Contro l’ipocrisia dell’accademia e della politica

Maya Wind
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Contro l’ipocrisia dell’accademia e della politica

Wind M., Towers of Ivory and Steel. How Israeli Universities Deny Palestinian Freedom [Torre d’avorio e acciaio. Come le università israeliano negano la libertà ai palestinesi], Verso Books, 2024, London/New York, 288 pagine.

Recensione di Amedeo Rossi

 Mentre nelle università statunitensi ed europee si intensificano le proteste contro la collaborazione con le istituzioni accademiche e il complesso militare industriale israeliani, il libro di Maya Wind rappresenta uno strumento fondamentale per denunciare quello che le istituzioni occidentali molto spesso si rifiutano di vedere.

L’autrice, antropologa israeliana che insegna all’università canadese della British Columbia e in precedenza attivista nel suo Paese, in questo lavoro estremamente approfondito smentisce ogni ipocrisia relativa alla neutralità del sapere e del lavoro accademico in Israele. Il libro evidenzia anche quanto sia fuorviante l’opposizione al boicottaggio riguardante il bando MAECI per la collaborazione con le università israeliane nei settori della tecnologia del suolo, dell’acqua e dell’ottica di precisione. Wind dimostra come sia tradizionalmente pervasiva la vicinanza tra istituzioni accademiche, governi e forze di sicurezza israeliane e le università siano parte integrante del progetto di colonizzazione ed espulsione dei palestinesi dalla loro terra. Si tratta di un argomento già trattato in altre ricerche, anche italiane, ma il fatto di essere israeliana ha consentito all’autrice l’accesso ad archivi, documenti e fonti in ebraico che, come evidenzia anche l’abbondanza di note e riferimenti, le consentono un’indagine più diretta. E lo fa con nomi e cognomi degli accademici che partecipano a questa stretta collaborazione.

Il volume si divide in due parti, “Complicità” e “Repressione”, e inizia con un breve saggio della studiosa palestinese Nadia Abu El-Haj e si chiude con un testo dello storico statunitense Robin D. G. Kelley.

Wind chiarisce subito quale sia il suo intento: “Le università israeliane sono complici nella violazione dei diritti dei palestinesi? Questo libro intende rispondere a questa domanda svelando come le università israeliane siano coinvolte nel sistema di oppressione israeliano.”

Questa complicità risale alle origini della colonizzazione sionista. L’Università Ebraica (1918) è stata ideata per essere “un avamposto strategico del movimento sionista e avanzare pretese simboliche e politiche su Gerusalemme”, mentre il Technion (1925) e l’Istituto Weizmann (1934) “sono state fondate per lo sviluppo scientifico e tecnologico” del futuro Stato di Israele, afferma l’autrice, a partire dall’applicazione in ambito militare delle loro competenze.

