Il ricordo del massacro di Sabra e Shatila nelle sofferenze palestinesi passate e presenti

Non dimenticare mai i massacri di Sabra e Shatila
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Rami Rmeileh

18 settembre 2023, TheNewArab

Ancora nessuna giustizia per i palestinesi a 41 anni dal massacro di Sabra e Shatila quando 3.500 persone furono uccise dalle milizie libanesi alleate di Israele. Dato che l’oppressione dei rifugiati palestinesi continua la loro lotta dev’essere sempre ricordata, scrive Rami Rmeileh.

Il 16 settembre 1982 gli abitanti dei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut, per la maggior parte donne, bambini e anziani, pensavano che gli orrori della guerra civile libanese e dell’invasione israeliana sarebbero cessati dopo la partenza dei loro difensori, dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Erano rimasti completamente disarmati e indifesi.

I residenti dei due campi, molti rifugiati provenienti da Beirut est e da altri campi che erano stati distrutti dalle milizie israeliane o libanesi, stavano raccogliendo i pochi brandelli di speranza rimasti dopo 34 anni di sfollamento e 7 anni di sanguinosi scontri. Avevano cieca fiducia nell’umanità, convinti che vite innocenti e disarmate non sarebbero state uccise – in particolare in seguito alla promessa fatta dalle forze di occupazione israeliane (IOF) al diplomatico americano Philip Habib che aveva facilitato il ritiro dell’OLP dal Libano. Tuttavia le Forze di occupazione e i loro alleati di destra in Libano avevano altri piani.

I palestinesi scampati alla morte nei massacri precedenti erano tutt’altro che al sicuro.

Nessuna vita risparmiata

Prima del tramonto i carri armati e le truppe israeliane assediarono i confini di Sabra e Shatila, posizionando i cecchini intorno alle uscite dei campi. Gli israeliani distribuirono sacchi per cadaveri ai combattenti del Partito Cristiano di destra Kataeb (noto anche come Falange) e all’esercito del Libano meridionale e diedero loro il via libera per assaltare il campo. Quei combattenti erano motivati dall’assassinio del comandante delle forze libanesi Bachir Gemayel che era stato eletto presidente settimane prima di cui erano stati ingiustamente incolpati i palestinesi.

Per 43 ore, giorno e notte, intere famiglie furono rastrellate e uccise in modi orribili mentre gli israeliani lanciavano razzi per illuminare la zona. Le donne furono violentate e uccise davanti ai loro figli, i neonati furono mutilati e pugnalati, ci furono donne incinte sventrate, altri furono sepolti vivi e/o gettati in fosse comuni. Le testimonianze rivelano che i libanesi usarono anche i bulldozer delle Forze d’occupazione israeliane per distruggere le case ed assicurarsi che le persone fossero morte.

Nessuna vita fu risparmiata.

In totale circa 3.500 palestinesi, libanesi e altre persone di nazionalità non documentata furono brutalmente assassinati. Le Nazioni Unite lo definirono un atto di genocidio e l’opinione pubblica internazionale si indignò quando furono diffuse immagini orribili. Ciò contribuì solo a disumanizzare ulteriormente le vittime nella loro morte.

Per quel che riguarda le condanne globali, l’unica azione che ne seguì furono alcune donazioni.

L’assenza di giustizia

Ad oggi gli autori dei reati non sono stati processati.

Sebbene Ariel Sharon, ministro della Difesa israeliano, sia stato ritenuto “indirettamente” responsabile del massacro dalla Commissione d’inchiesta Kahan della Knesset israeliana, fu successivamente ricompensato con la carica di Primo Ministro. Nel 2001 un gruppo di 28 sopravvissuti intentò una causa contro Sharon nei tribunali belgi, ma il loro caso fu archiviato su pressione degli Stati Uniti e di Israele.

Non solo, Elie Hobeika, il signore della guerra cristiano libanese che comandava la milizia che entrò nei campi e compì i massacri, che aveva accettato di testimoniare contro Sharon in tribunale fu assassinato nel 2002.

Altri leader rimangono liberi, tra cui Fadi Ephram, che era il capo di stato maggiore falangista, e molti altri leader delle milizie ancora in posizioni di potere nei partiti di destra in Libano.

