Come Israele ha fatto di un insegnante un traditore

L'insegnante Meir Baruchin Foto: Oren Ziv
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Oren Ziv

9 febbraio 2024 – +972 Magazine

I post sui social media relativi al 7 ottobre lo hanno fatto licenziare, arrestare e gettare in prigione. Ora, Meir Baruchin deve lottare per tornare in una scuola che vuole che se ne vada.

Immaginate la scena: un giorno un insegnante di scuola superiore di 62 anni entra nel cortile della scuola e viene accolto da una protesta premeditata da parte degli studenti che si rifiutano di frequentare la sua lezione. “Figlio di puttana!” uno studente gli urla contro. “Buffone!” grida un altro. “Puttana!” strilla un terzo, mentre altri studenti sputano per terra davanti a lui.

Questa è stata l’accoglienza che Meir Baruchin ha ricevuto il 19 gennaio, il giorno in cui è stato reintegrato nella scuola superiore Yitzhak Shamir della città di Petah Tivkah, nella zona centrale di Israele, dopo essere stato licenziato, arrestato e incarcerato per quattro giorni in condizioni di isolamento in una prigione di massima sicurezza. Il suo reato? Due post su Facebook l8 ottobre – il giorno dopo che i miliziani guidati da Hamas avevano massacrato oltre 1.100 persone nel sud di Israele e dopo che Israele aveva iniziato il bombardamento della Striscia di Gaza – in cui condivideva una foto di bambini palestinesi uccisi in un attacco aereo israeliano e implorava di fermare questa follia” e metteva in guardia contro il crescente spargimento di sangue in Cisgiordania.

In unudienza tenutasi 10 giorni dopo presso il Comune di Petah Tikvah, che assume tutti gli insegnanti delle scuole pubbliche della città, Baruchin è stato accusato di condannare i soldati delle IDF [l’esercito israeliano, ndt.], stigmatizzare lo Stato di Israele e sostenere atti terroristici” e licenziato dal suo incarico. Alla ricerca di ulteriori punizioni il Comune ha anche presentato alla polizia una denuncia riguardo alla condotta di Baruchin, che è stato arrestato meno di un mese dopo con laccusa di manifesta intenzione di tradire il Paese”.

Alla fine Baruchin è stato rilasciato su cauzione e il 15 gennaio il tribunale regionale del lavoro di Tel Aviv ha stabilito che era stato licenziato ingiustamente. Il Comune ha presentato ricorso contro la sentenza del tribunale e il procedimento legale è ancora in corso nonostante l’avvenuta reintegrazione il mese passato. E anche se per la preside della scuola, Rachel Barel, sarebbe stato necessario un intervento giuridicamente praticabile per impedire il suo ritorno”, nel frattempo la scuola ha concordato che Baruchin riceverà il suo stipendio insegnando a distanza, registrando le lezioni di educazione civica per gli studenti del 12° anno [in Israele l’ultimo anno delle superiori, ndt.] che si preparano per gli esami di maturità.

Mentre dallinizio della guerra i cittadini palestinesi di Israele hanno dovuto affrontare una persecuzione dilagante, il caso di Baruchin dimostra come, anche se in numero molto minore, anche gli ebrei israeliani di sinistra stanno cadendo vittime della repressione di Stato sulla libertà di espressione. In seguito alla rivolta suscitata dal suo breve ritorno a scuola +972 ha incontrato l’insegnante di storia e educazione civica nella sua casa di Gerusalemme per conoscere la sua esperienza degli ultimi mesi. L’intervista è stata modificata per motivi di lunghezza e chiarezza.

E’ rimasto sorpreso nel ritrovarsi in questa situazione, licenziato e persino arrestato per un post sui social media?

Insegno educazione civica e storia, due materie fortemente politiche. Le dimensioni politiche sono inevitabili, quindi non sono rimasto sorpreso da questa repressione. Non sono il primo ad essere arrestato senza motivi fondati – e se fossi stato palestinese sarebbe andata peggio – e sfortunatamente non credo che sarò lultimo.

Conosco centinaia di insegnanti che hanno paura di parlare apertamente, paura di perdere i propri mezzi di sostentamento. Il mio licenziamento è stato chiaramente un messaggio intenzionale. Lobiettivo è mettere a tacere chiunque sollevi delle critiche minacciandone i mezzi di sussistenza, denunciandolo pubblicamente, infamandolo nei principali media e mandandolo in prigione.