La sua analisi non inizia dalle facoltà scientifiche legate direttamente al complesso militare-industriale, ma dalle discipline umanistiche, im particolare archeologia, orientalistica, diritto e criminologia. L’archeologia, scrive Wind, “costruisce prove per sostenere le rivendicazioni israeliane sulla terra attraverso la cancellazione della storia araba e musulmana e convalida l’uso israeliano di scavi per espandere le colonie israeliane ed espropriare terra palestinese.” La disciplina ha avuto fin da prima della fondazione dello Stato la funzione di legittimare la rivendicazione su base biblica della Palestina come terra ebraica. Ma l’archeologia viene utilizzata anche come mezzo per cacciare i palestinesi dalla Cisgiordania, e quindi fa pienamente parte del sistema di occupazione. Wind cita il caso degli abitanti di Susiya, nel sud della Cisgiordania, dove esercito e coloni, con l’attiva collaborazione dell’Università Ebraica di Gerusalemme, da anni minacciano di espulsione gli abitanti anche in base al ritrovamento di un’antica sinagoga. L’orientalistica funge da base ideologica per certificare l’inferiorità dei popoli arabi, diffondendo i pregiudizi dell’Occidente. A proposito di nomi e cognomi, un tipico esempio è il professore di etica dell’università di Tel Aviv Asa Kasher, che ha elaborato un’interpretazione delle leggi internazionali e di guerra ad uso e consumo delle politiche israeliane e delle prassi militari che legittimano l’uccisione dei civili palestinesi. Nel 2002 ha fatto parte di un’apposita commissione che ha stabilito il numero di civili che è lecito uccidere nelle esecuzioni “mirate” di militanti palestinesi per salvare la vita di un israeliano. Gli esperti hanno concordato come accettabile una media di 3,14 civili per ogni ipotetica vittima israeliana. Presso l’università di Haifa Kasher ha redatto la “Dottrina etica per combattere il terrorismo”, con i risultati che si sono visti a Gaza, anche prima del 7 ottobre. Ha anche stilato le linee guida per censurare i suoi colleghi dissidenti. Non sono solo gli accademici a contribuire attivamente al sistema di dominazione messo in atto da Israele, ma addirittura gli stessi edifici universitari. Wind cita tre casi: l’Università Ebraica a Gerusalemme, quella di Haifa nel nord e la Ben Gurion nel Negev (Naqab), a sud. Oltre ad essersi impossessata dei libri sequestrati nelle biblioteche della Cisgiordania attraverso un vero e proprio saccheggio, l’Università Ebraica è stata costruita su terreni del villaggio palestinese di Sheikh Badr. Essa svolge un ruolo attivo nel progetto di “ebraizzazione” di Gerusalemme e nelle vessazioni a danno degli abitanti palestinesi di Issawiyeh, che si trova nei pressi del campus. Le altre due università sono impegnate, soprattutto con il lavoro dei demografi, nell’elaborare le modalità di espulsione degli abitanti palestinesi con cittadinanza israeliana e della loro sostituzione con immigrati ebrei. L’università di Haifa ha promosso la legge che consente ai “comitati di accoglienza” di negare la residenza a persone non gradite in comunità che intendano rimanere esclusivamente ebraiche. All’interno di queste università viene comunemente accolto un folto contingente di militari e membri dei servizi di sicurezza, che rappresentano una concreta intimidazione nei confronti degli studenti palestinesi ed ebrei di sinistra. Infine l’autrice cita l’università di Ariel, che si trova nell’omonima colonia, illegale in base alle leggi internazionali, ma con cui alcune istituzioni accademiche italiane, come Firenze e Milano, hanno stretto rapporti di collaborazione annullati solo dopo le proteste degli studenti e delle associazioni filo-palestinesi. Questa università “ha trasformato…la percezione [di Ariel] da parte dell’opinione pubblica israeliana da una colonia illegale e fortemente militarizzata a un sobborgo di Tel Aviv […] L’istituzione conferisce lauree come mezzo per estendere la sovranità israeliana e procedere nell’annessione dei Territori Palestinesi Occupati,” scrive Wind.

Più evidente e nota è la collaborazione delle facoltà scientifiche con l’apparato militare, con l’occupazione e il processo di espulsione dei palestinesi. Questo vale non solo per le ricerche tecnologiche direttamente legate all’industria militare, ma in generale per il mondo universitario israeliano.

Nella seconda parte del libro, a smentita della presunta democraticità del mondo accademico israeliano, Wind evidenzia la metodicità della repressione nei confronti dei docenti, non solo di origine palestinese, ma anche ebrei critici con le politiche del governo, spesso obbligati ad andare a insegnare all’estero, come Ilan Pappé e Neve Gordon. Ma la questione di fondo è che non possono esistere libertà e sviluppo “etico” delle conoscenze in un contesto coloniale. Nel caso del bando MAECI, non ci sono legittimi dubbi solo riguardo al doppio uso civile/militare dell’ottica di precisione, ma anche gli altri due settori coinvolgono direttamente le politiche e le pratiche della dominazione israeliana. Infatti le tecnologie del suolo e dell’acqua rientrano a pieno titolo nelle politiche di dominazione dei palestinesi. E, come ricorda Wind, sia che si tratti di tecnologie belliche che di ricerche ed elaborazioni teoriche, le “scoperte” israeliane hanno un’evidente applicazione pratica e vengono pubblicizzate come prodotti “testate sul campo”, cioè sui palestinesi. Il modello stesso di stretta collaborazione tra accademia, esercito e industrie belliche è stato ormai adottato anche in Italia.

C’è da augurarsi che venga tradotto al più presto in italiano questo libro, uno strumento fondamentale per chi sostiene il boicottaggio accademico di Israele. E andrebbe accolto l’appello di Maya Wind nelle conclusioni: È nostro dovere chiedere di interrompere i rapporti con l’accademia israeliana fino a quando non prenderà parte al processo di decolonizzazione.”