Per quanto riguarda i combattenti della milizia, quando il regista Lokman Slim intervistò sei dei responsabili nel suo documentario Massaker (2005), nessuno mostrò alcun rimorso e nemmeno raccontò in dettaglio i gesti più raccapriccianti. Spiegano come prima del massacro le Forze d’occupazione israeliane li avessero portati in campi di addestramento nella Palestina occupata e gli avessero fatto guardare documentari sull’Olocausto e detto ai combattenti che sarebbe successo anche a loro come minoranza in Libano se non avessero preso provvedimenti contro i palestinesi. I combattenti svilupparono di conseguenza un rinnovato odio per i palestinesi. Israele aveva generato dei mostri.

In effetti, i massacri di Sabra e Shatila segnarono un’era nuova e difficile per i palestinesi in Libano, dove affrontavano terrore ed esclusione. E nello stesso tempo gli veniva negato il diritto al ritorno da parte di Israele, erano dimenticati dalla leadership palestinese e circondati dal silenzio globale.

Per di più al massacro seguirono anni di torture, interrogatori, rapimenti, sparatorie e intimidazioni. L’obiettivo di questa violenza, facilitata e incentivata da Israele, era quello di spingere i palestinesi fuori dal Libano e il più lontano possibile dai villaggi da cui erano stati sradicati nella Palestina occupata.

Oggi i palestinesi continuano ad essere oggetto di violenze in Libano, strangolati dal sistema legale del paese e dalle sue restrizioni economiche.

Persino la strategia adottata dalla destra libanese negli anni ’80 di espellere i palestinesi dal paese è oggi diventata praticamente impossibile. Le persone sono intrappolate in campi chiusi, soffocate dalla povertà cronica, dalla disoccupazione, dalla cattiva salute e dalla mancanza di istruzione.

La situazione ha spinto alcuni palestinesi a prendere decisioni drastiche, a volte pagando con la vita il tentativo di lasciare il Libano. Proprio l’anno scorso, quando la barca Tartus affondò al largo di Tripoli, 25 palestinesi di cui 6 di Shatila annegarono.

I palestinesi sono inoltre lasciati senza risorse per combattere i signori della droga e le milizie islamiste che utilizzano i campi come basi. Gli scontri ad Ain al Hilweh nelle ultime settimane sono stati agevolati dal governo libanese e da altre fazioni complici il cui obiettivo è la distruzione dei campi palestinesi e del loro tessuto sociale.

Proprio come i massacri, questi fatti servono a soddisfare antiche aspirazioni di alcuni partiti libanesi e cooperano allo stesso tempo all’obiettivo di Israele di allontanare i palestinesi dai propri confini.

Resistenza

I campi profughi in Libano sono sempre stati luoghi di gravi sofferenze ad opera di alcuni dei peggiori sistemi di oppressione che l’umanità abbia prodotto. E i palestinesi sanno fin troppo bene che le loro difficoltà sono il prodotto di questioni intrecciate che si manifestano all’interno dei campi: imperialismo, colonialismo d’occupazione, capitalismo e neoliberismo. Questo è il motivo per cui in passato si sono ribellati piuttosto che aspettare di essere ulteriormente abbandonati da forze esterne.

Anche se la popolazione continua a vivere all’ombra della morte, spesso definendosi “dimenticata”, si descrive anche come “quelli che non dimenticano mai”. Rimangono incrollabilmente fedeli alla lotta per la liberazione e continuano a vivere per il ritorno in Palestina.

Possono essere stati traditi dalle nazioni e dai paesi vicini, ma hanno ancora fiducia nell’umanità. Affinché questo continui, e in assenza di una leadership palestinese unita, è compito della diaspora palestinese e degli alleati globali rafforzare l’impegno per la lotta dei rifugiati palestinesi in Libano. Vanno ricordati non solo in occasione di anniversari significativi.

Lodare i palestinesi per la loro resilienza e ricordare i momenti peggiori della loro storia è ipocrita se non è seguito dall’impegno politico per ottenere il loro diritto al ritorno e alla giustizia.

Il massacro di Sabra e Shatila ripropone l’ininterrotta richiesta dei diritti di tutti i palestinesi – vivi e martiri.

Rami Rmeileh è psicologo sociale e ricercatore dottorando presso l’Università di Exeter – Istituto di studi Arabi e Islamici.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)