Un ministro del governo ha suggerito di sganciare una bomba atomica su Gaza. Un altro ha chiesto che Huwara [città palestinese in Cisgiordania] venga cancellata. Durante lindagine ho chiesto a chi mi interrogava se avessero convocato tutte le persone che avevano cantato o scritto sui muri Morte agli arabi” o che avevano chiesto che i villaggi palestinesi fossero dati alle fiamme. Che dire di Itzik Zarka [un importante attivista del Likud] che si è detto orgoglioso del fatto che 6 milioni di ebrei ashkenaziti siano stati inceneriti [nell’Olocausto]? Lo avete arrestato? Interrogato? È abbastanza evidente che ci troviamo di fronte ad unapplicazione selettiva delle leggi.

Non si tratta semplicemente di costruire una realtà. È anche una manipolazione deliberata delle coscienze. Attraverso il controllo del sistema educativo, dellesercito e dei media si acquisisce un potere enorme e si può manipolare la popolazione nel modo desiderato. Chi non si adegua è un traditore, un anti-israeliano, un nemico che va trattato come si tratta un nemico.

La sensazione è che come società oscilliamo costantemente tra nevrosi e psicosi. Siamo in uno stato di disintegrazione, incapaci di accogliere coloro che sono diversi da noi. Sono visti come nemici, creano un senso di minaccia. E quando si è minacciati si reagisce violentemente.

Alla base dell’indagine ci sono due post su Facebook scritti l’8 ottobre. Cosa ha detto in quei post?

In uno di essi ho condiviso limmagine dei cadaveri di cinque bambini palestinesi, della famiglia Abu Daqqah, avvolti in lenzuoli bianchi. Di solito non invio queste foto, ma ero così scioccato che volevo che gli israeliani vedessero cosa veniva fatto a loro nome. La maggioranza degli israeliani non se ne interessa. Ho visto che questa foto è stata pubblicata anche su siti web di destra con faccine che ridono ed emoji di applausi e commenti del tipo: “Molti altri così“.

Nel secondo post ho scritto che anche in Cisgiordania si stava verificando un massacro. Quel giorno erano stati uccisi circa cinque palestinesi, alcuni dei quali minori.

Unaltro elemento presentato come prova contro di lei è una schermata proveniente dal WhatsApp di un insegnante che mostra un messaggio in cui lei scrive: I soldati israeliani non hanno mai violentato donne palestinesi? Lo fanno dal 1948. Questo non è contenuto nei libri di testo [di storia]”. Mi parli di questa conversazione.

Il 7 ottobre nel gruppo c’è stato uno scambio di opinioni emotivamente intenso, giustamente. La gente era scioccata, e lo ero anchio. Molti insegnanti hanno scritto cose che esprimevano shock e dolore, e si è sviluppata una discussione sugli obiettivi della risposta israeliana. Hanno scritto che Gaza avrebbe dovuto essere rasa al suolo e Hamas sradicato. Quindi ho chiesto: Qual è il fine? Cosa vogliamo?”

Ho scritto che uccidendo un gran numero di donne e bambini stavamo facendo del male a persone innocenti, cosa impossibile da accettare. Allora qualcuno ha risposto che dopo quello che ci hanno fatto [i palestinesi] se lo meritavano e ha affermato che i nostri soldati non hanno mai violentato le donne palestinesi. Quindi ho corretto questa affermazione. Sul mio telefono ho delle schermate dei diari di David Ben Gurion e Yisraeli Galili [il Capo di Stato Maggiore del gruppo paramilitare sionista pre-statale dell’Haganah] che descrivono casi in cui nel 1948 i nostri soldati hanno violentato donne palestinesi. Da quando sono stato rilasciato ho raccolto ulteriori prove di questo.

Mi racconti del suo arresto e interrogatorio a novembre.

Giovedì 9 novembre intorno alle 14.30 ho ricevuto una telefonata dalla polizia che mi informava che ero convocato per un interrogatorio con l’accusa di istigazione. Quando sono arrivato alla stazione di polizia un detective mi si è avvicinato. Ha confiscato il mio telefono e mi ha portato in una stanza dove mi hanno immediatamente legato mani e piedi e mi hanno portato via l’orologio da polso. [L’orologio, il telefono, il computer portatile e le chiavette USB sono stati restituiti a Baruchin solo tre settimane dopo il suo rilascio.]

Hanno iniziato a setacciare il mio telefono e poi mi hanno mostrato un mandato di arresto e uno di perquisizione dicendomi che avrebbero perquisito la mia casa. Cinque investigatori mi hanno portato a casa mia e, in presenza di due testimoni di cui avevo chiesto la presenza, la hanno messa a soqquadro.

Quella sera sono stato riportato alla stazione di polizia per essere interrogato. L’interrogatorio è durato circa quattro ore. L’investigatrice mi ha mostrato una dozzina di post sulla mia pagina Facebook, ma solo uno di questi era successivo al 7 ottobre. C’erano post di quattro anni fa, alcuni di un anno e mezzo fa.

