – come quelli che parlano a loro nome, posto che i palestinesi siano – come si presume – intrinsecamente incapaci di farlo.

Gli autori di questo articolo hanno recentemente intervistato due rappresentanti della nuova generazione di giornalisti palestinesi, due voci forti a favore di un’autentica presenza palestinese nei media internazionali: la giornalista e il redattore Ahmed Alnaouq e Fahya Shalash.

Shalash è una giornalista residente in Cisgiordania; ha trattato della copertura mediatica a partire dalle priorità palestinesi raccogliendo molti esempi di storie importanti che spesso non vengono riportate. “Come donne palestinesi nella nostra vita troviamo molti ostacoli e sono (tutti) legati all’occupazione israeliana; è molto pericoloso lavorare come giornalista. “Tutto il mondo ha visto cosa è successo a Shireen Abu Akleh per aver riferito la verità sulla Palestina”, ha detto.

Shalash ritiene che essere una giornalista palestinese che scrive sulla Palestina non è solo un’esperienza professionale, ma anche emotiva e personale. “Quando lavoro e sono al telefono con le famiglie dei prigionieri o dei martiri palestinesi, a volte scoppio a piangere”.

In effetti, le storie sugli abusi e gli attacchi contro le donne palestinesi da parte dei soldati israeliani raramente sono un argomento mediatico. “Israele indossa la maschera della democrazia; fingono di avere a cuore i diritti delle donne, ma non è affatto quello che succede qui”, ha detto la giornalista palestinese.

Colpiscono le giornaliste palestinesi perché sono fisicamente più deboli; le insultano con un linguaggio davvero spudorato. Sono stata personalmente detenuta dalle forze israeliane per essere interrogata. La cosa ha influenzato il mio lavoro. Mi hanno minacciato, dicendo che se nel mio lavoro avessi continuato a raffigurarli come criminali mi avrebbero impedito di fare la giornalista”.

Nei media occidentali continuano a parlare dei diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere, ma noi non abbiamo alcun diritto. Non viviamo come in qualsiasi altro paese”, ha aggiunto.

Da parte sua Alnaouq, capo dell’organizzazione palestinese “We Are Not Numbers”, ha spiegato come i principali media non permettano mai alle voci palestinesi di essere presenti nei loro reportage. Gli articoli scritti da palestinesi sono anche “pesantemente modificati”.

“È anche colpa dei redattori”, ha detto. “A volte commettono grossi errori. Quando un palestinese viene ucciso a Gaza o in Cisgiordania, i redattori dovrebbero dire chi è l’autore, ma la stampa spesso omette questa informazione. Non menzionano Israele come colpevole. Hanno una specie di agenda da imporre”.

Quando gli abbiamo chiesto come avrebbe cambiato l’informazione sulla Palestina se avesse lavorato come redattore in un importante media occidentale, Alnaouq ha detto:

Direi solo la verità. È questo ciò che vogliamo come palestinesi. Vogliamo la verità. Non vogliamo che i media occidentali siano prevenuti nei nostri confronti o attacchino Israele, vogliamo solo che dicano la verità come è giusto che sia”.

Dare priorità alla Palestina

Solo le voci palestinesi possono trasmettere l’emozione delle drammatiche storie palestinesi, che non arrivano mai alla più vasta copertura mediatica e, quando succede, le storie spesso mancano di contesto, danno la priorità alle opinioni israeliane – se non a vere e proprie bugie – e a volte omettono del tutto i palestinesi. Ma come continua a dimostrare il lavoro di Abu Akleh, al-Samoudi, Alnaouq e Shalash e di centinaia di altri, i palestinesi sono qualificati per produrre giornalismo di alta qualità, con integrità e professionalità.

I palestinesi devono essere il fulcro della narrativa palestinese in ogni sua manifestazione. È tempo di rompere con il vecchio modo di pensare che vedeva i palestinesi incapaci di narrare, o passivi all’interno della propria storia, personaggi secondari che possono essere rimpiazzati o sostituiti da altri ritenuti più credibili e veritieri. Qualcosa di diverso sarebbe giustamente collocato nel pensiero orientalista di un’epoca passata, o peggio.

Ramzy Baroud è giornalista, autore ed redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo, co-curato con Ilan Pappé, è La nostra visione per la liberazione: parlano i leader e gli intellettuali palestinesi impegnati. Fra gli altri libri My Father was a Freedom Fighter e The Last Earth. Baroud è Senior Research Fellow non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA). Il suo sito web è www.ramzybaroud.net

Romana Rubeo è una scrittrice italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli appaiono su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Lingue e Letterature Straniere ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)