La sua tecnica era molto manipolatoria. Non mi ha fatto vere e proprie domande. Piazzava le risposte all’interno delle domande. Ad esempio, mi chiedeva qualcosa del tipo: Se giustificasse lo stupro delle donne da parte di membri di Hamas, cosa ne penserebbe di…” – come se avesse già deciso che io giustificavo lo stupro.

E poi è stato messo in cella?

Sì, verso le 23:00. Agli altri detenuti è stato detto di non avvicinarsi né di parlare con me [Baruchin era l’unico ebreo israeliano tra i “prigionieri in regime di sicurezza” del Russian Compound – il centro di detenzione di massima sicurezza a Gerusalemme]. Mi hanno dato due coperte che puzzavano di sigarette. Con una mi coprivo e usavo l’altra come cuscino. Non avevo portato niente con me. Ho indossato gli stessi vestiti per quattro giorni. Mi hanno portato via i lacci delle scarpe e la cintura. Non mi hanno nemmeno permesso di tenere un libro da leggere e ovviamente non potevo guardare la televisione.

Nella cella stavo quasi sempre sdraiato sul letto e fissavo le pareti. Per non impazzire facevo esercizio fisico ogni ora e mezza o due, ma non c’era quasi spazio per muovermi. Una volta al giorno mi lasciavano uscire dalla cella per andare nel cortile, che è un quadrato di cemento recintato su tutti i lati. Per i primi due giorni non sono stato in grado di mangiare nulla [a causa dello stress]. Solo il terzo giorno sono riuscito a mangiare un pezzo di pane con formaggio e cetriolo. L’acqua delle docce era fredda.

Sono stato sradicato da tutto ciò che fa parte della mia vita: la famiglia, gli amici, le attività, gli hobby. Avrei dovuto iniziare a insegnare ai bambini evacuati dai kibbutz che circondano Gaza. Il loro preside voleva che insegnassi cinque giorni alla settimana; ovviamente ciò non è accaduto e non ho avuto nemmeno modo di dire loro che non avrei potuto farlo.

Il secondo giorno del mio arresto c’è stata un’udienza [per il prolungamento della detenzione]. Non ero fisicamente presente in aula; mi hanno condotto in manette nella sala videoconferenze del centro di detenzione, dove riuscivo a malapena a sentire quello che dicevano nel video.

Il rappresentante della polizia ha raccontato una serie di bugie, tra cui il fatto che io avessi giustificato tutte le atrocità commesse da Hamas. Non solo non ho mai giustificato una cosa del genere, ma ho scritto un post in cui condannavo esplicitamente le azioni di Hamas e dicevo che ero scioccato e profondamente ferito dalle atrocità commesse da Hamas. Hanno del tutto ignorato quel post.

Nel corso dell’udienza il giudice è andato di fretta per tornare a casa prima dello Shabbat e non mi ha permesso di parlare. Ha prolungato la mia detenzione fino a lunedì a mezzogiorno, e la questione è finita lì.

Dopo di che è stato interrogato di nuovo: cosa è successo allora?

Domenica sera [il quarto giorno di detenzione] sono stato portato per un altro interrogatorio. Anche questo è durato circa quattro ore. L’interrogante mi ha chiesto di Hamas, cosa pensassi di loro e delle organizzazioni terroristiche in generale. Non sono caduto nella sua trappola. Ad un certo punto ha detto che i miei post erano come i Protocolli degli Anziani di Sion [un famigerato falso che descrive una cospirazione ebraica per conquistare il mondo]. Queste sono state le sue parole.

Sono un insegnante di storia. Ho letto i Protocolli degli Anziani di Sion decine di volte. Ho insegnato l’argomento. Le ho chiesto se avesse mai letto i Protocolli degli Anziani di Sion. Lei è rimasta in silenzio.

Dopo alcune ore ha constatato che non riusciva a ottenere da me ciò che voleva, così ha chiamato il suo comandante più anziano, che mi ha posto anche lui una serie di domande usando esattamente la stessa tecnica. Sapevano benissimo di non avere nulla contro di me.

Il mese scorso le è stato finalmente permesso di tornare al suo posto di insegnante, ma presto la situazione è diventata insostenibile. Cos’è successo al suo rientro?

Il mio primo giorno di rientro è stato un venerdì e il venerdì di solito insegno in due classi del 12° anno. Quella mattina la preside mi ha mandato una mail dicendomi che ci sarebbe stata una grande manifestazione e che sarebbe stata presente la polizia. La mattina mi ha accompagnato in classe. Tutti gli studenti si sono rifiutati di restare in classe, tranne uno che non aveva portato con sé il quaderno, per cui è uscito anche lui. Sono rimasto in classe da solo. Due ragazze di un’altra classe sono entrate per curiosità e abbiamo avuto una piacevole conversazione.

Poi sono andato nell’aula professori e durante la pausa decine di studenti hanno bussato alla porta e alle finestre. Gridavano: Figlio di puttana! Tua madre è una puttana! Che ti venga un cancro! Violenteremo tua figlia!” Nessuno ha cercato di fermarli: né la preside, né gli addetti alla sicurezza all’interno della scuola, né la guardia al cancello. Non è stato chiamato alcun agente di polizia. C’erano due genitori fuori dal cancello che hanno solo peggiorato le cose.

Nei giorni successivi sono rimasto sotto assedio nella sala professori. Decine di studenti non frequentavano le lezioni, in realtà con l’autorizzazione. Nell’aula docenti c’erano circa 12-15 insegnanti di cui due o tre mi si sono avvicinati per stringermi la mano esprimendo empatia. Uno di loro mi è rimasto vicino per tutta la giornata.

Poi, alla fine della giornata, decine di studenti si sono presentati alla porta dell’edificio che conduce all’aula professori. Volevo andare a casa e la preside e la guardia di sicurezza mi hanno scortato fino alla porta.

A 30 metri dal cancello della scuola c’erano decine di studenti che imprecavano e mi sputavano contro. Quando ho lasciato il portone della scuola i genitori e gli studenti mi hanno inseguito continuando a imprecare e sputare. La settimana successiva è accaduta la stessa cosa.

Come ha risposto la scuola?

Lunedì sera [22 gennaio], la preside ha inviato un messaggio al gruppo WhatsApp dei genitori dicendo che la scuola, educando alla tolleranza, non accettava alcuna violenza verbale. Ma la realtà si è dimostrata completamente diversa.

Al mio successivo rientro la preside mi aveva suggerito di entrare nella scuola dall’ingresso sul retro, ma ho rifiutato. Sarei entrato solo dall’ingresso principale. Avrebbero potuto imprecare, sputare, picchiarmi: non avrei risposto. Se un quindicenne pensa che sia giusto sputare addosso a un uomo di 62 anni, non ho niente da dire al riguardo.

Dopo aver perso in tribunale volevano rendermi la vita infelice e rendermi insopportabile il tempo trascorso a scuola. Pensavano che ciò mi avrebbe spezzato.

Perché è importante per lei postare sui social media su ciò che sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania?

Lopinione pubblica israeliana non sa cosa viene fatto in suo nome, né in Cisgiordania né a Gaza, per come lo Stato manipola la nostra coscienza. Non appare nei media, certamente non nei principali. E a quelli che lo sanno non importa. Nei miei post cerco di portarlo alla loro attenzione. E voglio mostrare nomi e volti: Guardateli! Guardateli! Alcuni di loro sono bambini! Guarda cosa stanno facendo in vostro nome! Potete convivere con questo?” Se i media facessero il loro lavoro, non dovrei farlo io.

Molte volte le persone mi hanno accusato di non scrivere di ciò che ci fanno i palestinesi. E io rispondo sempre che non hanno bisogno che lo faccia io: hanno tutti i media, la tv, la stampa, la radio, internet. Uso la mia pagina Facebook per scrivere di ciò che non sanno, non di ciò che sanno già. E c’è qualcosa che non va in loro se non capiscono che quello che è successo il 7 ottobre mi ha profondamente scioccato e ferito.

Qual è il suo approccio pedagogico, come insegnante di storia e di educazione civica che lavora in una società del genere?

Per me, leducazione ai valori” e linsegnamento vanno di pari passo. Non cerco di instillare i miei valori nei miei studenti: presento una serie di valori e lascio che i miei studenti, che hanno 16 o 17 anni, capiscano da soli quali saranno quelli a cui attenersi. Il punto non è che io sia soddisfatto ma che loro si sentano contenti di se stessi.

Insegno da 35 anni e nessuno studente ha cambiato ciò che pensava a causa di qualcosa che ho detto in classe. Se pensa che io abbia il potere di far cambiare loro idea, non sta rendendo sufficiente merito agli studenti. Non sono marionette e non sono io a tenere i fili. Spesso non sono d’accordo con me e può svilupparsi una conversazione rispettosa. Questa è la filosofia della mia professione e rende le lezioni interessanti. Anni dopo la laurea molti di loro restano in contatto e mi mandano messaggi del tipo: Sa, solo adesso capisco il significato di ciò di cui abbiamo parlato in classe”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)